Una minuzia, una faccenda da niente: a Zanzibar si erano dimenticati di lavarmi la biancheria. Questo dettaglio, non avendo mezzo vestito pulito, avrebbe potuto farmi desistere – insieme alle spiegazioni dettagliate di mezz’ora del gestore dell’ostello – dal viaggio verso Pangani, un luogo a nord di fronte a Zanzibar, per il quale non riuscivo a trovare informazioni utili ad arrivarci: così la mia voglia di partire aumentava.
A volte è tutto meno complicato di quanto si pensi: decidere per una meta anche se la pigrizia ti farebbe restare, partire con i vestiti sporchi, cercare un negozio pur di non rinunciare, conoscere chi da un anno e mezzo percorre Europa e Africa senza scordare le proprie origini e radici. “La tua mente cambia quando viaggi”, mi dice Andrea mentre ripensa a suo nonno italiano che ha costruito un intero villaggio di migranti in Argentina, mentre vuole parlare in italiano con me ed essere corretta, mantre mi canta “Quel mazzolin di fiori”. Giochiamo a carte, mangiamo popcorn e prendo appunti sulla sua storia. Non so come si arriva a Pangani, ma non me ne curo: lo scoprirò domani.
Il boda boda
Il boda boda – nient’altro che una moto taxi – è senza dubbio il mio mezzo di trasporto preferito. Appena posso, se non ci sono bus o dala dala, mi rivolgo ai tuc tuc ma ancora prima ai boda boda. I taxi classici sono gli ultimi che prendo in considerazione. La moto è comoda, veloce, molto più economica e mi dà un senso di libertà maggiore: non ho la sensazione di viaggiare da un punto a ad un punto b, quanto piuttosto che il viaggio stesso – seppur solitamente breve con questi mezzi – faccia parte della mia visita, giornata, del mio momento presente. Non è una parte che grava sul viaggio, che toglie e sottrae ma una parte ricca, viva, pulsante.
Quando sono tornata da Zanzibar, dopo aver oziato sull’isola tra Stone Town e Matemwe, mi sono subito diretta verso il mio ostello, dove giaceva da moltissimo tempo il mio zaino viola. Non mi stavano aspettando, ovviamente, ma si sono ricordati di me e del mio peregrinare. Al mio arrivo ho rivolto varie domande al gestore dell’ostello, – molto paziente con le mie richieste –dai tratti orientali e con una buona padronanza dello swahili e dell’inglese. Volevo capire cosa fare negli ultimi giorni che mi rimanevano in quel luogo: non potevo andare troppo distante, ma nemmeno avevo granché voglia di passare un’intera settimana a Dar es Salaam, che – per quanto di sicuro bella e interessante – era per me in quel momento troppo caotica: sarei tornata molto presto di nuovo al caos. Dopo che lui ha cercato di spiegarmi cosa fare nei dintorni della città per circa mezz’ora, io ho alla fine deciso – non so bene come e perché – di andare a Pangani, a nord: due giorni li dovevo considerare di viaggio, altri quattro li avrei trascorsi lì.
Ovviamente sarei dovuta partire subito, la mattina dopo il mio rientro da Zanzibar: ed è qui che il mio mezzo preferito, il boda boda, mi è venuto in soccorso. Fuori dal mio ostello a Dar es Salaam non c’era nulla: era una zona periferica e dava su una stradina deserta che si immetteva in una grande arteria stradale poco utile per chi, come me, avrebbe voluto girare a piedi e fermarsi da qualche parte a bere qualcosa. Quella notte, in realtà, stavo pensando. Avevo finito di cenare e indossavo gli unici vestiti puliti a disposizione: a Zanzibar, nel secondo bungalow, avevo portato i vestiti in lavanderia ma per colpa di un malinteso i vestiti non erano pronti e anziché aspettare me li sono portata a casa sporchi. Questa faccenda – che sembra assolutamente cosa da niente, una minuzia – in realtà rischiava di intromettersi tra me e Pangani. Non avevo nemmeno un paio di mutande pulite. Il mio ostello avrebbe lavato tutto l’indomani, ma non prima di pranzo. Per un viaggio così lungo sarebbe stato troppo tardi.
Come si arriva a Pangani?
Pensando tra me e me arrivo al cancello dell’ostello, esco, rifletto: un boda boda si ferma per lasciare un ospite, un turista come me. Ne approfitto per chiedere al ragazzo che guida se sa qualcosa su come si arriva a Pangani, come arrivarci: nessuno mi sa dire dove e quale bus prendere e questa sorta di mistero aumenta la mia voglia di andarci.
Poi decido di provarci:
“Ci sono negozi di vestiti? Aperti ora? Mi aspetti cinque minuti?”
Il ragazzo è spaesato, ma non indaga e non commenta: si limita a portarmi in una specie di centro commerciale con negozi dall’aria vecchia e fuori moda che danno su corridoi puliti. Ovviamente ono chiusi, sono già le nove! Vedo due donne che stanno parlottando proprio lì davanti, mentre una bambina saltella qui e là.
“Looking for bra?” mi chiedono, mentre sbircio e indico la vetrina di un negozio di intimo, chiuso. Non proprio, rispondo, cerco delle mutande. Le due donne fanno un cenno alla bambina, che mi accompagna poco più in là: è chiuso anche quello.
Ritorno dalle donne, testarda e decisa a non darmi per vinta, anche se a ben guardare non ci sono molti motivi per credere che ci sia un negozio aperto. La più giovane improvvisamente muove la testa, alza l’indice e con un ah! Mi dice di seguirla.
Entriamo in un negozio di parrucche dove un’altra donna, la proprietaria del negozio – stranamente aperto, ma non per i clienti – rovescia su un divano una montagna di mutande. Non mi chiedo perché in un negozio di parrucche ci sia un sacco pieno di mutande. La più giovane dice: per fortuna che mi sono ricordata che le aveva!
Ne scelgo cinque, scartando leopardi, rosati e robe viola. 25.000 shelling.
“Torna quando vuoi”
Io sorrido, anzi rido di gusto, chiedendo che cosa possano pensare di una turista che di sera è in giro da sola a cercare mutande.
“La tua mente cambia”
Il ragazzo del boda boda mi ha aspettato, per fortuna, e mi riporta a casa: lui è della tribù sukuma, mi dice, di Mwanza. Vorrebbe venire in Italia un giorno e non lo dice per dire: Città del Vaticano è il sogno di molti cristiani della Tanzania. Quando arriviamo lo saluto, mi accordo per l’indomani: mi porti tu alla stazione dei bus, per Pangani? Salgo in terrazza, consapevole che il mio progetto può proseguire: ho le mutande.
Mi prendo una birra dal frigo e mentre rifletto con la guida in mano, conosco Andrea. L’avevo già sentita parlare in spagnolo e ora eccoci qui: viene dall’Argentina, ha 45 anni e da uno e mezzo viaggia con il marito tra Europa e Africa.
Mi chiede di correggerla mentre parla in italiano: lo ha studiato (molto bene) ma soprattutto ha un nonno italiano di Campobasso e una nonna argentina ma con genitori italiani. Mi racconta di un villaggio quasi solo di italiani, costruito da suo nonno e dai suoi amici. Mi canta quel mazzolin di fiori e nel continente nero. Da Spotify, mentre mangiamo popcorn e giochiamo a carte (tornando a parlare in inglese perché c’è Johanna), escono Giorgia e Jovanotti. Hanno un debole per Parma.
Io prendo appunti, mi segno libri da leggere, strategie, momenti importanti del loro percorso. Non è la sua prima esperienza di viaggio lungo, ma è la prima volta con suo marito.
“La tua mente cambia”, mi dice, e ripenso a una frase di Saramago, il mio scrittore preferito.
Ho gli occhi lucidi: nessuna invidia o tristezza. Il sorriso di Andrea è vero, appagato. Io mi sento bella, pure con i rasta e la ricrescita. È tardi, dovrei dormire: oltretutto non so come si arriva a Pangani, ma non me ne curo. È l’ultima tappa.
Ci ho messo un po’ a decidere, tra stare a Dar, ricca di punti da vedere, e andare altrove, tra dubbi, mutande e lavanderia. Alla fine, ho fatto scegliere alla mia voglia di sentirmi ancora in viaggio.
Il 5 settembre strappatemi il cuore.
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Autore
Eleonora Viganò
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