8 maggio 2025 – Notiziario Africa

Scritto da in data Maggio 8, 2025

“Sì, questa guerra ha portato via tanto alle donne sudanesi, ma noi, donne sudanesi, ci rifiutiamo di arretrare”.
Ne è certa, Sarya Yassin, conduttrice radiofonica e attivista, perché le donne del Sudan, anche se hanno perso tutto, “continuano a cercare di rendere la vita possibile, ognuna a modo suo”.

Vittime in una guerra che usa i loro corpi come campo di battaglia, in fuga, affamate, discriminate, umiliate, costrette a partorire ai bordi delle strade, incarcerate, torturate, le donne sudanesi non si arrendono, resistono, si fanno vertebre, spina dorsale, di un mondo che la folle logica delle armi vuole ridurre in briciole.

Ed è tra le donne del Sudan che andiamo oggi, alla loro lotta che rendiamo omaggio, alle loro storie di sofferenza e coraggio che vogliamo dare voce in questo giovedì 8 maggio 2025.

Il notiziario Africa di Radio Bullets, a cura di Elena Pasquini.

Ascolta il podcast

Violenza sulle donne in crescita

Una donna è stata legata a un albero e poi stuprata da un gruppo di soldati davanti alla figlia dodicenne e alla cognata.
“È stato così umiliante” ha detto.
Ora è distrutta.

È solo una delle vittime di cui Amnesty International ha raccolto la storia, documentando la violenza sistematica a cui le donne sudanesi sono sottoposte dallo scoppio della guerra, due anni fa.

“Sono entrati e mi hanno puntato una pistola” ha raccontato Aisha, appena diciassette anni. “Mi hanno detto di non urlare né dire nulla, poi hanno iniziato a spogliarmi. Un soldato teneva la pistola mentre l’altro mi violentava e poi si sono dati il cambio” ha detto agli operatori del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (UNFPA).

Due storie che si ripetono, uguali, ugualmente orribili a quelle di un numero incalcolabili di donne violate.
È sui loro corpi che si combatte la guerra del Sudan.

Da una parte l’esercito sudanese guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan, dall’altra i paramilitari delle Rapid Support Forcese di Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemedti.

Guerra tra due uomini, un tempo alleati, autori, insieme, del colpo di stato che ha messo fine alla speranza del Sudan, rovesciando il governo di transizione insediatosi dopo la caduta del dittatore Omar Al Bashir.

Una guerra che non accenna a raffreddarsi, anzi.
È di questi giorni la notizia dei bombardamenti di Port Sudan, capitale de facto e sede del governo, fino ad ora risparmiata.

Attacchi con i droni hanno colpito l’aeroporto internazionale e una centrale elettrica, un nodo cruciale per la distribuzione degli aiuti.

Una guerra tra due uomini, combattuta dagli uomini, ma che usa le donne come un kalashnikov, come un’arma qualunque.E lo fa sempre di più.

“Nel 2024, la domanda di servizi di risposta alla violenza di genere ha registrato un sorprendente aumento del 288% , con oltre 12 milioni di persone a rischio” scrive l’UNFPA.

Il rapporto di Amnesty International pubblicato questo mese punta il dito contro le Rapid Support Forces che fanno ricorso sistematicamente alla violenza sessuale “per umiliare le comunità, affermare il controllo e sfollare le comunità in tutto il paese”.

Il rapporto, “Ci hanno violentate tutte: violenza sessuale contro donne e ragazze in Sudan”, raccoglie le testimonianze di stupro o stupro di gruppo da parte di miliziani delle RSF.

Trentasei donne, ci sono anche ragazze di appena 15 anni tra quelle ascoltate dall’organizzazione per i diritti umani.
Ma questa è solo la punta dell’iceberg.

“L’orrore della violenza sessuale perpetrata da RSF è sconvolgente, ma i casi documentati tra i rifugiati rappresentano solo una piccola parte delle violazioni che RSF ha probabilmente commesso” ha dichiarato Deprose Muchena, Amnesty International Senior Director for Regional Human Rights Impact.

A marzo, l’agenzia delle Nazioni Unite per l’infanzia (UNICEF) ha documentato lo stupro di circa 221 bambini alcuni dei quali di appena un anno da parte di uomini armati.

A ottobre, una missione investigativa delle Nazioni Unite aveva già mostrato quanto fosse diffusa la violenza sessuale durante la guerra in Sudan, accusando le RSF di essere gli autori della maggioranza dei crimini, accuse che le RSF hanno respinto bollandole come propaganda.

Numeri, che sono certamente stime al ribasso.
Molte di più le donne che per paura o vergogna nascondono la verità delle violenze subite.

“Nel contesto della guerra, le donne subiscono ogni sorta di violenza, tra cui omicidi, arresti e numerosi casi di stupro” ha affermato Khadega El Dewehi, attivista per i diritti delle donne, su The New Arab, aggiungendo che “dall’inizio della guerra, il numero di sparizioni forzate è aumentato significativamente, soprattutto tra donne, ragazze e bambini”
Ed è anche per questo che le persone hanno spesso paura di denunciare.

Tattica genocidaria

L’uso sistematico della violenza di genere è una deliberata tattica genocidaria.

È quanto hanno sostenuto in modo unanime gli esperti riuniti ad aprile dal Darfur Women’s Action Group.
“Se si osservano i modelli, dall’accerchiamento dei villaggi e dagli stupri sistematici alle brutali mutilazioni e all’umiliazione pubblica, il genocidio non è solo un omicidio di massa.
È un attacco calcolato alla capacità riproduttiva delle donne e al tessuto stesso della vita comunitaria” ha spiegato Elisa von Joeden-Forgey, direttrice esecutiva del Lemkin Institute for Genocide Prevention and Human Security, come racconta la testata sudanese Dabanga.

“È una guerra che usa i corpi di donne, ragazze, civili e bambini come arma e come strategia di guerra” scrive Hala Al Karib, Direttore regionale dell’Iniziativa strategica per le donne nel Corno d’Africa (SIHA), su AllAfrica.

L’obiettivo è distruggere e umiliare i gruppi presi di mira: si colpiscono le donne per colpire le comunità, ferire a morte il tessuto sociale.

Lo dimostrano le forme della violenza, spiega ancora von Joeden-Forgey: “L’eviscerazione di donne incinte, lo stupro di donne e ragazze in pubblico e di fronte a familiari, l’uso di oggetti affilati, l’uccisione di neonati, la mutilazione di donne incinte, il tutto mentre si urlano epiteti razzisti”.

Essere vittime di violenza conduce le donne a una condizione di vita insostenibile, al punto che lo scorso ottobre, oltre 130 donne ad Ardamata, nel Darfur occidentale, si sarebbero suicidate in massa per evitare di essere stuprate dai membri delle Forze di Supporto Rapido (RSF), secondo quanto riporta sempre il Darfur Women Action Group.

Un presente di brutale violenza le cui radici, però, affondano in un passato mai pacificato.

Stessi metodi, quelli delle RSF, usati dalle milizie Janjaweed durante il genocidio del Darfur.

“Ciò che sta accadendo in questo momento nel mio paese è sicuramente il risultato di anni e anni di impunità e silenzio sulle atrocità e la violenza contro donne, ragazze e civili che si verificano in Darfur…
La maggior parte di noi ricordava o aveva sentito parlare del Darfur, ma molti di noi si chiedevano cosa fosse successo in Darfur.
E la realtà è che le atrocità non sono mai cessate: la violenza, le uccisioni, la violenza sessuale contro donne e ragazze, gli sfollamenti forzati di civili sono andati avanti per gli ultimi ventidue anni” scrive ancora Hala Al Karib.

“L’unica cosa che è successa è che la comunità internazionale ha smesso di parlare del Darfur e, purtroppo, come africani, lo abbiamo fatto anche noi”.

La violenza delle forze armate

Se la maggior parte delle donne è vittima della violenza dei paramilitari delle Forze di Supporto Rapido, “entrambe le parti hanno commesso gravi violazioni del diritto internazionale umanitario, alcune delle quali costituiscono crimini di guerra”, sostiene Amnesty International.

A scatenare la furia delle RSF come dell’Esercito, molto spesso, l’accusa di essere “collaborazioniste”, amiche del nemico.

E sarebbero almeno 25 le donne sospettate dall’Esercito di affiliazione con le RSF che stanno marcendo nelle carceri sudanesi, secondo quanto denuncia l’ISHRC, l’International Service for Human Rigths: “La maggior parte delle donne e delle ragazze incarcerate ha un’età compresa tra i 19 e i 26 anni, e almeno una ha meno di 18 anni…
Donne e ragazze sono state accusate principalmente sulla base di messaggi, foto e post sui social media…” scrive l’organizzazione per i diritti umani.

Quasi tutte sarebbero detenute nel carcere femminile di Port Sudan, mentre altre nel carcere di Kassala.
Quattro di loro rischiano dall’ergastolo alla pena di morte.

“Le donne e le ragazze incarcerate vivono in condizioni disumane in celle minuscole, quasi senza possibilità di accesso a familiari e avvocati.
Almeno tre delle donne incarcerate sono state condannate a due anni di carcere per accuse legate, tra le altre, alla pubblicazione di false informazioni.
Avvocati e famiglie stanno lottando per ottenere informazioni sui casi e sulle procedure giudiziarie.
Dallo scoppio della guerra, gli avvocati hanno subito attacchi senza precedenti in tutto il Paese”, denunciano ancora, chiedendo l’accesso incondizionato ad avvocati e famiglie alle detenute, la garanzia del diritto a un giusto processo, indagini sui maltrattamenti in detenzione, condizioni di detenzione umane, cibo e cure mediche.

Sopravvivere

Il Sudan è un paese di macerie e rovine, dove si patisce la fame, dove non si muore solo sotto le bombe, ma si muore d’inedia, o soltanto per procurarsi un tozzo di pane, o per dare alla luce i propri figli.

La carestia è stata confermata in dieci aree.

E per le donne è pericoloso anche solo andare a cercare del cibo, si può essere aggredite, violentate, si può cadere nella rete della tratta.

“Tra le più vulnerabili ci sono centinaia di migliaia di donne incinte e in allattamento, affette da malnutrizione acuta e con scarse opzioni sanitarie” spiegano dal Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione.

“I tassi di malnutrizione tra le donne incinte sono allarmanti, con conseguente indebolimento del sistema immunitario e un rischio maggiore di infezioni, complicazioni durante la gravidanza e mortalità materna e neonatale.
I bambini nati da madri malnutrite hanno anche maggiori probabilità di essere sottopeso, il che può comportare problemi di salute permanenti e un rischio maggiore di morte durante l’infanzia”.

Una condizione resa ancora più grave in un paese dove la guerra ha colpito duramente il sistema sanitario.
“Circa l’80% delle strutture sanitarie sudanesi non è pienamente operativo: molte sono costrette a camminare per ore o addirittura giorni solo per raggiungere il centro sanitario più vicino e funzionante, mentre le donne hanno partorito ai bordi della strada o sul pavimento di case di sconosciuti.
Altre sono morte durante il tragitto per cercare assistenza” spiega ancora l’UNFPA.

“Sono fuggita dal mio villaggio con la mia vicina” ha raccontato agli operatori delle Nazioni Unite, Rokaya, 19 anni, nello Stato di Sennar.

“Siamo entrambe incinte e abbiamo camminato per quattro giorni.
Alla fine, non ce l’ha fatta più a camminare. Ho dovuto lasciarla indietro…
Quando sono arrivata al campo, ero terrorizzata ed esausta” ha continuato Rokaya.

“Un’ostetrica è venuta nella mia tenda e mi ha prestato le cure di cui avevo bisogno.
Più tardi, sono stata trasferita in ospedale, dove ho dato alla luce il mio bambino.
Spero ancora che la mia vicina sia al sicuro: non so cosa le sia successo”.

In fuga

Non hanno pace quelle restano, non hanno pace neppure le donne che fuggono e si lasciano alle spalle il loro Sudan.

La maggior parte scappa nel vicino Ciad.
Nelle ultime due settimane sono arrivate in queste paese poverissimo altri 20.000 sfollati.

A varcare il confine, sono quasi tutte donne e bambini, riferisce l’UNHCR.
Traumatizzati, senza cibo, denaro né documenti, esposti alla violenza e agli abusi sessuali, circa il 76% dei rifugiati appena “arrivati sono stati oggetto di estorsioni, derubati o aggrediti sessualmente da gruppi armati”.

C’è poi chi come, Emadh Mufadal Mostafa ha scelto l’Egitto.
Troppi rischi a restare, per lei che aveva fatto parto dei Comitati di resistenza durante la rivoluzione del 2019.

“Se [i militari] vedevano una donna senza velo o con i pantaloni, davano per scontato che fossi un’attivista.
Ti fermavano, controllavano il telefono, le borse, tutto” ha raccontato a The New Arab.

Non si poteva più muovere, non poteva più studiare: “Vado in Egitto. Vado illegalmente. Vado da sola” dice un giorno alla sua famiglia.
Ma andare in Egitto, come in Ciad, non significa che le donne sono al sicuro.

Le donne non lo sono mai.
Non lo è stata neppure Emadh, che già in quel viaggio della speranza ha subito molestie.

Secondo un rapporto del febbraio 2025 di Refugees International, le donne e le ragazze sudanesi fuggite in Egitto guerra stanno vivendo un allarmante aumento della violenza di genere, in questo paese, dove il 31% delle donne subisce violenza domestica secondo il Centro egiziano per i diritti delle donne.

“Il rapporto di Refugees International afferma che molte donne sudanesi arrivano dopo aver subito violenze sessuali durante il conflitto, per poi ritrovarsi a dover affrontare continue minacce in Egitto, dalle molestie per strada alle aggressioni, soprattutto negli spazi pubblici e nei luoghi di lavoro informali” si legge ancora su The New Arab.

Lo racconta Shahinaz Ahmed Mohamed, una donna di 45 anni arrivata al Cairo un anno fa con il figlio di tre anni e il padre, affetto da disturbo bipolare, dopo aver subito violenze da parte delle RSF.

“Una volta ad Abdeen, un uomo in moto mi ha afferrato per un braccio e mi ha fatto male. Nessuno mi ha aiutato” racconta.
“In un altro incidente, un tassista ha cercato di molestarmi. Anche quando ho urlato, nessuno ha risposto”.

Violenza e una vita incerta e precaria, però, anche dentro le mura di casa.
“Ora stiamo affrontando molti casi di violenza domestica” racconta l’attivista Khadega El Dewehi sulle pagine di The New Arab.

“Credo che siano aumentati dopo la guerra, perché la situazione è cambiata.
Le ragioni sono molteplici: la maggior parte dei familiari non lavora più, non c’è accesso all’istruzione o al lavoro.
Le persone restano a casa, senza fare nulla. Stanno affrontando una grave depressione o problemi simili e non riescono a trovare aiuto…”

“Credo che ci siano molti problemi all’interno delle famiglie, alcune delle quali hanno già una storia di violenza.
Molte donne raccontano le loro esperienze di violenza da parte dei loro padri, madri, fratelli e altri. Subiscono abusi di ogni tipo.
Alcune dicono che non è nemmeno permesso loro di uscire casa [ed] è molto difficile per le donne andare alla polizia e denunciare il problema”.

Resistere

Kanadakas, le “donne forti”, le donne regine dell’antica Nubia, sono le donne del Sudan.
Sono state loro a riempire le strade, nel 2019, per cacciare Omar al Bashir.
Erano donne, il 70% dei dimostranti della rivoluzione.

Kanadakas sono oggi quelle che resistono alla violenza, alla guerra, al disfacimento delle loro comunità.

Nel 2019, le attiviste sfidavano “una lunga storia di criminalizzazione delle donne”, rimpiccolite in codici rigidi di comportamento e abbigliamento, sotto minaccia di violenza e schiavitù sessuale se solo avessero provato ad alzare al testa.

“Il popolo sudanese ha resistito ed è morto per la democrazia, e le donne sudanesi hanno messo i loro corpi in prima linea” scrive Hala Al Karib, Direttore regionale dell’Iniziativa strategica per le donne nel Corno d’Africa (SIHA), su AllAfrica.

“Già prima della guerra, il Sudan aveva uno dei tassi più alti al mondo di matrimoni precoci – più di un terzo dei bambini si sposa prima di compiere 18 anni – e di mutilazioni genitali femminili, la maggior parte delle quali nella forma più grave” dice.

Oggi, il Sudan “è la capitale della violenza sessuale” aggiunge.

Eppure, come spiega Khadega El Dewehi su The New Arab, “c’è un forte movimento femminile in Sudan”.

Queste donne che hanno lottato per i loro diritti, che si sono ribellate alle regole imposte loro, continuano a non arrendersi.

“Chi si è ripresa e ha unito la comunità, ed è rimasta e ha sopportato sofferenze inimmaginabili per dare speranza agli altri? Le donne!” sostiene Niemat Ahmadi, fondatrice e presidente di Darfur Women’s Action Group, come riporta Radio Dabanga.

Continuano a farlo, ogni giorno, senza che su di loro si posi lo sguardo del mondo che le dipinge soltanto come delle vittime.

“Molti di coloro che sono nel bisogno continuano a trovare sostegno – psicologico, medico ed economico – da gruppi di mutuo soccorso dedicati, guidati da donne, istituiti in tutto il paese come parte di una più ampia risposta popolare alla più grande emergenza umanitaria del mondo” scrive il The New Humanitarian.

Le chiamano “stanze di riposta alle emergenze”, piccoli gruppi che si fanno carico dei bisogni di chi vive in guerra.

E i gruppi di donne, “costituiscono una parte fondamentale delle più ampie reti di solidarietà basate sui quartieri e guidate dai giovani” si legge ancora.

“Per rendere la vita più facile alle donne, sopravvivere alla guerra richiede lavoro collettivo e forza nella solidarietà” ha affermato Huyam, una volontaria in un gruppo femminile dello stato sudorientale di Sennar creato per assistere donne e ragazze sfollate a causa degli attacchi di RSF, ascoltata The New Humanitarian.

Vanno avanti, le donne, nonostante la minaccia della violenza sessuale e gli ostacoli che l’esercito pone al loro lavoro, come all’accesso dei campi profughi dove le condizioni di vita delle donne sono particolarmente dure.

Continuano ad aiutare le vittime, a rispondere ai casi di violenza e a documentarla, ad aiutare gli sfollati.

Come fanno le donne di Gedaref che, a metà del 2024, hanno formato un gruppo per aiutare chi fuggiva dallo stato di Sennar, racconta ancora The New Humanitarian.

Lo animano “attiviste e organizzazioni femministe che facevano parte di un gruppo Facebook, Gedaref Students and Women’s Gathering, che aveva contribuito a organizzare le proteste durante la rivoluzione del 2019 che ha deposto l’ex dittatore Omar”.

“Il nostro obiettivo principale era fornire a donne e bambini prodotti igienici essenziali e allestire cliniche mobili in rifugi e scuole” ha detto Istabraq.

“Volevamo anche formare le donne sull’autodifesa e creare spazi a misura di bambino”.

Una rete capillare, che non fornisce solo aiuto immediato, ma prova a “formare” quelle donne che tengono in piedi la società ma che pure sono escluse da tutti i processi decisionali.

E questo, secondo Elia von Joeden-Forgey, è una parte del problema nella risposta alla guerra.

“Le donne sono spesso le prime a intervenire nelle crisi, eppure sono profondamente sottorappresentate a tutti i livelli di potere” ha osservato, aggiungendo “che le donne offrono una lungimiranza unica, poiché possono vedere il genocidio prima che si trasformi in omicidio di massa, perché il loro corpo è sempre oggetto di contestazione”.

Resistere con l’arte

“Per noi sopravvissuti, non è importante ciò che abbiamo perso.
È importante ciò che non abbiamo perso: speranza e resilienza”.

Lo ha scritto l’attivista Rania Aziz, alcuni mesi fa, sul blog del Wilson Center dopo aver incontrato una donna, Tanzeel, un’artista ventisettenne di El Fasher, nel Darfur.

“L’arte mi ha salvato” le ha detto Tanzeel. Come? Le chiede Rania.
“Ero una bambina introversa. Ho trovato rifugio nell’arte e nel disegno al liceo, quando un insegnante d’arte notò il mio talento.
Volevo studiare arte, ma la mia famiglia era contraria. Mio padre si rifiutò, dicendo: ‘Che tipo di lavoro otterrai se studi arte?’.
Li ho lasciati scegliere per me, e loro hanno scelto sanità pubblica, una facoltà che mi avrebbe garantito un buon lavoro dopo la laurea.
Ho accettato perché non sapevo come ribellarmi a loro”.

Tanzeel, però, non smette di frequentare una comunità di artisti sudanesi e quando scoppia la rivoluzione, inizia ad aiutare “i comitati di resistenza e gli organizzatori delle proteste disegnando poster e opuscoli e stampandoli di nascosto con la stampante di mio padre”.

Poi, dei giorni della speranza si unirà ad un gruppo di graffitisti, dipingerà murales e sarà tra le fondatrici dei gruppi di artisti “The Solution is in Art” e “Myarem”.

Quando il Sudan diventa teatro di guerra, la sua vita, come quella di tante diventa un inferno di orrore e di fuga.

Ma è l’arte, ancora una volta, a salvarla.

“Ho deciso di andare in Uganda, un paese che non avevo mai visitato e senza la minima idea di cosa mi aspettasse.
Sono arrivata esausto, spaventato e incerta di aver preso la decisione giusta.
Ma il secondo giorno in Uganda, ho iniziato a lavorare.
Sono stata messo in contatto con un artista sudanese che mi ha trovato un lavoro come graffitista.
Ho iniziato a guadagnare, ho fatto domanda per una residenza artistica e sono stato accettata…
L’arte mi ha salvato di nuovo. Ha salvato la mia famiglia. Mi ha dato uno scopo. L’arte è la mia vita, il mio scopo” racconta a Rania.

Arte che salva, arte che sfida la guerra, come quella delle cineaste sudanesi di Port Sudan, che con il loro smartphone, sotto la guida del regista Mohamed Fawi, hanno iniziato a raccontare storie mai raccontate.

Fawi insegna loro il mestiere senza attrezzature.
“Abbiamo perso tutta la nostra attrezzatura a Khartoum” raccontò all’AFP.
“Non siamo riusciti a procurarci nessuna macchina fotografica. Quindi, la nostra unica opzione erano gli smartphone”.

Con il telefono in mano, le donne hanno prodotto i loro film, hanno raccontato delle ragazze della tribù Beja, nel Sudan orientale, “mentre imparano a leggere, a produrre incenso, a ricamare e a commercializzare le loro creazioni online”.

O ancora, narrano l’impegno per portare aiuto agli follati o mentre cercano di organizzare una giornata di sensibilizzazione per la salute e la cultura di chi fugge a causa della guerra.

Donne dietro la macchina da presa che raccontano altre donne.
Salvate, come Tanzeel, dall’arte.
E che come Tanzeel non hanno guardato a ciò che hanno perso, ma a ciò che si è salvato.

Foto in copertina: Story Zangu – Unsplash

 

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