Mandatemi a quel Paese
Scritto da Barbara Schiavulli in data Settembre 22, 2018
Perché fare crowdfunding per raccontare l’Afghanistan.
Qualche giorno fa un’amica di mia madre si è lamentata con lei perché le era arrivato un messaggino che parlava del mio crowdfunding per andare in Afghanistan a seguire le elezioni il 20 ottobre prossimo.
“Certo che tua figlia invece di chiedere l’elemosina potrebbe andare a lavorare se vuole andare in Afghanistan”.
Mi madre ci è rimasta male e un po’ scossa mi ha chiamata. L’ho tranquillizzata spiegando di lasciar perdere che non tutti capiscono cosa sta succedendo nel giornalismo italiano e soprattutto come funziona. Le persone vedono solo quello che viene prodotto, non come, a che prezzo e con quanta fatica.
Comunque la cosa mi ha fatto pensare. Sto mendicando per poter fare qualcosa che credo sia un servizio per tutti? La mia parte personale che in Afghanstan vuole tornare con tutte le sue forze probabilmente, ammetterebbe di sì. Perché mentirei se dicessi che l’idea di andare in Afghanistan, che fare il mio mestiere, che essere dove le cose accadono, non mi renda felice. Se riuscirò a partire saranno i 15 giorni dove mi sentirò più al mio posto, più serena, più me stessa di tutti gli altri 364 giorni di quest’anno. Ci sono persone nate per fare il medico, nate per insegnare, altre per raccontare, non qualsiasi cosa ma quel determinato posto o evento.
Detto questo, e ammesso che ho del puro interesse personale nel partire, mi soffermerei su cosa implica chiedere un contributo alle persone per andare a fare qualcosa di assolutamente inconcreto come può essere il mestiere del giornalista. Non vendo qualcosa che uno si conserva, non chiedo di finanziare qualcosa che si può mangiare o bere. Non salviamo vite umane come potrebbe fare qualche organizzazione umanitaria e non costruiamo pozzi.
Ma questo vale per la cultura in generale e il giornalismo è cultura. Chi mette 10, 50, 200 euro per andare in Afghanistan non lo fa per rendere felice me, (anche se di fatto lo sta facendo): sta scegliendo di finanziare l’informazione indipendente, presente, continuativa. Sta dicendo che ha voglia di sapere e crede sia necessario in un paese dove un pezzo oggi un giornale quotidiano te lo paga 60 euro se sei fortunato, e anche se scrivi per cinque quotidiani al giorno come facevo io, non riesci a ripagarti volo, traduttore, macchina, e albergo, perché i conti non tornano.
Quindi o non si va e si lascia che gli Esteri cadano nel dimenticatoio – cosa possibile e molto attuale – o ci si rivolge a quella comunità che crede che questo servizio vada mantenuto, che crede che l’informazione sia necessaria in una società civile seria. Che crede che l’unico modo per sbaragliare l’ignoranza, il razzismo, il populismo, sia con la conoscenza.
E ora veniamo al “vada a lavorare se vuole andare in Afghanistan”. Premesso che nessuno è obbligato a contribuire se non ne ha voglia – non scalfirà di un solo millimetro il rispetto o la stima che ho per quelle persone – non è che uno non stia lavorando anche se non ha abbastanza soldi per andare in Afghanistan. Una volta giravo 10 mesi all’anno, i giornali pagavano di più, si poteva fare. Ora, con la scusa della crisi e la mancanza di interesse (dei giornali, non della gente) si viaggia meno. Ovvio che Salvini fa vendere di più che un emotivo reportage della sottoscritta da Kabul.
Ma in Afghanistan, così come in altri posti, non si parte dalla sera alla mattina: bisogna essere preparati, bisogna conoscere il posto, bisogna conoscere la storia, bisogna avere i contatti, bisogna guadagnarsi la stima di chi si incontra, bisogna avere nozioni storiche, politiche, economiche, militari perfino. Bisogna saper badare a se stessi in un posto dove i giornalisti vengono rapiti o viene loro tagliata la gola. E questo è un lavoro. Se fossimo in un mondo giusto o solo a 10 anni fa, sarebbe stato ancora possibile. Oggi è necessario coinvolgere il mondo per raccontare il mondo.
Certo potrei buttar via tutto quello che ho imparato, raccolto, dimostrato in questi 20 anni e fare un altro lavoro, ma sinceramente credo morirei dopo una settimana di dolore, come quegli anziani che quando muore il coniuge si spengono dopo una settimana. Ho visto, sentito, assorbito troppo per cancellarlo.
Siamo tornati in un momento in cui i mecenati tornano alla ribalta, dove chi può e ne ha voglia, partecipa alla creazione di progetti che siano film, arte, informazione. E non credo sia una vergogna.
Naturalmente preferirei che un giornale pagasse tutto, ma non lo fanno. Sfruttano ragazzi più giovani disposti a qualsiasi cosa e sacrificano la necessità di sapere dei cittadini in nome della convinzione che alla gente non interessi. Per questo servono anche le persone per dimostrare che questo non è vero.
Non vale per tutti, c’è chi come l’amica di mia madre pensa che io elemosini ma c’è chi pensa che Radio Bullets sia nata per cercare di cambiare le cose. Con l’aiuto della gente, ma non solo, ci sono molti modi per aiutar. Penso a tutti i giornalisti della squadra che contribuiscono ai loro programmi, alle amiche che ci stanno aiutando a partecipare ai bandi che non è una cosa facile da scrivere. A quelli che ci ascoltano, che ci diffondano, che sono parte di noi e della comunità che si vuole creare e di cui si vuole far parte.
Ogni giorno ci alziamo alle 5 del mattino per fare il notiziario, ogni sacrosanto giorno, poi dedichiamo il nostro tempo a tenerci aggiornati, a capire che succede, a seguire le notizie, a chiamare i nostri contatti, a formarci in continuazione e questo è un lavoro. Potremmo non farlo? Certo, ma chi ci rimetterebbe? Noi che torneremmo a dormire come persone normali o una società abbandonata all’ignoranza? E ora sto parlando di noi, ma vale per tutti i colleghi indipendenti che si fanno il mazzo quadro ogni giorno.
Meriteremmo di essere pagate? Sì, nei miei sogni avremmo dietro dei finanziatori, delle fondazioni. Ma noi non siamo politicizzate, non siamo famose, non siamo ricche, non abbiamo conoscenze, e non siamo andate a letto con persone che potevano fare la differenza.
Siamo solo delle giornaliste (e dei giornalisti) impegnate che garantiscono con il loro nome, il loro lavoro, il loro impegno, quello che è il loro prodotto.
Poi magari il prossimo anno andiamo tutte a fare le attempate cameriere in un fast food. Ma fino a quando ci sarà possibile, noi proveremo a informare chi vuole essere informato, a far conoscere le storie che sconvolgono il mondo e cercheremo di farlo sul posto perbene.
Sostenere il giornalismo non è elemosina, è un impegno.
Se volete sostenere la nostra campagna Afghanistan – potete andare su www.radiobullets.com/sostienici
E grazie.