3 luglio 2025 – Notiziario Africa

Scritto da in data Luglio 3, 2025

  • Mali sotto assedio, attacchi jihadisti coordinati nel Sahel
  • Oro e potere in Africa occidentale, la nuova corsa tra giunte militari e interessi stranieri
  • Accordo fragile tra Congo e Ruanda: pace negoziata tra guerre e sfruttamento minerario
  • L’Africa che riscopre la sua voce: architettura panafricana e memorie sonore dalla Prima Guerra Mondiale

Questo e molto altro nel notiziario Africa a cura di Elena L. Pasquini

“Colonialismo e imperialismo non hanno ripagato il loro debito dopo che si sono ritirati dai nostri territori”, scriveva Frantz Fanon, nel 1961, nel suo libro “I dannati della terra”.

L’Europa, diceva, è stata costruita con la ricchezza del “terzo mondo”. A leggere Fanon, oggi, non sembrano trascorsi oltre sessant’anni. Il colonialismo non ha ripagato il suo debito, per quella ricchezza ancora si muore, e nuovi e vecchi imperi si danno battaglia su terre che non sono loro.

Ed attraverso quella storia, ancora, leggiamo il presente. Partiamo da qui, dalle ricchezze dell’Africa, dal Sahel e dal suo oro, dove l’Europa ha un nuovo rivale, la Russia.

Andremo poi nella Repubblica democratica del Congo tra le ombre di un fragile accordo di pace, quindi faremo un balzo nel passato, tra le voci dell’Africa che combatteva la Prima guerra mondiale in nome dell’Europa, e poi, nel futuro, a Nairobi, dove si terrà la prima Biennale panafricana d’architettura, che vuole sfidare gli stereotipi figli di quel passato.

Oggi, giovedì, 3 luglio 2025.

Mali

È iniziato tutto all’alba, intorno alle 4 di martedì, ed andato avanti per buona parte della mattina.

Sette attacchi simultanei, in sette città del Mali. “Attacchi coordinati”, secondo lo Stato Maggiore dell’Esercito. Un’operazione senza precedenti del Gruppo di Sostegno all’Islam e ai Musulmani (JNIM), gruppo di matrice islamista legato ad al-Qaeda.

Jnim ha rivendicato gli attentati, dichiarando di aver preso il controllo di tre caserme e diverse postazioni militari, colpite in particolare nel Sud del Paese, nelle città di Kayes, Nioro du Sahel e Niono, al confine con Senegal e Mauritania.

Un’operazione che è ormai diventata una prassi del gruppo, capace di condurre attacchi su più fronti, ma “questa è la prima volta che importanti città e posti di frontiera vengono presi di mira simultaneamente in questa vasta area del Mali meridionale.

La capacità d’azione dei gruppi jihadisti continua quindi a espandersi, minacciando sempre più i vicini Senegal e Mauritania”, spiega Radio France Internationale.

Secondo le forze armate maliane, almeno 80 terroristi sarebbero stati uccisi. Decine i soldati, invece, secondo Jnim. Sulle cifre, però, restano molte ombre, come spiega l’analisi di RFI. France 24 riporta che i jihadisti avrebbero preso in ostaggio tre cittadini indiani e un cinese.

Lo Stato Maggiore sostiene che dietro questi attacchi ci sia la lunga mano di altri Stati. “Questo tipo di accusa è ricorrente tra le autorità di transizione maliane, che hanno fatto del loro meglio per cercare di unire la popolazione al loro fianco, senza mai rivelare alcuna prova concreta”, scrive ancora RFI.

Il Mali, che è guidato da una giunta militare salita al potere con un colpo di stato nel 2020, è scosso da oltre un decennio dalla violenza di matrice islamista, così come altri Paesi del Sahel e dell’Africa occidentale.

“Di fronte alla crescente capacità di azione di Jnim è necessaria una risposta regionale”, spiega alla testata francese, Bakary Sambe, direttore del centro di ricerca dell’Istituto Timbuktu di Dakar, e docente e ricercatore presso il Centro studi delle religioni dell’Università Gaston Berger di Saint-Louis.

“Questi attacchi dimostrano la crescente capacità del JNIM di orchestrare operazioni complesse, sfruttando il vuoto di sicurezza e l’isolamento di Kayes per destabilizzare il Mali e minacciare i suoi vicini.

La sofisticatezza tattica, la solidità logistica e lo sfruttamento delle dinamiche socioeconomiche sottolineano la necessità di una risposta regionale che integri cooperazione transfrontaliera, condivisione di intelligence e altre iniziative”, aggiunge Sambe.

West Africa, guerra e oro

È una febbre, quella che alimenta la guerra dell’Africa occidentale. Febbre dell’oro, oro insanguinato, oro che nutre appetiti di vecchie e nuove potenze, che finanzia guerre e ne scatena. Una febbre vecchia quanto la storia di questo pezzo di continente.

Mentre l’economia mondiale arranca, l’oro diventa il bene rifugio in tempo di dazi e instabilità geopolitiche. Nel 2025 ha raggiunto il suo massimo storico.

Tre Stati insieme fanno del Sahel, una regione strategica: Mali, Burkina Faso e Niger, da soli, producono 230 tonnellate all’anno, circa 15 miliardi di dollari, come racconta la BBC.

Tre Paesi guidati da tre giunte militari, che cementano il loro consenso con il ‘ritorno dell’Africa agli africani’, con la narrazione della fine del giogo economico dell’Occidente, dello sfruttamento delle risorse dell’ex potenza coloniale, con la rottura della cooperazione militare con la Francia.

Il Burkina Faso nel luglio 2024, aveva “annunciato la revoca dei permessi minerari alle aziende di quei Paesi che si rifiutavano di vendergli equipaggiamento militare o ne bloccavano la fornitura e, meno di un mese dopo, il governo ha concluso un accordo per nazionalizzare due miniere d’oro, Boungou e Wagnon, accordo del valore di circa 80 milioni di dollari”, ricordava la Rivista Africa.

A ottobre, il presidente Ibrahim Traoré aveva poi espresso l’intenzione di revocare i “permessi di estrazione dell’oro ad alcune società minerarie straniere”, e oggi continua nel processo di nazionalizzazione.

Il Mali devastato dalla violenza islamista, come i suoi due vicini, sta costruendo la sua raffineria e vuole gestire il suo oro, anche se offre alla Russia una partecipazione di minoranza.

“Dato che i prezzi dell’oro hanno raggiunto livelli storicamente elevati…i governi militari sperano di poterne trarre benefici diretti”, ha detto alla BBC Beverly Ochieng, ricercatrice senior presso la società di consulenza globale Control Risks.

“I governi affermano che i proventi di questo redditizio settore vanno a beneficio dei cittadini attraverso una maggiore “sovranità””, scrive ancora la testata britannica, ma solo “una piccola parte [dei ricavi derivanti dall’oro] ricadrà sui maliani e sui burkinabé”, aggiunge.

Molti di quei proventi andranno a finanziare la lotta contra l’insorgenza islamista.

E in questa lotta, come in queste miniere, c’è la Russia, quella Russia a cui il Mali ha concesso una partecipazione nel progetto della nuova raffineria, e a cui ha chiesto di investire per sostenere l’industria mineraria locale, e che con gli Africa Corps combatte i gruppi jihadisti insieme all’esercito di Bamako mentre addestra le forze armate del Burkina Faso.

Anche nelle loro mani, finirebbe, parte dell’oro del Sahel.

“Nonostante la scarsa trasparenza della spesa pubblica nei paesi, si ritiene che i governi destinino grandi porzioni dei loro bilanci alla sicurezza nazionale.

Dal 2010 la spesa militare in Mali è triplicata, raggiungendo il 22% del bilancio nazionale nel 2020. I governi stanno combattendo i gruppi jihadisti legati ad al-Qaeda e allo Stato Islamico (IS)”, scrive la BBC.

Secondo Alex Vines del think-tank inglese Chatham House, l’Africa Corps è spesso “pagata direttamente in oro o in concessioni minerarie”.

Un sistema che potrebbe condurre il prezioso minerale persino nelle tasche degli insorti, che competono con i governi per controllare le tante miniere artigianali che rappresentato una parte consistente dei siti minerari maliani.

Repubblica Democratica del Congo

Che resti solo una firma, o che sia pace, lo potrà dire solo il futuro.

Quello che racconta il presente dell’accordo tra Repubblica democratica del Congo e Ruanda, firmato dai ministri degli esteri dei due Paesi, con la mediazione degli Stati Uniti, è una storia piena di ombre, che si son fatte più fitte, ieri, con nuove prove del coinvolgimento diretto del Ruanda nella guerra che da decenni devasta l’Est del Congo.

Una “firma storica”, è stata definita la pace che Donald Trump vuole intestarsi. Un accordo con una logica “estrattivistica neocoloniale”, l’ha definita invece Denis Mukwege, il medico, Premio Nobel per la Pace nel 2018.

In cambio di questa “pace”, il Congo ha offerto agli Stati Uniti diritti minerari.

Nelle pieghe dell’accordo, poi, una formula particolarmente accattivante racconta di una possibile “cooperazione bilaterale”, una partnership per bloccare “i canali economici illeciti”, per rendere la filiera di approvvigionamento trasparente dei minerali: in ballo non solo le terre rare, ma anche le acque del lago Kivu, le foreste, le tante ricchezze naturali.

Che la guerra finisca, però, non dipenderà tanto da quella che sembra la “sostanza” dell’accordo, quella economica, quanto da un altro negoziato, quello tra il Congo e l’AFC/M23 il gruppo armato che dal gennaio di quest’anno è avanzato nell’Est del Paese fino ad occupare Goma e Bukavu.

Accordo mediato dal Qatar – anche lui dagli stretti rapporti economici con il Ruanda – che Kinshasa e Kigali si impegnano a sostenere, come s’impegnano a non ingaggiarsi in scontri diretti, a non violare l’integrità territoriale e a non sostenere i gruppi armati.

In realtà, se ne menziona solo uno, l’FDLR, quei miliziani che il Ruanda considera una minaccia in quanto eredi degli hutu genocidari.

Dell’M23 parla invece un nuovo rapporto delle Nazioni Uniti, mmm ottenuto in esclusiva dall’agenzia Reuters. Secondo il documento riservato, “il Ruanda ha esercitato il comando e il controllo sui ribelli M23 durante la loro avanzata nel Congo orientale, ottenendo influenza politica e accesso a un territorio ricco di minerali”, scrive Reuters.

Mentre il Ruanda ha sempre negato di aver sostenuto l’M23 e di aver agito sempre solo per proteggersi dalle FDLR, gli esperti dell’Onu forniscono dettagli sul tipo di addestramento fornito dal Ruanda, sulle violazioni dell’embargo di armi, sull’equipaggiamento militare, sui “sistemi ad alta tecnologia in grado di neutralizzare le risorse aeree” – per dare ai ribelli “un decisivo vantaggio tattico” sull’esercito assediato del Congo”, scrive Reuters.

Secondo il rapporto, obiettivo del Ruanda non era proteggersi dalla minaccia dell’FDLR, ma “conquistare ulteriori territori”. Sarebbero inoltre circa 6 mila i soldati ruandesi anelle province del Nord e del Sud Kivu del Congo.

Voci africane nella Prima guerra Mondiale

A volte sono solo elenchi di parole e numeri, altre canti, spesso racconti di guerra e prigionia, storie di famiglie lontane. Parole oscure, a lungo incomprese, registrate e mai ascoltate, che oggi aprono squarci nella storia dell’Africa scritta dai colonizzatori.

Sono circa 450 registrazioni di voci di soldati africani che avevano combattuto per la Francia e la Gran Bretagna durante la Prima Guerra Mondiale, ma anche civili prigionieri in Germania che venivano dal Senegal, dalla Somalia, dal Togo, dal Congo.

Le loro parole furono incise dai linguisti della Commissione Fonografica reale prussiana per scopi scientifici, poi furono archiviate senza essere comprese. Molte non furono mai usate o tradotte, restarono per decenni un mistero.

Annette Hoffmann, storica dell’Università di Colonia che si occupa di archivi sonori, le ha studiate per 20 anni, pubblicando poi i risultati della sua lunga fatic, in un libro, “Kowing by Ear”.

Quando Annette inizia a lavorare sugli archivi, rimane sbalordita da quello che sente, “in particolare dalle critiche e dalle versioni alternative della storia coloniale”, racconta su The Conversation Africa. Resoconti, dice, che “raramente emergono nelle fonti scritte”.

C’è la storia del prigioniero senegalese Abdoulaye Niang che “definisce i campi di battaglia europei un macello per i soldati africani. Altri cantano la guerra dei bianchi o parlano di altre forme di sfruttamento coloniale.

Chiaramente, molti oratori si sentivano sicuri di dire certe cose perché sapevano che i ricercatori non avrebbero potuto capirle. Le parole e le canzoni hanno viaggiato per decenni nel tempo, eppure suonano ancora fresche e provocatorie”, aggiunge Annette.

Niang parla in wolof e “canta una canzone sulla campagna di reclutamento dell’esercito francese a Dakar”. Spiega che “i detenuti del campo di Wünsdorf, vicino a Berlino, non desiderano essere deportati in un altro campo”. Lui, invece, fu deportato e il suo corpo misurato per studi razziali.

La sua voce, nel 2004, è tornata a Dakar, grazie ad una installazione sonora che Annette ha creato per il Museo d’arte africana Théodore Monod.

E poi, c’è Mohamed Nur, originario della Somalia, insegnate in uno “zoo umano”, e Stephan Bischoff, cresciuto in una stazione missionaria tedesca in Togo che lavorava in un negozio di scarpe a Berlino allo scoppio della guerra.

E Albert Kudjabo, che combatté nell’esercito belga: racconta delle miniere nel suo Paese, la Repubblica democratica del Congo, e svela il linguaggio dei tamburi.

Documenti preziosissimi nell’opera di riscrittura di una storia narrata troppo a lungo solo con lo sguardo dei colonizzatori, su cui però serve ancora indagare, conclude Annette: “La maggior parte delle collezioni degli archivi sonori europei è (infatti) ancora inutilizzata”.

Architettura

Non sarà una mostra di architettura africana, ma lo “spazio per un’architettura che parla, che protesta, che guarisce … Si tratta di spostare il centro – intellettuale, politico e strutturale – verso il continente che ha dato i natali al mondo”.

È così che immagina la prima Biennale Panafricana di Architettura, Omar Degan, l’architetto italo-somalo, che ne sarà il primo curatore.

Attesa per settembre 2006, la biennale si terrà in Kenya, a Nairobi. Ed è una sfida. “All’obsoleta prospettiva globale che vede l’Africa come fragile, passiva o dipendente. In realtà, l’Africa non si sta sviluppando.

Si sta riprendendo da secoli di sfruttamento, violenza coloniale e deliberata marginalizzazione”, ha detto Degan in un’intervista a Wallpaper.

La biennale è aperta alla partecipazione di tutti i 54 paesi africani, alla diaspora africana e ai contributi dal resto del mondo, purché siano voci in dialogo guidato dall’Africa, non voci dominanti.

“Spostare il centro: dalla fragilità alla resilienza”, è il titolo della prima edizione che si terrà al Kenyatta International Convention Center, un luogo simbolico, costruito poco dopo l’indipendenza del Kenya e “da tempo associato all’unità panafricana”, afferma Degan.

“Altrettanto simbolico è il fatto che il Kenya ora consenta ai cittadini di quasi tutte le nazioni africane di visitarlo senza autorizzazione preventiva”, prosegue. Niente visto, dunque.

Una sfida che è “un atto di ricentramento”: “È ora che il mondo smetta di guardare all’Africa come a un luogo da aiutare e inizi a imparare da essa”, dichiara ancora Degan.

L’Africa che continua ad essere trattata come una “nota a margine”, anche in architettura, nel design che va bene solo quando “si conforma alle fantasie occidentali: decorative, nostalgiche, esotiche … Il mondo ama l’architettura africana, ma solo quando sembra un lodge safari.”.

Sono altre, invece, le storie che la biennale vuole raccontare, le storie di un’Africa che cambia, la realtà di un continente che è culla di civiltà, non la sua narrazione stereotipata. Dopo l’annuncio ufficiale, si attende il prossimo passo: l’open call, l’invito a partecipare rivolto ad “architetti, designer, istituzioni e pensatori”.

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