Cronache inventate: il dolore di una madre (3)

Scritto da in data Maggio 19, 2018

(3) Asma toccò la fronte di suo figlio con le dita, gliele fece scivolare lungo l’attaccatura dei capelli e seguii il contorno degli occhi, le guance deturpate, le labbra sporche di sangue. Sembrava ancora caldo il suo bambino che credeva di essere diventato un uomo. Era bello suo figlio e non lo diceva perché era sua madre, ma perché era bello davvero e intelligente e buono. Lo era anche con quello squarcio sul viso. Lo sarebbe stato sempre.

Asma non piangeva e questo preoccupava tutti quelli che le stavano intorno. Non aveva parlato, non aveva neanche abbassato gli occhi quando le avevano dato la notizia. Aveva solo preso il velo, se lo era allacciato e ancora con il grembiule addosso, era corsa in ospedale. La camera mortuaria aveva un’entrata separata perché la gente non vuol vedere chi va a trovare i morti, va bene essere malati, ma quelli, che ormai hanno perso la partita della vita, sono da un’altra parte. Incredibile il silenzio, eppure c’erano diverse persone intorno a lei, ne percepiva i movimenti lenti e calmi, ma non riusciva a vederli bene. Aveva occhi solo per Mohammad, il suo figlio preferito, perché era stato il primo. Le madri non hanno figli preferiti, ma il primo è quello che cambia la tua vita per sempre, quello che ti definisce come persona in un posto dove fare figli è la sola cosa importante. Lì non c’è molto in cui credere per una donna, non ci sono distrazioni o carriere, soprattutto quando nasci in un posto dove resterai inchiodata tutta la vita. Tutto sommato a lei era andata bene, aveva imparato fin da piccola che pensare era un lusso in quel paese e che sarebbe stata molto più felice a fare, piuttosto che a essere. Ma Muhammad non era così, non aveva certo preso da lei, sognava quel ragazzo e lei lo aveva lasciato fare. Lo ha viziato lasciandogli tenere i suoi sogni e ora la vita la puniva. Un figlio morto, un altro ferito, un marito deceduto per malattia. Non aveva neanche 45 anni e il suo salotto era punteggiato di foto dei morti intrappolati in cornici dorate che ogni tanto spolverava, come se accarezzasse i loro volti.

La mano di Asma continuò a toccare il figlio, scese lungo il collo, le spalle, le braccia, le gambe. Aveva i vestiti intrisi di sangue, aveva messo i pantaloni che odiava perché sapeva che si sarebbero sporcati di polvere e terra, quel ragazzo non aveva pensato che avrebbero potuto essere intrisi di sangue quei pantaloni che odiava, ma che non poteva permettersi di comprarne un altro. Non era stata una buona madre, Asma lo sapeva. Le madri non fanno mancare niente ai loro figli, lei razionava il cibo e spesso lo dava ai più piccoli mentre lei e Mohammad digiunavano, invece avrebbe dovuto nutrire anche lui. Avrebbe dovuto fare di tutto per trovare i soldi per pagare la luce elettrica, avrebbe dovuto mendicare per loro. Ma è difficile fare l’elemosina in un posto dove nessuno ha niente da darti. Forse avrebbe dovuto trovare un marito, ma non era ancora pronta ad abbandonare l’amore che aveva avuto per il suo. Era l’unica cosa sua che avesse mai avuto. Amare i figli è naturale, ma un uomo no, non in quel modo, almeno non dove viveva lei. E pensare di finire tra le braccia di un altro le faceva male al cuore.
Non era stata una buona madre perché non aveva impedito a Mohammad di andare a manifestare. Avrebbe dovuto legarlo al letto, ora sarebbe vivo, arrabbiato ma vivo. Avrebbe dovuto gridare, alzare le mani al cielo, farlo giurare sul Corano che non sarebbe uscito, mettere i suoi fratellini di guardia alla stanza. Avrebbe potuto inseguirlo quando lo aveva sentito uscire, prenderlo per un braccio con tutta la forza di una madre spaventata e trascinarlo a casa. Ma non lo aveva fatto. E sapeva che per il resto della sua vita quella sarebbe stata la sua condanna, pensare e ripensare al giorno in cui aveva lasciato andare suo figlio a manifestare al recinto. Sì, perché loro vivono in un recinto e per i ragazzi non è facile perché non capiscono perché sono costretti a stare lì. Non sanno che il segreto e non porsi domande. Non fare niente, perché non c’è niente da fare. Sono persone nate in cattività.

Forse per questo che non lo ha fermato, perché rispettava la voglia di libertà di suo figlio, il suo immenso coraggio, il suo voler tentare di cambiare, se fosse vissuto avrebbe imparato che le cose da soli non si cambiano, cose grandi come quella non le cambierà la frustrazione congiunta di migliaia di persone che si danno appuntamento al recinto. Ma avrebbe dovuto scoprirlo da solo, non glielo poteva dire lei, non era una donna intelligente, non aveva studiato, era solo una madre che lo amava come se il mondo si fosse concentrato in lui.
Asma gli infilò una mano nella tasca e tirò fuori un foglietto. Con delicatezza come se fosse fragile, lo aprì e trovò l’elenco delle cose da fare per la festa della mamma, che era caduto qualche giorno prima. “Trovare dei fiori, comprare un libro, insegnare una poesia ai piccoli da recitare a cena” e poi alla fine un cuoricino. Asma sorrise pensando ai fiori che aveva messo in un vaso sbeccato sul tavolo, alla serata trascorsa con i suoi figli che avevano messo su un teatrino per lei. Solo pochi giorni prima. Non sapeva che sarebbero stati gli ultimi giorni con suo figlio, non sapeva che non lo avrebbe visto innamorarsi, sposarsi, fare figli. Non lo avrebbe più visto ridere, spalancare la porta con un grande sorriso ogni volta che trovava delle arance buonissime, non lo avrebbe più sentito parlare di Parigi e questo le spezzava il cuore anche se il suo viso rimaneva asciutto come se i suoi occhi fossero diventati un deserto. Non lo avrebbe neanche più visto tenersi la testa tra le mani e le ginocchia mentre piangeva perché voleva viaggiare e non avrebbe mai potuto farlo, non lo avrebbe mai più visto sbattere il pugno sul tavolo perché avrebbe voluto continuare a studiare ma non c’era la facoltà che lui avrebbe scelto. Non lo avrebbe più visto distogliere lo sguardo quando un suo amico di facebook gli diceva che la sera andava a ballare o al cinema. Non sapeva neanche cosa fosse un cinema o una montagna o un lunapark. Non sapeva cosa fosse andare in un ristorante di sushi o passeggiare per i vicoli di una città senza incontrare nessuno. Non aveva mai visto la bellezza della lavanda o dei monumenti di una città antica. Non avrebbe mai saputo quanto il dolore potesse aumentare e sommarsi negli anni, quanti amici, familiari, amori avrebbe potuto perdere. Quanti permessi gli sarebbero stati negati, quanti lavori non avrebbe trovato. Quante cose sarebbero state inspiegabili. Ora era libero, che esistesse un dio o no. Ora aveva scavalcato la recinzione e nessuno avrebbe più potuto fargli del male. Era nel cielo, tra le onde, probabilmente sulla torre Eiffel, sì sicuramente era lì e scriveva una cartolina per lei.

Asma sollevò il lenzuolo per coprire suo figlio, piano, piano, senza piangere perché non ci sarebbero state lacrime abbastanza grandi per sopportare il suo dolore. Era lei stessa atterrita dalla sua calma. Lo erano tutti quelli intorno a lei che la guardavano, poi si abbassò su suo figlio e gli diede un bacio sulla fronte, lo stesso che gli aveva dato il giorno che era nato, stringendo le sue manine e salutandolo alla vita. Questo fanno le buone madri salutano anche alla morte.
(Questa storia è inventata, ma se non posso essere a Gaza da giornalista, posso esserlo da scrittrice)
www.radiobullets.com/sostienici

Foto: Flickr/Steve Evans

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