1 agosto 2024 – Notiziario Africa
Scritto da Radio Bullets in data Agosto 1, 2024
- RDC: nell’est si tenta un impossibile cessate il fuoco
- Sudan: sale la tensione a due settimane dall’apertura dei colloqui di pace
- Sahara Occidentale: la Francia riconosce la sovranità marocchina
“L’Africa è un continente troppo grande per poterlo descrivere”, affermava Ryszard Kapuściński. E aveva ragione nel dire che è per semplificare che lo chiamiamo Africa.
Repubblica Democratica del Congo
Non se conoscono ancora i dettagli, non si conoscono le parti che hanno acconsentito a far tacere le armi e neppure quanto durerà il cessate il fuoco nell’Est della Repubblica democratica del Congo – “durata indefinita”, secondo un portavoce del ministero degli esteri congolese sentito dall’agenzia Reuters.
Il cessate il fuoco scatterà alla mezzanotte di domenica 4 agosto, alla scadenza di un’altra tregua quella strappata dagli Stati Uniti a luglio ma rispettata solo parzialmente.
Eppure, questo accordo, raggiunto due giorni fa a Luanda, la capitale dell’Angola, con la mediazione del presidente Joãoo Lourenço, è ad oggi l’unico spiraglio nei tormenti di una terra che non conosce pace da quasi trent’anni, e che dalla fine del 2021 ha visto un progressivo riacutizzarsi della violenza nella regione del Nord Kivu tra le Forze armate congolesi, le FARDC, alleate a gruppi armati locali, e i ribelli del Movimento 23 marzo, gli M23, che hanno ripreso a combattere dopo diversi anni di silenzio.
In questo momento, sappiamo soltanto che il cessate il fuoco verrà monitorato da un “meccanismo di verifica ad hoc”, in realtà già esistente, come riporta la nota della presidenza angolana.
Thérèse Kayikwamba Wagner, ministro degli esteri della RDC e il suo omologo ruandese, Olivier Nduhungirehe, si sono seduti uno di fronte all’altro per il secondo incontro a livello ministeriale che si tiene nel cosiddetto “processo di Luanda”, un processo di pace che cerca la soluzione della guerra affrontando la dimensione inter-statale del conflitto, le tensioni tra la RDC e il Ruanda.
Perché quella che si combatte all’Est non è una guerra locale, non è una guerra tribale, è una guerra regionale, dagli interessi globali, per il controllo di immense ricchezze. Minerali rari, legname, terre agricole dove si coltivano caffè e cacao: questo è il Nord Kivu, nella regione dei Grandi Laghi, oggi in parte nelle mani dei ribelli dell’M23 che si sono spinti fino alle porte di Goma, la capitale della provincia, ma dove da sempre si combattono oltre cento diverse milizie.
Il processo di Luanda non è, però, il solo tentativo di porre fine alla guerra.
La scorsa settimana, Félix Tshisekedi, presidente della Repubblica democratica del Congo aveva duramente criticato il processo Nairobi, processo negoziale voluto dall’ex presidente keniota Uhuru Kenyatta, tentativo di dialogo tra i gruppi armati della regione con un obiettivo di disarmo e demobilizzazione.
Un processo in stallo, secondo Tshisekedi, che punta il dito sull’attuale presidente del Kenya, William Ruto, che avrebbe “sostenuto la causa del Ruanda”.
Quel Ruanda a cui l’ultimo rapporto degli Esperti delle Nazioni Unite sulla RDC, pubblicato all’inizio del mese scorso, attribuisce il supporto inequivocabile dell’M23, con migliaia di suoi soldati sul terreno congolese.
Tregua umanitaria, prima; poi, questo cessate il fuoco arrivati entrambi dopo una nuova fiammata di violenza.
Sempre la scorsa settimana, il rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari aveva fotografato il mese di giugno in questa regione, il Nord Kivu. Gli sfollati interni hanno raggiunto i 2,79 milioni, in un Paese, il Congo, che ne conta 7 milioni e dove ci sono 25 milioni persone che hanno bisogno di aiuti umanitari per sopravvivere.
Restiamo nella RDC dove c’è un’altra emergenza che si fa di mese in mese più grave, e che colpisce in particolare la popolazione più vulnerabile, quegli sfollati che vivono nei campi, in condizioni durissime e precarie.
L’epidemia di Mpox, noto come vaiolo delle scimmie, ha già fatto 479 vittime dall’inizio dell’anno, con più di 12 mila casi sospetti. Per avere un’idea della scala, spiega Medici Senza Frontiere, bisogna confrontare i dati globali dell’Organizzazione mondiale della sanità: 89 decessi nel 2022 in tutto il mondo.
La causa di questa impennata, per una malattia endemica nell’Africa centrale e occidentale, è la mutazione genetica del virus che ha condotto alla trasmissione da uomo a uomo, mutazione identificata nell’Est del Paese, nel Sud Kivu. Benché curabile, senza trattamenti la malattia può essere fatale.
“Causa di preoccupazione è che l’Mpox si è diffuso nei campi profughi intorno a Goma in Nord Kivu, dove l’estrema densità della popolazione sta rendendo la situazione molto critica. Esiste il rischio reale di una esplosione, dati i grandi movimenti di popolazione dentro e fuori la Repubblica democratica del Congo”, spiegano da Medici Senza Frontiere.
Mancano i vaccini e la possibilità di “identificare i casi, monitorare i pazienti”, così come le cure disponibili restano estremamente limitate. “La RDC ha approvato due vaccini e sta cercando di ottenere forniture, ma in questa fase nessun vaccino è disponibile”, aggiunge l’organizzazione umanitaria.
Sempre in Congo, ma questa volta in un Parco a cui si chiede di accogliere di nuovo i suoi “guardiani” cacciati da cinquant’anni in nome della protezione dell’ambiente.
Lo sancisce con una storica decisione, resa nota questa settimana, l’African Commission on Human and People’s Rights. Espellere il popolo Batwa – cacciatori-raccoglitori che da sempre abitano le foreste della RDC – per la creazione del parco nazionale Kahuzi-Biega è stata un violazione dei loro diritti commessa dal governo della RDC.
Una decisione che riconosce ai Batwa il ruolo di “veri guardiani della biodiversità”.
A partire dagli ’70 circa 13 mila persone di questa antica comunità sono state allontanate forzatamente dall’area desinata a diventare protetta e che è oggi patrimonio dell’Unesco, costretti ad abbandonare le terre dei loro antenati e a vivere ai margini del parco, affrontando miseria, discriminazione e violenza.
Ci sono voluti cinque anni di lotte legali portate avanti da due organizzazioni, il Minority Rights Group e l’Environnement, Ressources Naturelles et Developpement in nome della piccola comunità Batwa per raggiungere questo risultato.
“È una grande vittoria per il movimento della giustizia climatica”, ha detto Samuel Ade Ndasi, African Union Litigation e Advocacy Officer al Minority Rights Group.
“La decisione nega l’idea che risolvere la crisi climatica richieda lo spostamento delle comunità indigene e l’appropriamento delle loro terre.
Al contrario, stabilisce un importante precedente che riconosce il valore del sapere e delle pratiche di conservazione ambientale e della biodiversità della tradizione indigena.
Da questo momento in avanti, nessuna comunità indigena dovrebbe essere espulsa in nome della conservazione in nessun luogo in Africa”, aggiunge in una nota diffusa da MRG.
Nel 2022, l’organizzazione per i diritti umani aveva documentato una campagna di volenze organizzata dalle autorità del parco e dai soldati congolesi con l’obiettivo di allontanare i Batwa che avevano cercato di tornare alle loro terre nel 2018.
Almeno 20 morti, lo stupro di gruppo di 15 persone e centinaia di sfollati.
Sudan
Nella città di Gebeit, il generale Abdel Fattah al-Burhan, capo delle Forze armate sudanesi e l’uomo che di fatto comanda il Sudan, mercoledì sarebbe scampato ad un attentato con un drone mentre presenziava una cerimonia di diplomi militari.
Il portavoce dell’esercito, sentito dalla BBC, ha sostenuto che si è trattato di un tentativo di assassinio da parte delle Rapid Support Forces, il gruppo paramilitare guidato da Mohamed Hamdan. “
Cinque persone, tra cui alcuni studenti e un ufficiale, sono state uccise”. Ancora, però, non c’è stata alcuna rivendicazione ufficiale.
Lo scontro tra l’esercito e le RSF, che controllano la capitale Khartum e la regione del Darfour, ha condotto il Sudan in un baratro, una guerra devastante, scoppiata nell’aprile del 2023, dove si contano decine di migliaia di vittime – almeno 18-20 mila – e 10 milioni di sfollati.
Una crisi dimenticata di cui tornano a documentare gli orrori due recenti rapporti, delle Nazioni Uniti e dell’organizzazione per i diritti umanitari Human Rights Watch.
“Ho dormito con un coltello sotto il mio cuscino per mesi per la paura dei raids che avrebbero portato allo stupro da parte delle RSF”, ha dichiarato a HRW una donna di 20 anni che vive nelle zone sotto controllo della milizia.
“Da quando la guerra è iniziatq, non è più sicuro essere una donna che vive a Khartoum sotto l’RSF”. È una delle testimonianze raccolte dall’organizzazione per i diritti umani attraverso interviste con il personale sanitario che è in prima linea nell’assistenza alle persone vittime di violenza, che tocca non solo le donne, ma anche uomini e bambini.
Crimini di guerra e crimini contro l’umanità, quelli perpetrati dalle Rapid Support Forces, secondo HRW: violenze sessuali diffuse nelle aree sotto il loro controllo, bambine costrette a matrimoni forzati e donne ridotte in condizione di schiavitù sessuale.
Crimini di guerra a cui non sarebbero estranee neppure le Forze armate sudanesi, anche loro, come RSF, accusate di attaccare operatori e strutture sanitarie.
L’esercito, spiega HRW, sarebbe colpevole di bloccare il transito degli aiuti umanitari, inclusi materiali medico-sanitario, impendendone l’ingresso nelle aree controllate da RSF, già dall’ottobre 2023.
Prime vittime di questa guerra, i bambini, come denuncia il rapporto del Segretario generale delle Nazioni Unite al Consiglio di Sicurezza sui bambini nei conflitti armati.
“La situazione è catastrofica e le vite dei bambini sono a rischio”, ha dichiarato Virginia Gamba, rappresentante speciale dell’ONU.
Uccisi, mutilati stuprati e usati come soldati, in 14 milioni hanno bisogno di aiuto e protezione, e non hanno accesso ad “acqua, cibo, riparo, assistenza sanitaria o elettricità”, e oltre 19 milioni non vanno a scuola.
Una tenue speranza per il Sudan, quella affidata ai colloqui di pace che dovrebbero aprirsi a Ginevra tra due settimane, sotto gli auspici degli Stati Uniti insieme all’Arabia Saudita, e a cui il generale Hamdan aveva dichiarato di voler partecipare.
Se al tavolo si siederà anche al-Burhan è quello che oggi ci si chiede, dopo l’attacco di Gebeit. Solo mercoledì, il camo dell’esercito si era dimostrato possibilista a patto che le RSF cessassero gli attacchi.
Le proteste
Oggi è il giorno della Nigeria, dei giovani della Nigeria. E le forze di sicurezza sono pronte a schierarsi. Protestano per il costo della vita, in un Paese dove l’inflazione ha raggiunto soglie record, schiacciato nella morsa della miseria e dell’insicurezza.
Sono giovani e anche loro usano la rete per mobilitarsi contro il potere, accusato di cattivo governo, a cui chiedono di reintrodurre i sussidi che tenevano giù il prezzo del petrolio e dell’elettricità, l’istruzione gratuita e di non aver più paura. #EndBadGovernanceinNigeria: sono giovani e hanno deciso di scendere in piazza.
È un’onda che dal Kenya, da metà giungo, sta attraversando un continente dove l’età media è inferiore ai 30 anni, ma dove il potere è in mano a chi ne ha, sempre in media, oltre 60, con uomini al comando da decenni.
L’onda è nata in Kenya, quando la cosiddetta Gen-Z è scesa in piazza e ha costretto il presidente Ruto a cambiare il suo gabinetto e a revocare la legge sulla tassazione all’origine della rivolta.
Il prezzo pagato è stato altissimo: oltre 50 persone sono state uccise e circa 700 gli arrestati. È accaduto lo stesso in Uganda, con oltre cento arresti tra quanti manifestavano contro la corruzione.
Un’onda che sembra voler crescere sempre di più.
In Nigeria non è bastato che sabato venissero offerti ai giovani borse e posti di lavoro nelle compagnie petrolifere di Stato per far cambiare loro idea.
Secondo quanto riporta il corrispondente di Deutsche Welle, Shehu Salmanu, “i gruppi dei giovani hanno allertato le forze di polizia nigeriane e tutte le agenzia di sicurezza che non torneranno indietro dal scendere in strada”, riporta la testata tedesca.
“È un indicatore che i giovani vogliono disperatamente che le loro richieste [vengano accolte] e i loro problemi risolti”, aggiunge.
Proteste anche in Ghana, nonostante il tentativo dell’alta corte di vietare ai gruppi della società civile di manifestare nella capitale Accra.
Secondo quanto dichiarato da Mensah Thompson, uno degli organizzatori della protesta, all’agenzia Reuters: “I giovani sono pronti a manifestare con o senza l’approvazione delle autorità… Arriverà il momento in cui salteremo spontaneamente per le strade e avremo un ‘Kenya’ tra le mani”.
Costo della vita, corruzione sono anche qui al centro delle ragioni della mobilitazione.
Sahara Occidentale
C’è un lembo di deserto che guarda l’Atlantico al centro di una disputa su cui si gioca la vita di un popolo, i Saharawi, e l’equilibrio del Nord Africa.
È il Sahara Occidentale, terra contesa da cinquant’anni. Ex colonia spagnola fino al 1975, per la cui autonomia lotta il Fronte Polisario, è da sempre rivendicata dal Marocco.
Mutando il suo orientamento, la Francia avrebbe deciso di sostenere la sovranità marocchina, supportando un piano di limitata autonomia per quella terra che è stata teatro di un conflitto armato durato 16 anni, spentosi con un cessate il fuoco violato poi nel 2020.
Un gesto che manda “l’Algeria in collera”, come racconta il Courrier International, e che ha condotto alla decisione del governo di Algeri di richiamare il suo ambasciatore da Parigi.
L’Algeria è infatti tra i sostenitori del Fronte Polisario e ne ospita la leadership così come i rifugiati Sahrawi, circa 100 mila persone, che vivono nei campi profughi.
“Per la Francia, l’autonomia sotto sovranità marocchina è il quadro entro il quale la questione deve essere risolta”, scrive il presidente Macron al re del Marocco Mohammed VI nell’anniversario della sua ascesa al trono.
“Il nostro sostegno al piano di autonomia proposto dal Marocco nel 2007 è chiaro e costante. Per la Francia costituisce ormai l’unica base per raggiungere una soluzione politica giusta, duratura e negoziata in linea con le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”, aggiunge.
Immediata la reazione del Fonte Polisario: una posizione “ostile e che conduce ad un’escalation verso il popolo Sahrawi”, ha scritto in una nota su X, Sidi Omar, il rappresentate del Fronte Polisario presso le Nazioni Unite.
Una scelta quella del governo francese che potrebbe scuotere un fronte sempre caldo e riportare alta la tensione in un’area da sempre instabile.
Foto di copertina di Ato Aikins su Unsplash
Musica: Mbugua David Kiguri, detto King David
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