25 aprile 2025 – Notiziario Africa

Scritto da in data Aprile 25, 2025

  • Le Afriche di Papa Francesco.
  • Sud Sudan: violenze contro i civili nel 2024 sono aumentate del 50%.
  • Repubblica Democratica del Congo: Il conflitto nell’est continua con gravi violazioni dei diritti umani.
  • Nigeria: ilavoro di Aisha Aliyu nel curare le ferite invisibili del conflitto e nell’emancipazione femminile.
  • Liberia e Sierra Leone: bambini soldato.
  • Madagascar: L’arte di Yinka Shonibare

Questo e molto altro nel notiziario Africa a cura di Elena L. Pasquini

“Non pensare mai che la lotta che conduci quaggiù sia del tutto inutile. Alla fine dell’esistenza non ci aspetta il naufragio: in noi palpita un seme di assoluto”.

Le parole di Papa Francesco sono parole di speranza e di resistenza. Mai come in questo tempo parole per un mondo travagliato, e per un continente, l’Africa che non smette di lottare. Ed è dall’Africa, o meglio dalle Afriche di Papa Francesco che iniziamo, dall’eredità del suo pontificato, e da due dei Paesi dove più forti sono stati i gesti simbolici del pontefice, la Repubblica democratica del Congo e il Sud Sudan.

Ma oggi è anche il 25 aprile, e per celebrarlo raccontiamo tre storie, a loro modo storie di resistenza e costruzione di pace. Dalla fede all’arte, dalla Nigeria, alla Liberia, al Madagascar. +

Le Afriche di Papa Francesco

Il Papa che s’inginocchia davanti ai capi sud sudanesi implorando la pace, che grida “basta sangue!”, che visita le baraccopoli, che apre l’anno santo a Bangui, che condanna le nuove forme di colonialismo.

Francesco è il Papa degli ultimi, delle posizioni forti contro la guerra e lo sfruttamento, ma è anche il Papa che toglie l’Africa dalla sua marginalizzazione e che ne canta la vitalità, la ricchezza culturale. Oggi, in milioni, nelle sue Afriche, lo piangono.

Nei dodici anni di pontificato, Papa Francesco ha rivolto all’Africa parole, gesti simbolici e ha visitato dieci paesi. Nel farlo, ha ridefinito il rapporto tra il Vaticano e il Continente, e ne ha cambiato la narrazione. L’Africa di Francesco è “il continente della speranza”.

È nel 2015 che arriva in Kenya per il primo dei suoi viaggi. Va a Kangemi, la baraccopoli di Nairobi. È lì che dice messa, in una chiesa di lamiere, non tra i potenti. Ed è lì che denuncia le “forme moderne di colonialismo”, l’”ingiustizia dell’esclusione urbana” e si scaglia contro quelle minoranze di benestanti che accumulano a spese della povera gente.

“Ci siamo sentiti umani”, disse una donna, Theresa Siuwai, a Radio France Internationale. “Qui vediamo persone importanti solo quando cercano voti”.

Il Papa degli Ultimi, lo hanno chiamato. Ma è anche il papa del dialogo tra le fedi e degli atti di coraggio, del no senza compromessi alla guerra.

“Quando chiudo gli occhi, visualizzo tutto”, ha raccontato a RFI, Fridolin, uno dei chirichetti della cattedrale di Bangui, nella Repubblica centrafricana martoriata dalla lotta armata tra fazioni, dagli odi religiosi.

“Al culmine della crisi, per due anni, i cristiani non potevano mettere piede nel PK5, un quartiere a maggioranza musulmana, e nessun musulmano poteva lasciare il PK5. Ma il Papa ha sfidato la situazione, è andato fino alla moschea”, ha ricordato il giovane che spargeva incenso intorno alla chiesa.

“Quel giorno, ha trascinato migliaia di cristiani con la sua processione verso il PK5. È stata una grande riconciliazione. Ho visto, con i miei occhi, le due comunità abbracciarsi, piangere, stringersi l’una all’altra”.

È a Bangui, non a Roma, che nel 2015, Francesco apre l’Anno santo straordinario della Misericordia, spalancando la porta della cattedrale di Notre-Dame.

Dialogo interreligioso, cementato in Marocco incontrando re Mohammed VI, il Comandante dei credenti. La fede “non può mai essere imposta con la forza”, disse il capo della Chiesa cattolica.

In Egitto, invece, nel 2019, firmò insieme ad Ahmad Al-Tayeb, il Grande Imam della Moschea di Al-Azhar, il “Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune”, dove Chiesa cattolica e Moschea dichiararono “di adottare la cultura del dialogo come via; la collaborazione comune come condotta; la conoscenza reciproca come metodo e criterio”.

L’Africa, per Francesco, non è però solo guerra, sfruttamento e miseria, solo una terra che ha bisogno di aiuto o il luogo di nuove forme di colonizzazione.

È futuro, cultura, saggezza, spiritualità. Culture, del cui valore, il Papa si fa portavoce, e che vanno ad ogni costo difese.

“In molti Paesi, la globalizzazione ha comportato un accelerato deterioramento delle radici culturali con l’invasione di tendenze appartenenti ad altre culture, economicamente sviluppate ma eticamente indebolite.

Così si sono espressi in diversi Sinodi i Vescovi di vari continenti. I Vescovi africani, ad esempio, riprendendo l’Enciclica Sollicitudo rei socialis, alcuni anni fa hanno segnalato che molte volte si vuole trasformare i Paesi dell’Africa in semplici «pezzi di un meccanismo, parti di un ingranaggio gigantesco”, scrive nell’Enciclica Evangelii Gaudium.

Insiste che bisogna “liberare l’Africa da logiche coloniali e neocoloniali”, non solo economiche ma anche culturali. Un’Africa forte, a dispetto delle sue grandi fragilità e sfide.

“Nelle mie visite in Africa, mi ha sempre impressionato la fede e la resilienza dei vostri popoli”, dice nel messaggio al congresso cattolico pan-africano del 2022: “L’Africa ci sorprende sempre”, ripete.

“L’Africa è poesia” … “La saggezza degli antichi africani ci ricorda che ‘le montagne non si incontrano mai, ma la gente sì’”. “Andiamo avanti. Uniti, accompagnandoci, aiutandoci e crescendo, uniti”. Perché l’”Africa è il futuro”, ripete il papa venuto dalla fine del mondo.

Sud Sudan

Fu un gesto profetico, quello di Papa Francesco. In ginocchio, bacia i piedi dei leader sud sudanesi. Salva Kiir, il Presidente, e Riek Machar, il suo rivale, sono davanti a lui, a Casa Santa Marta.

È il 2019. “Vi chiedo come fratello: rimanete nella pace. Ve lo chiedo con il cuore. Andiamo avanti. Ci saranno tante difficoltà, ma non abbiate paura”, dice il Pontefice che compie un atto senza precedenti. “Vangelo vivente”, è stato definito.

Nel 2025, la realtà è che in ginocchio è ancora il Sud Sudan. Secondo l’Ultimo rapporto della Missione delle Nazioni Unite, lo scorso anno le violenze di cui sono vittime i civili sono aumentate del 50 percento: 1.019 gli episodi violenti documentati nel 2024, 3.657 civili coinvolti, di cui 1.561 uccisi, 1.299 feriti, 551 rapiti, tra cui almeno 9 operatori umanitari.

Sono 246 le vittime di violenza sessuale legata al conflitto. La violenza armata comunitaria – proveniente da milizie locali e gruppi di autodifesa – è responsabile di quasi l’80% delle vittime.

Le Nazioni Unite hanno messo in guardia contro un ritorno alla guerra su vasta scala, in questo Paese che è il più giovane del mondo. Indipendente dal 2011, è sprofondato immediatamente in una guerra civile a cui l’accordo di pace firmato nel 2018 – e che ha condotto alla formazione di un governo di unità nazionale – avrebbe dovuto mettere fine. Un accordo che però è ormai quasi carta straccia.

Riek Machar, che di quel governo è il vicepresidente, è stato fatto arrestare con l’accusa di aver orchestrato gli attacchi contro l’esercito governativo all’inizio di marzo nell’Alto Nilo. Un arresto che ha fatto salire la tensione, già fortissima, alimentando il timore di un’escalation.

“Il forte deterioramento della situazione politica e di sicurezza minaccia di vanificare i progressi di pace conseguiti negli ultimi anni”, ha dichiarato Nicholas Haysom, rappresentante speciale dell’ONU per il Sud Sudan e capo dell’UNMISS, al Consiglio di Sicurezza.

Anche il Tenente Generale Mohan Subramanian, Comandante della Forza UNMISS, ha parlato a UN News di come la diffusione di disinformazione e incitamento all’odio continuino ad alimentare l’instabilità in Sud Sudan.

“La protezione dei civili e la prevenzione della violenza richiedono un’azione urgente da parte delle autorità a livello nazionale, statale e locale, nonché delle comunità, per affrontare le cause profonde del conflitto e trovare soluzioni non violente”, ha aggiunto Haysom.

A Juba si teme una nuova guerra civile, qui dove nel febbraio del 2023 il Papa ha compiuto un viaggio insieme all’arcivescovo di Canterbury Justin Welby e al moderatore della Chiesa di Scozia Iain Greenshields.

 “Siamo qui come pellegrini di pace”, disse. “Basta sangue! Basta conflitti! Che ogni cittadino possa ritrovare dignità, lavoro e futuro”,

Un grido, un appello che non ha mai smesso di rivolgere al mondo e a quelle forze continuano a chiamare alle armi. Ed è al Sud Sudan, tra gli altri, che il Papa ha rivolto le sue ultime parole, nell’ultima benedizione a Roma e al mondo del giorno di Pasqua. “Pace e conforto per le popolazioni in guerra, per il Sud Sudan”, ha detto.

Repubblica Democratica del Congo

“Giù le mani dall’Africa!”. A Kinshasa nel gennaio 2023, Papa Francesco denuncia quella folle corsa alle ricchezze naturali che flagella la Repubblica democratica del Congo, da trent’anni è alla radice di una guerra tra la più sanguinose e dimenticate del nostro tempo. “L’Africa non è una miniera da sfruttare o una terra da saccheggiare”, dice il Papa.

Per un momento, i riflettori si accendono su questo Paese che è sempre in coda alle cronache. Non può andare, Francesco, all’Est, dove il conflitto armato infiamma.

Ma parla dalla capitale, da quel centro di potere dove non si riesce a costruire il futuro. Un grido, ancora una volta, inascoltato. Al Congo, per cui il Papa invoca pace anche nelle sue ultime parole, resta la guerra. E però, anche, qualche spiraglio di pace che arriva, in questi giorni, dal Qatar.

Dati recenti, pubblicati dall’Ufficio congiunto delle Nazioni Unite per i diritti umani (UNJHRO), fotografano una realtà drammatica: solo nel mese di febbraio del 2025, sono state documentate 397 violazioni e abusi, con oltre 1.200 vittime, il 47% in più rispetto a gennaio. Le province orientali, in particolare Nord Kivu, Sud Kivu e Ituri, sono le più colpite.

Nel Kivu l’avanzata senza precedenti dei ribelli M23 sostenuti dal Ruanda, che a gennaio hanno marciato prima su Goma e poi su Bukavu, e i movimenti delle forze armate congolesi hanno aggravato la situazione.

Tragico, il bilancio per le donne in una guerra dove lo stupro è un’arma: “La situazione della violenza sessuale legata ai conflitti continua a essere fonte di preoccupazione.

L’offensiva dell’M23 nel Nord e nel Sud Kivu ha avuto un effetto aggravante, con un aumento del 152% dei casi … a febbraio rispetto a gennaio”, scrive ancora l’ONU. Esecuzioni sommarie, stupri guerra e le violenze contro i bambini: sono i civili a pagare il prezzo più prezzo più alto.

Vi sono però segnali di dialogo, in questo conflitto che fa sempre temere l’allargamento della crisi all’intera regione dei Grandi Laghi, dopo i colloqui di Doha tra il presidente congolese Félix Tshisekedi e il suo omologo ruandese Paul Kagame, nonostante fonti delle delegazioni abbiano espresso frustrazioni per il ritmo del negoziato che si sarebbe impantanato in questioni tecniche, come riporta l’agenzia di stampa Reuters.

Ma ci sono anche altri malumori: “Fonti di entrambe le parti hanno affermato che possibili misure volte a rafforzare la fiducia, come il rilascio dei prigionieri detenuti in Congo accusati di legami con il Ruanda e l’M23, hanno infiammato le tensioni e hanno quasi fatto deragliare l’esito del conflitto.

“Stanno chiedendo troppo. Non controllano nemmeno due delle 26 province”, ha dichiarato una fonte del governo congolese. “Il nostro sistema giudiziario è indipendente.

Non possiamo cedere a ogni capriccio. Sono stati commessi crimini. Qualcuno deve pagare”. Una fonte della coalizione ribelle che include l’M23 ha affermato che le parti hanno lasciato Doha quando i disaccordi sulle misure volte a rafforzare la fiducia sono diventati un ostacolo insormontabile per colloqui sostanziali”, riporta ancora Reuters.

Mercoledì scorso, però, un primo risultato è stato comunque raggiunto: una dichiarazione congiunta, una dichiarazione d’intenti, ma che resto un passo importante tra chi non voleva neppure parlare.

“Entrambe le parti ribadiscono il loro impegno per l’immediata cessazione delle ostilità, il rifiuto categorico di qualsiasi incitamento all’odio e all’intimidazione e invitano le comunità locali a rispettare questi impegni”, si legge nella nota.

Il Congo adesso attende, si affida una labile speranza, sopravvive nonostante la guerra e continua a pregare. E lo fa nella sua lingua e con il suo rito, l’unico caso di “inculturazione” dopo il Concilio Vaticano II in cui la liturgia che si sposa alla cultura locale.

Il 2 luglio 2022, anche Papa Francesco ha celebrato una messa secondo il rito zairese nella Basilica di San Pietro a Roma, concludendo l’omelia in lingala. “Moto azalí na matói ma koyóka”, ha detto Francesco. La folla ha risposto: “Ayóka” “Moto azalí na motéma mwa kondíma… Andima”.

“Chi ha orecchie per intendere, intenda… Chi ha cuore per acconsentire, acconsenta”, recita la traduzione.

Nigeria

“Immagino un futuro in cui le cicatrici del conflitto si trasformino in fonti di forza e unità”. È il sogno di Aisha Aliyu, una donna nigeriana. Dirige lo Unique Centre for Peacebuilding and Trauma Healing, un’organizzazione che si occupa di costruzione della pace curando i traumi della guerra e promuovendo il dialogo interreligioso in un Paese dove la fede è alla radice di buona parte dei conflitti.

Crede, Alisha, che la strada da percorre per costruire la pace passi anche dalla guarigione dei traumi che la guerra infligge. Resistere è anche questo, combattere la battaglia silenziosa nelle menti delle vittime. Ma non basta, passa, anche dall’”emancipazione delle donne e dal coinvolgimento dell’intera comunità nella costruzione di una pace duratura”, spiega.

Rahmatu non ha mai sentito parlare di salute mentale. Quando attaccano il villaggio di Mai Ido, nel 2022, Rahmatu ha cinquant’anni e non ha mai visto qualcosa del genere. È il nord-ovest della Nigeria. “Sparavano in modo sconsiderato”, ha raccontato a HumAngle.

“Dopo il primo attacco, eravamo così ansiosi e spaventati che non riuscivamo a mangiare né a dormire nelle nostre case … Siamo andati in cima alla collina più vicina e siamo rimasti lì fino al giorno dopo, quando eravamo sicuri che se ne fossero andati”. La maggior parte degli uomini a Mai Ido erano pastori e le donne mungitrici. Costretti a fuggire, hanno perso tutto.

“Da quel giorno, qualsiasi rumore forte mi fa prendere dal panico, soprattutto se mi sveglia dal sonno. Ho la sensazione che stiano tornando ad attaccarci di nuovo”, confessa Rahmatu.

I ripetuti attacchi e il continuo sfollamento l’hanno lasciata in uno stato di ansia e paura croniche. “Come molti sfollati in Nigeria, Rahmatu non ha ricevuto alcun supporto psicologico … “, si legge ancora su HumAngle.

La storia di Rahmatu è una della tante in Nigeria, un Paese che deve affrontare molte sfide, ancora scosso dall’insurrezione islamista di Boko Haram nel nord-est, dalla crisi del Delta del Niger, dalle spinte separatiste del Biafra, dalla violenza tra pastori e comunità agricole, e dalle tensioni accese dall’emergere di gruppi di autodifesa.

Violenza armata che ha causato lo sfollamento di oltre due milioni di persone. “Il conflitto nella Nigeria centro-settentrionale ha avuto un impatto devastante sulla popolazione”, ha spiegato Aisha Aliyu in un’intervista rilasciata a Peace Insight.   Fine modulo

La storia ”Il nostro obiettivo è concentrarci sulla guarigione del trauma come passo fondamentale verso la costruzione della pace, con particolare attenzione alle comunità musulmane”.

La religione, racconta Aisha, “gioca un ruolo centrale nella vita delle persone. Integriamo gli insegnamenti coranici sul perdono, la resilienza e la compassione nelle nostre sessioni di guarigione dai traumi”.

Il suo lavoro guarda, in particolare alle donne, vittime spesso due volte, della violenza e dello stigma. L’obiettivo è creare “spazi sicuri in cui le donne possano condividere esperienze, prospettive e aspirazioni”.

Come a Gombe, dove le donne, un tempo isolate e stigmatizzate “a causa delle loro esperienze con Boko Haram, hanno iniziato ad aprirsi e a sostenersi a vicenda”. Vittime, che hanno un “gruppo di donne per la pace che ha svolto un ruolo fondamentale nella mediazione dei conflitti all’interno della loro comunità”.

Vittime, che diventano strumento di riconciliazione. Questo non solo ha ridotto la violenza, ma ha anche favorito la riconciliazione, che nel ricucire le proprie ferite, ricucino quelle delle loro comunità.

Bambini Soldato

“Non mi è stata data una pistola perché ero forte. Me ne è stata data una perché ero debole, perché i bambini, privati ​​di alternative, possono essere manipolati e trasformati in armi da guerra.

Sono sopravvissuto non perché fossi migliore degli altri, ma perché qualcuno, una nigeriana, si è rifiutato di lasciarmi alla guerra a cui ero stata costretto”. Charles Wratto aveva otto anni quando ha visto la guerra, e l’ha vista due volte. In Liberia, il suo Paese, e poi in Sierra Leone, dove aveva cercato rifugio. A 15 anni è stato costretto a combattere.

“L’impiego di bambini soldato è una profonda tragedia umana che continua a segnare generazioni in tutto il mondo”, scrive su The Conversation. “Secondo le Nazioni Unite, nel corso degli anni, migliaia di bambini , alcuni dei quali di soli sei anni, sono stati manipolati, indottrinati e costretti a unirsi a gruppi armati”.

Ma la storia di Charles insegna che nessun bambino è irrecuperabile, “soprattutto quando gli vengono forniti il ​​giusto sostegno e le cure di cui ha bisogno”.

È stata una donna nigeriana incontrata in Mali ad aver cambiato il corso della sua vita. Belemina Obunge lo accoglie come un figlio e lo aiuta finire la scuola.

Oggi, Charles, laureato in relazioni internazionali, è un accademico, un professore associato di studi sulla pace, politica e conflitti, all’Università Babes Bolyai, in Romania.

“La mia passione è proteggere i bambini nelle zone di conflitto perché so cosa significa subire violenza in tenera età”, racconta, lui che ora dedica la vita a studiare e contrastare un fenomeno che è una tragedia non solo per il bambino, ma che “lacera comunità e famiglie e lascia generazioni segnate dal trauma della guerra, molto tempo dopo che le armi tacciono”.

Sempre, spiega Charles Wratto, tutto inizia con quel mercato osceno che invade d’armi leggere e di piccolo calibro le terre in guerra.

“La disponibilità di queste armi consente ai gruppi di ampliare le proprie forze, spesso avvalendosi di bambini vulnerabili … Se ci fossero meno armi, i signori della guerra troverebbero più difficile adescare i bambini con false promesse di protezione e potere”, aggiunge. Serve, poi, dare ai bambini istruzione e i mezzi per sopravvivere, ascoltare le loro voci, coinvolgere le comunità locali, la gente che a questi bambini mette addosso, spesso, la croce.

Lui sa cosa significa tornare “in una società che mi vedeva come una persona pericolosa e irrecuperabile”, e trovare uno scopo “in un mondo che etichettava persone come me come “generazione perduta” … I bambini soldato, sebbene plasmati da circostanze sfortunate, non sono intrinsecamente violenti. Non dovrebbero essere temuti o stigmatizzati. Sono vittime che meritano guarigione, amore e istruzione”.

Tutti possono fare la loro parte, dice Charles, per proteggere i bambini nelle zone di guerra. “Chi può, ma si rifiuta di farlo, non è diverso dai signori della guerra” che li hanno arruolati.

Madagascar

“L’arte, come la filosofia, può avviare un dibattito e cambiare il pensiero. E ciò che speriamo è che quel pensiero diventi politico, e poi diventi politica”,

Yinka Shonibare, l’acclamato artista britannico-nigeriano, esporrà per la prima volta in una personale sul continente africano, in Madagascar e la mostra promette di essere, ancora una volta una riflessione sul passato, sul presente per cambiare il nostro sguardo.

«Safiotra [Hybridities]» sarà alla Fondation H di Antananarivo, in Madagascar, dall’11 aprile al 28 febbraio 2026 e include diverse sue sculture molto note, come «Alien Woman on Flying Machine» (2011) e «Refugee Astronaut X» (2024), oltre ad alcune opere meno conosciute.

Al cuore della mostra è «The African Library» (2018), un’enorme installazione composta da circa 6mila libri nei caratteristici tessuti wax olandesi di Shonibare, che celebra figure chiave dell’Africa postcoloniale, come Nelson Mandela e il primo presidente del Ghana Kwame Nkrumah. Shonibare, però, cura anche una sezione della mostra con le opere di artisti africani e della diaspora africana.

Poliedrico, Shonibare esplora colonialismo, globalizzazione, la questione climatica, e lo fa attraverso pittura, scultura, installazioni. Il suo tratto distintivo è l’uso del Wax, il cotone olande, per raccontare la complessità della storia africana, il suo passato coloniale, l’intrecciarsi di storie tra Africa e Europa.

Opere, che diventano manifesto, come quando raccontano la Conferenza di Berlino che nel 1884-85 definirà la spartizione dell’Africa.

“Centrale nell’opera di Shonibare è l’uso del cotone olandese stampato a cera dai colori vivaci, che trasforma in elaborati costumi e sculture, in particolare figure acefale che sfidano le narrazioni storiche e i presupposti culturali”, si legge su Whitewall che gli dedica una lunga intervista.

“Utilizzo il tessuto wax olandese nelle mie opere per riflettere sulla storia coloniale e sulle questioni identitarie. L’ispirazione per il tessuto wax olandese deriva dal batik indonesiano, una tecnica tradizionale di tintura dei tessuti che utilizza metodi resistenti alla cera.

Nel XIX secolo, i produttori olandesi iniziarono a produrre questi tessuti e a venderli nell’Africa occidentale, dove divennero incredibilmente popolari e si integrarono nelle culture locali. Per me, questi tessuti fungono da linguaggio.

Non sono un fine a se stessi, ma un mezzo per esplorare e comunicare diversi temi nel mio lavoro”, spiega Shonibare. “Attraverso opere iconiche come Nelson’s Ship in a Bottle e Scramble for Africa, Shonibare critica l’eredità dell’imperialismo e stimola la riflessione sulle moderne interdipendenze globali e sulle intersezioni culturali”, si legge ancora.

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