Il volto nero della Germania

Scritto da in data Luglio 22, 2018

Si chiude con una condanna all’ergastolo il processo contro il Nationalsozialistischer Untergrund (Nsu), il gruppo neonazista che per tredici anni ha operato in clandestinità in Germania, contando su una rete di camerati amici e di servizi segreti complici.

Di Paola Mirenda, da Lipsia per Radio Bullets

Uwe Mundlos, Beate Zschäpe e Uwe Böhnhardt nella foto segnaletica diffusa dalla polizia della Turingia nel febbraio 1998. I tre erano ricercati perché sospettati di aver piazzato un ordigno esplosivo artigianale nella Theaterplatz di Jena nel settembre 1997.

Dopo più di cinque anni di dibattimento e 437 udienze, è stata infine pronunciata la sentenza contro Beate Zschäpe, l’estremista di destra accusata di complicità in dieci omicidi (di cui nove ai danni di persone di origine straniera), 15 rapine, tre attentati e altri reati compiuti in Germania tra il 1998 e il 2011. Il 3 luglio scorso il giudice Manfred Götzl aveva messo fine al procedimento giudiziario in corso a Monaco di Baviera e dato appuntamento all’11 luglio per il verdetto, che puntuale è arrivato: ergastolo per lei, pene fino a dieci anni per i suoi coimputati. Nello stesso giorno, in diverse città tedesche, ci sono state manifestazioni per ricordare che, nonostante la sentenza, sulle vicende della Nsu (Nationalsozialistischer Untergrund, il gruppo di cui facevano parte, oltre a Beate Zschäpe, Uwe Mundlos e Uwe Böhnhardt), nessuno ha ancora fatto chiarezza. Non l’ha fatta l’unica superstite (Mundlos e Böhnhardt sono morti nel novembre 2011, in quello che la polizia ha definito un omicidio-suicidio dopo una rapina fallita), non l’hanno fatta gli altri quattro coimputati e non l’hanno fatta le decine di testimoni chiamati alla sbarra. Beate Zschäpe, che nell’ultima udienza ha chiesto scusa e si è dichiarata “rammaricata” per il dolore dei parenti delle vittime e “non colpevole”, non ha raccontato su quale sostegno il gruppo avesse potuto contare nei 13 anni passati in clandestinità. La polizia non ha spiegato perché nelle sue indagini abbia per anni insistito sulla falsa pista degli omicidi della mafia turca anziché puntare in direzione della destra estrema. Gli agenti sotto copertura nella scena neo-nazi tedesca non hanno spiegato quanto sapessero e quante vittime avrebbero potuto evitare. E l’Ufficio per la protezione della Costituzione (i servizi segreti interni) non ha chiarito come per anni abbia potuto pagare come confidenti estremisti di destra, che hanno usato i soldi statali per comprare armi e organizzare reti semiclandestine.

 

La casa di Frühlingsstraße 26, a Zwickau, ultimo domicilio dei tre. Il 4 novembre 2011, dopo aver saputo della morte dei suoi due compagni, Beate Zschäpe darà fuoco all’abitazione prima di darsi alla fuga. Quattro giorni dopo si consegnerà alla polizia. L’amministrazione comunale ha acquistato la casa nel 2012 dai proprietari e l’ha fatta demolire, per evitare che diventasse un luogo di pellegrinaggio dell’estremismo di destra.

 

È il dicembre del 1998 quando il gruppo di Beate Zschäpe, Uwe Mundlos e Uwe Böhnhardt compie la prima rapina, in un supermercato della catena Edeka a Chemnitz, in Sassonia. Bottino, 30mila marchi tedeschi. Qualche mese prima Uwe Böhnhardt era stato colpito da un mandato di cattura per detenzione di esplosivi e da allora il gruppo si era dato alla fuga, diventando di fatto untergrund, clandestino.

Alle loro spalle hanno numerosi episodi di violenza, una appartenenza acclarata nell’ambiente neonazista della Turingia, la loro regione di provenienza, e diverse segnalazioni per reati legati all’estremismo di destra. Nel 1999 ancora due rapine e un attentato in un locale di Norimberga, poi inizia la lunga serie di omicidi: è il settembre 2000 quando a Norimberga viene ucciso Enver Şimşek, un commerciante di fiori di origine turca. Gli sparano in faccia, poi fuggono in bicicletta. A giugno dell’anno dopo, sempre a Norimberga, un altro cittadino di origine turca, Abdurrahim Özüdogru, viene colpito a morte da due proiettili. Passano appena due settimane ed è la volta di Süleyman Taşköprü, che ha 31 anni e fa il fruttivendolo a Amburgo; lavora come fruttivendolo anche Habil Kılıç, 38 anni, ucciso due mesi dopo – siamo nell’agosto del 2001 – a Monaco, settecento chilometri più a sud. Di tutti questo omicidi Beate Zschäpe dirà di non saperne nulla, dirà di esserne stata messa al corrente solo a fatto compiuto. Per l’accusa, l’imputata non è credibile. Per la difesa, non ci sono prove concrete né della sua partecipazione né della sua complicità.

Beate Zschäpe e Uwe Böhnhardt in vacanza nell’estate del 2004. Le foto sono state diffuse dalla polizia criminale nell’ambito delle indagini sul Nsu.

Il processo si è giocato su questo punto: sapeva o non sapeva? I testimoni interrogati sostengono versioni diverse tra loro: Zschäpe gestiva le finanze del gruppo, aveva contatti con chi aveva fornito le armi, disponeva di undici diverse identità con cui affittava appartamenti per il Nsu; ma Zschäpe non è mai stata vista sulla scena di nessun reato e nell’unica volta in cui ha preso direttamente la parola al processo, il 27 giugno 2018, ha parlato di sé come di una persona succube e plagiata dai due uomini che aveva amato.

Per tre anni, tra il 2001 e il 2004, il gruppo sospende gli omicidi ma non le rapine: si calcola che in tutto abbiano rubato l’equivalente di quasi 600mila euro, di cui una parte poi ritrovati. Il loro obiettivo preferito erano le Sparkasse della loro zona di riferimento, tra Zwickau e Chemnitz, nel sud della Sassonia, una cinquantina di chilometri dal confine con la Repubblica ceca. È nel 2004 che ricomincia la serie di assassini che la stampa, facendo propria la pista seguita dalla polizia, definirà Dönermorde, omicidio del kebab: il 25 febbraio 2004 a Rostock la banda uccide Mehmet Turgut, 26 anni, sparandogli tre colpi in testa. Mehmet Turgut lavora in effetti in un negozio di kebab, anche se a Rostock è solo andato a trovare un amico, così come da un venditore di kebab lavora İsmail Yaşar, ucciso l’anno dopo, il 9 giugno 2005, a Norimberga. Per gli investigatori gli omicidi sono da ricondurre a faide criminali interne alla comunità turca e il termine Dönermorde, con tutte le sue implicazioni razziste, resterà in voga a lungo. Ma Theodoros Boulgarides, assassinato appena una settimana dopo – il 15 giugno 2005 – a Monaco, non è turco e lavora in un negozio che duplica chiavi. L’anno successivo ci saranno altri due omicidi, a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro: il 4 aprile 2006 viene ucciso a Dortmund Mehmet Kubaşık, il 6 aprile a Kassel, in un internet café, muore Halit Yozgat. È l’ultima vittima straniera del terzetto. Dopo di lui solo un altro omicidio, quello della poliziotta Michèle Kiesewetter, il 25 aprile del 2007.

Halitplatz a Kassel. Nell’ottobre 2012 è stata inaugurata la stele commemorativa per l’ultima vittima straniera del Nsu, di fronte all’internet café dove Halit venne ucciso. La piccola piazza che accoglie la targa porta oggi il suo nome.

 

La morte di Yozgat, che segna la fine dell’attività omicida razzista della Nsu, è anche il punto focale su cui si incentreranno le critiche sulle responsabilità di alcuni organismi governativi nelle azioni dei gruppi di estrema destra tedeschi. Perché nell’internet café, quando Halit viene ucciso, c’è un cliente particolare: si tratta di Andreas Temme, funzionario dell’Ufficio per la protezione della Costituzione (Bundesamt für Verfassungsschutz, in sigla BfV, uno dei servizi di intelligence tedeschi) dell’Assia, il Land in cui si trova Kassel. Temme, che da ragazzino nella sua città era chiamato “il piccolo Adolf”, non si presenta subito a testimoniare. In seguito, dirà di non aver sentito né visto nulla, nemmeno il corpo di Yozgat, agonizzante e ancora vivo, dietro la scrivania. Le commissioni di inchiesta che si sono costituite dopo il novembre 2011, quando cioè tutti gli omicidi sono stati attribuiti al Nsu, hanno provato come l’uomo abbia avuto, nei momenti prima e dopo l’omicidio, contatti telefonici con almeno un altro esponente dell’estrema destra, reclutato come informatore. La procura ha archiviato, nel 2015, le accuse contro di lui e i file che lo riguardano sono protetti per 120 anni dal segreto di Stato.

Temme non è l’unico lato oscuro; altri estremisti di destra risulteranno nel libro paga del BfV, come informatori (V-mann) e infiltrati.  Per esempio Tino “Oskar” Brandt, che tra il 1994 e il 2001 è uno dei maggiori informatori della Turingia e uno dei nomi più noti dell’estrema destra locale, un personaggio di spicco attorno al quale ruotano anche Beate Zschäpe, Uwe Mundlos e Uwe Böhnhardt. Quando i tre si danno alla clandestinità e cercano denaro, Brandt li aiuta “per sei o sette volte”, dirà al processo, usando anche i soldi guadagnati come informatore. Brandt è in contatto anche con uno dei coimputati di questo processo, Carsten Schultze, il ragazzo che ha comprato l’arma con cui il Nsu firmerà i suoi omicidi, una Česká CZ 83: Brandt non può escludere di aver dato soldi anche a lui. Stefan Aust, redattore di Welt, ipotizza che lo stesso Mundlos fosse un informatore del BfV. Al processo e nelle commissioni di inchiesta escono fuori molti nomi di V-mann implicati nella vicenda Nsu. C’è Carsten Szczepanski alias “Piatto”, che ha militato nell’Npd (Nationaldemokratische Partei Deutschlands) e che ha tentato di fondare una sezione tedesca del KuKluxKlan, incarcerato per tentato omicidio e poi per sei anni nel libro paga dei servizi segreti. Ora è inserito in un programma di protezione testimoni; Ralph Marschner, alias “Primus”, agente sotto copertura, che ha dato lavoro a Uwe Mundlos nella sua azienda e forse anche a Beate Zschäpe. Contro di lui sono state avviate 17 indagini preliminari ma il BfV l’ha sempre protetto; Thomas Richter alias “Corelli”, per 18 anni uno dei più importanti informatori, il cui nome era nell’agenda di Mundlos. Corelli è morto improvvisamente nel 2014 di diabete non diagnosticato, prima di un interrogatorio di polizia. Aveva 39 anni e solo nel 2015 il suo cellulare di servizio, contenente nomi e foto, è ricomparso nella cassaforte dell’Ufficio federale di protezione della Costituzione. Secondo il settimanale Die Zeit, erano almeno 25 gli informatori che ruotavano intorno alle attività del Nsu. Un numero considerevole di persone, che non hanno potuto o voluto impedire gli omicidi. Sul loro ruolo, sulle loro azioni, sui soldi presi, il BfV ha posto il segreto di Stato.

Tino Brandt durante una manifestazione della Thüringer Heimatschutz, organizzazione nazista di cui era a capo. Dal 1994 e fino al 2001 è stato un informatore dei servizi segreti. Con i soldi presi dallo Stato ha finanziato numerose attività della scena neonazi, nonché lo stesso Nsu.

 

La storia del Nsu può considerarsi chiusa con la fine del processo? I difensori degli imputati hanno annunciato ricorso e allo stesso tempo i parenti delle vittime e molti politici chiedono conto del rapporto tra gli apparati dello Stato e la galassia nazista diffusa in tutta la Germania. Ma c’è anche altro. Gli informatori si muovevano (e si muovono ancora) in una rete ben consolidata e vasta di movimenti di estrema destra che conta su qualche migliaio di fedeli sostenitori dell’ideologia nazista.  Come Ralf Wohlleben, esponente dell’Npd, condannato a dieci anni per aver procurato l’arma degli omicidi, organizzatore di raduni e concerti dei neonazi in Turingia, difeso da un’avvocata ben nota tra gli estremisti di destra, Nicole Schäfer, lei stessa da giovane militante con nostalgie hitleriane. Pochi mesi dopo il suo arresto nel 2011, nelle manifestazioni dell’estrema destra tedesca circolava una maglietta con la scritta “Freiheit für Wolle” e il disegno di una pecora. Ma il riferimento era chiaro: libertà per Wohlleben, il leone. E i suoi 40 anni sono stati festeggiati da centinaia di persone con post su twitter e facebook, tutti con la parola “solidarietà”.

Il logo usato dagli estremisti di destra per magliette, spille e come “motivo” per le foto-profilo. “Libertà per Wolle”, soprannome di Ralf Wohlleben.

 

Beate Zschäpe, Uwe Mundlos e Uwe Böhnhardt non sono dunque tre “esaltati isolati”, come i media li hanno spesso descritti. Appartengono invece a una galassia ampia, che la Fondazione Amadeu Antonio quantifica in circa 22.300 persone, di cui almeno 5.800 membri attivi di gruppi e 12mila “inclini alla violenza”, disposti a passare in clandestinità o ad aiutare chi è già untergrund. Gente che ha appena eletto un nuovo mito: André Eminger, coimputato nel processo Nsu, fondatore di diversi movimenti neonazi assieme al fratello gemello, già figura di leader nella scena della Turingia.

Il trentasettenne Eminger porta la sua ideologia scritta sul corpo, a partire dal tatuaggio sulla pancia “Die, Jew, Die” (“muori ebreo muori”) risalendo fino al capezzolo destro, dove spicca il volto di Horst Wessel, sottotenente delle Sa (Sturmabteilung, braccio armato del partito nazista). Per tutto il tempo del processo è rimasto in silenzio, rifiutandosi di rivolgersi ai giudici. Non lo ha fatto nemmeno quando è stato messo sotto custodia cautelare in attesa della sentenza, non lo ha fatto quando è stato letto il verdetto che sostanzialmente lo rimette in libertà. Eminger era accusato di complicità per aver più volte affittato veicoli e abitazioni per Beate e i due Uwe, ma anche per aver contribuito a costruire l’immagine di “rispettabilità” del terzetto durante la loro latitanza. Lui e la moglie Susann abitavano a pochi chilometri di distanza dai tre, che andavano ogni settimana a trovare con i loro figli, fingendosi parenti. In una occasione, è Eminger a fornire una falsa identità a Beate, facendola passare per sua moglie ed evitando così che la polizia ne scopra il vero nome. È André l’uomo che Zschäpe chiama il 4 novembre del 2011, dopo aver saputo che i suoi due complici sono morti e presumibilmente dopo aver già dato fuoco alla casa che con loro condivideva a Zwickau. André la va a prendere, dopo un lungo giro la porta alla stazione, la saluta al treno. Quattro giorni dopo Beate si consegnerà alla polizia. André Eminger non è un vicino qualunque, è un notissimo militante dell’estrema destra, fondatore assieme al fratello gemello Maik di gruppi nazisti e sovranisti, difensore della “razza ariana”, partecipante a raduni dell’estrema destra anche durante il processo, così come alle manifestazioni di Pegida, il movimento anti-islam e anti stranieri che proprio in Sassonia è nato. Eminger non guarda mai in faccia i giudici, dicono le cronache, gioca con il suo computer, ostenta magliette che ribadiscono la sua appartenenza al neonazismo tedesco. Quando in aula è chiamato a testimoniare un altro estremista di destra, la  t-shirt di Eminger parla chiaro: “Brüder schweigen – bis in den Tod”, i fratelli tacciono fino alla morte, c’è scritto.  Quella di parlare per simboli è una costante al processo, e non a caso Beate Zschäpe sceglierà all’inizio tre avvocati dai nomi evocativi: Wolfgang Heer, Wolfgang Stahl e Anja Sturm (armata, acciaio, tempesta). La strategia del silenzio si rivelerà utile per Eminger, i giudici accetteranno le ricostruzioni della difesa che parlano di amicizia e non di complicità, che ammettono l’aiuto logistico ma negano la conoscenza del fine terroristico. La condanna arriverà per sostegno a gruppo terrorista e non per tentato omicidio.

André Eminger. Il tatuaggio recita “Muori, ebreo, muori”. Sopra il capezzolo destra spicca il tatuaggio di un sottotenente delle S.A. Intorno all’ombelico, i numeri 8 che nell’iconografia nazista indicano le iniziali di Hitler.

 

La mite condanna di André Eminger, due anni e mezzo di carcere con rilascio immediato, è stata salutata con un applauso dai suoi camerati presenti alla lettura della sentenza: “uno schiaffo in faccia alle vittime”, dice uno degli avvocati di parte civile. Quella pena così leggera conferma quello che uno dei neonazisti dice con orgoglio e spocchia uscendo dall’aula del Tribunale di Monaco: “Abbiamo vinto noi”.

Una settimana dopo la fine del processo, anche Ralf Wohlleben verrà rimesso in libertà, avendo scontato già sei anni e mezzo di carcerazione preventiva. 

 

 

Numeri:

  • Il Nsu, il cui gruppo principale è composto da Beate Zschäpe, Uwe Mundlos e Uwe Böhnhardt, opera tra il 1998 e il 2011; gli omicidi vanno dal 2001 al 2007; le vittime sono dieci, otto di origine turca, una di origine greca, una vittima è una agente di polizia.
  • Nel novembre 2011, dopo una rapina fallita, Uwe Mundlos e Uwe Böhnhardt vengono trovati morti nel loro camper. Per la polizia di tratta di omicidio-suicidio. Nello stesso giorno Beate Zschäpe dà fuoco alla loro abitazione a Zwickau e quattro giorni dopo (l’8 novembre ) si consegna alla polizia. È solo in questo momento che diventa chiaro il legame tra i delitti finora insoluti.
  • Per sei anni gli investigatori hanno insistito sulla “pista turca”, fino al punto di vessare i parenti delle vittime per costringerli a confessare inesistenti legami tra i morti e la criminalità organizzata.
  • Il processo è iniziato il 13 maggio 2013, la sentenza è stata pronunciata l’11 luglio 2018. Cinque i giudici (più uno supplente) presieduti da Manfred Götzl. Cinque anche gli imputati: Beate Zschäpe (condannata all’ergastolo), Ralf Wohlleben (dieci anni), Carsten Schultze (minorenne all’epoca dei fatti, condannato a 3 anni), Andre Eminger (due anni e sei mesi), Holger Gerlach (tre anni).
  • Al processo sono stati sentiti 597 tra testimoni ed esperti.

Per saperne di più: 

Il processo è stato seguito attentamente da Nsu-watch. Qui si possono leggere le trascrizioni del processo a partire dal maggio 2013 e fino al marzo 2018.

Il canale ZDF ha prodotto diversi documentari su Nsu.  Si possono ricercare a partire da questo link e saranno disponibili nella mediateca fino al luglio 2019.

Moltissimi documenti relativi al processo e alle indagini di polizia sono disponibili all’interno dei Nsu-leaks, che potete consultare a questa pagina.

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