Le sliding doors dell’Nba

Scritto da in data Febbraio 24, 2019

Le sliding doors dell’NBA

Ci sono storie di personaggi sportivi iniziate bene e finite male, poi ci sono quelle iniziate male e finite peggio e poi ci sono quelle storie straordinarie che, nonostante una tragicità iniziale, finiscono con un inaspettato ma meraviglioso lieto fine. Quante volte ci siamo trovati di fronte a dover prendere delle decisioni potenzialmente decisive per il nostro futuro: “se avessi detto quella cosa, se avessi fatto così anziché colà” tutti quanti noi abbiamo avuto a che fare con quelle che vengono comunemente chiamate sliding doors. I protagonisti di questo podcast hanno avuto, più volte, l’occasione di vedere la propria vita ribaltata visto che, spesso, si sono ritrovati a camminare su un filo, come dei funamboli, con il paradiso da una parte e l’inferno dall’altra. Accomodatevi e prendete posto sulla Delorean: si va negli States a scoprire alcune delle storie più incredibili che coinvolgono i giocatori della lega di pallacanestro più famosa al mondo: l’NBA.

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Keon Clark – Dall’NBA al carcere

Tra le storie iniziate bene e finite male c’è sicuramente quella di Keon Clark un ragazzone di più di due metri che ha avuto il privilegio di giocare in NBA.

Figlio di una ragazza madre, Clark cresce in un complesso residenziale di Carver Park e, pur mancandogli la figura paterna, ha un’infanzia piuttosto felice: è uno studente come tanti che preferisce le battute e gli scherzi ai libri ma che riesce, grazie al talento e alla predisposizione per il basket, ad ottenere diverse borse di studio per il college. Sceglie l’università del Nevada, a Las Vegas e, finito il college, si rende eleggibile per il draft del ’98: viene scelto da Orlando con la scelta numero 13 ma viene girato subito ai Denver Nuggets, franchigia con la quale comincia ufficialmente la sua avventura nell’NBA.

Tutto bene direte voi. Insomma vi dico io. Perché tra i tanti difetti di Clark, oltre l’arrivare tardi in palestra ed avere qualche difficoltà ad integrarsi nel contesto di squadra, ha il brutto vizio di bere e, le rare volte che non è ubriaco, fuma marijuana. Clark ha iniziato a bere molto prima di arrivare in NBA, aveva il vizio già alle superiori quando studiava a Lincoln Park; dopo essere diventato professionista, vuoi per le pressioni esterne vuoi per i riflettori puntati addosso, la dipendenza di Clark è cresciuta a dismisura:

“Ho usato l’alcol come comodità, ma era un conforto artificiale”, spiega Clark in una recente intervista ammettendo che bere offuscava il suo giudizio e lo portava a prendere decisioni sbagliate. “La cosa peggiore che una persona possa dire a qualcuno che è dipendente è, ‘Smettila di farlo’. Nessuno mi ha mai chiesto: ‘Perché lo fai?’  Io stavo bevendo perché non riuscivo a trovare una soluzione per quello che stavo passando”.

Gli anni di Denver e di Toronto, dove si trasferisce nel 2001, fanno pensare che, nonostante tutto, un posto per Clark nell’elite del basket ci possa davvero essere. Nei cinque anni passati tra Denver e Toronto, le cifre di Clark parlano chiaro: quasi 3000 punti a referto e 2000 rimbalzi catturati e più di 13 punti di media nella sua unica apparizione ai playoff. Mica male per uno che, come confesserà anni dopo, non ha mai giocato una sola partita da sobrio e nell’intervallo delle partite è “costretto” a bere Gin dalla sua fiaschetta per calmare il tremore delle mani. Dopo la stagione a Toronto finisce prima ai Sacramento Kings, dove vede ridotto notevolmente il suo minutaggio, e poi agli Utah Jazz, dove va a referto solamente in due partite, e, infine, ai Phoenix Suns per i quali non gioca neanche un minuto. Alla fine della stagione 2004, quando i Suns lo mettono definitivamente fuori rosa, Clark decide di tornare a casa, a Danville e i guai anziché diminuire aumentano. Clark, infatti, non è nuovo a contatti con la giustizia e ha perso il conto delle infrazioni commesse: dalle banali guide senza cintura, passando agli eccessi di velocità, alle patenti sospese per guida in stato d’ebrezza fino al possesso illegale di armi da fuoco; il picco però Clark lo tocca nel 2013: mentre è alla guida della sua macchina, a circa un isolato da casa, sviene e si schianta su un palo del telefono. Sul posto arriva la polizia che trova la macchina piena di alcol, antidepressivi e ansiolitici. Lei è in arresto Mr. Clark.

“È stato il punto di svolta della mia vita, avevo già avuto alcuni incidenti ma la situazione stava peggiorando progressivamente. L’incidente mi ha aperto gli occhi, mi sono detto: “Morirò se continuo su questa strada”.

Racconta Clark che, nel dicembre 2013, dopo essersi dichiarato colpevole per una serie di imputazioni, viene condannato a otto anni di reclusione. Negli anni trascorsi in prigione Clark riesce a disintossicarsi, partecipa a programmi di gestione della rabbia e pone le basi per la nuova vita che lo aspetta all’uscita del carcere.  Grazie alla buona condotta, dopo quattro anni, viene rilasciato sulla parola.

Ripensandoci, per identificare la storia di Clark sarebbe più giusto dire: iniziata bene e proseguita male, anziché finita, visto che la vita di Clark è tutt’altro che terminata e – fortunatamente! – sembra aver imboccato una direzione migliore che speriamo possa mantenere col tempo: in bocca al lupo Clark!

Jimmy Butler – L’happy ending inaspettato

Ora è arrivato il momento di fare tappa a Houston dove il 14 settembre del 1989 nasce Jimmy Butler.

“So che pubblicherai la mia storia. L’unica cosa che ti chiedo è di non scriverla in maniera tale che le persone si sentano in colpa e provino compassione per me: non lo sopporto, non c’è niente di cui dispiacersi. Queste difficoltà mi hanno reso l’uomo che sono”.

Abbandonato dal padre ancora neonato, Jimmy Butler cresce con la mamma nella periferia di Houston fino a quando, all’età di 13 anni, la madre, stufa dell’espressione della sua faccia, lo mette alla porta abbandonandolo per le strade di Tomball, sobborgo alla periferia nord-ovest di Houston. Una situazione paradossale e incredibile ma, purtroppo, vera. Butler passa i quattro anni successevi a vagabondare tra le case di amici e conoscenti, senza avere una fissa dimora; cresce per strada ma continua comunque a studiare, rifiutandosi di vivere di espedienti fino a quando, pochi giorni prima del suo diciassettesimo compleanno, incontra Jordan Leslie. Come in una tipica storia americana, i due si incontrano al campetto di quartiere: dopo una gara di tiro da 3 punti, vinta naturalmente da Butler, Leslie lo invita a casa sua per passare la notte giocando ai videogiochi. Vista la situazione, la mamma di Leslie si convince ad ospitare Butler per alcuni giorni, giorni che diventano settimane e settimane che diventano mesi, fino a quando, nonostante ci fossero già sei figli in casa, la famiglia Leslie decide di adottare Butler in cambio di una promessa: migliorare a scuola e tenersi fuori dai guai.

“Mi hanno accettato non perché fossi bravo a giocare a basket ma per quello che ero. La signora Lambert mi ha dato amore, ciò di cui avevo bisogno”

Nonostante un discreto rendimento in termini di prestazioni sportive, per gli scout universitari Butler è ancora uno sconosciuto e non arrivano offerte di borse di studio da nessuna università; si iscrive quindi ad un junior college in Texas dove vorrebbe rimanere per due anni ma, grazie al rendimento sul campo, già al termine della prima stagione, arriva una meritata notorietà che lo porta a ricevere ed accettare un’offerta da Marquette. Gli anni del college non sono completamente in discesa per Bulter che, pur non avendo un gran minutaggio, non si risparmia e comincia a farsi notare non solo per le sue qualità tecniche e atletiche, buone ma lontane dall’eccellenza, ma soprattutto per la sua grinta e per il suo spirito di abnegazione e di sacrificio. Col passare degli anni si ritaglia uno spazio sempre più importante in squadra tanto che, nel suo ultimo anno al college, contro UConn e St John’s, segna due canestri decisivi che consentono alla sua squadra di accedere alle finali NCAA. Il suo nome comincia a circolare insistentemente anche nelle cronache nazionali ma, nonostante questo, Butler, che ha deciso di rendersi eleggibile per il draft NBA, non è ancora sicuro di essere selezionato da una delle franchigie; motivo per cui, per aumentare la sua visibilità, decide di partecipare al Porthmouth Invitational. Butler sfrutta bene l’occasione, mettendosi in mostra e risultando decisivo per la conquista del trofeo da parte della sua squadra: durante la settimana Jimmy Butler risulta il giocatore più solido e costante e viene eletto – meritatamente! – miglior giocatore del torneo.  

Per Jimmy Butler il draft è il momento della verità: un passo cruciale non solo per la sua carriera cestistica ma soprattutto per la sua vita. Essere scelto non significherebbe solamente aver risolto i problemi economici, visto che essere scelto ad un draft NBA dà diritto a 4 anni di contratto garantiti, per una cifra minima di due milioni di dollari, ma dimostrerebbe di avercela fatta, aver lottato ed essere riuscito, sospinto da una grande passione, a far fronte a tutte le sue disavventure.

Il 23 giugno 2011 Jimmy Butler viene scelto con la chiamata numero 30 dai Chicago Bulls: l’happy ending è servito.

Giuliano Terenzi

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