Giustizia per i desaparecidos

Scritto da in data Luglio 8, 2019

Plan Condor

Ti ho sognata sempre in bianco e nero

Come se non fosse esistito se non in fotografia

Una colomba fra le ceneri di sogni bruciati

Ti ho chiamata nel silenzio oscuro del limbo che circonda il tuo nome

Il tuo nome che non è più parola, il tuo nome che è addio,

il tuo nome che è assenza in quanto non riesci a essere ricordo

perché dolori ancora come una ferita invisibile.

 

Sono versi di una poesia scritta da Emeliè Gomez che ieri sera accanto al padre suonava per sua zia che non ha mai conosciuto perché una delle centinaia vittime dell’Operazione Condor in Sudamerica tra gli anni ’70 e ’80, un patto criminale tra le dittature, benedetto dagli stati uniti per estirpare quelli che loro credevano fossero dissidenti, intellettuali, comunisti, chiunque non si piegasse e non accettasse. Potevi essere un prete, un avvocato, un insegnante. Bastava essere contro per essere condannato a morte. Morti che non hanno pace, che continuano a vivere nei ricordi di chi è sopravvissuto, nei familiari che non hanno mai smesso, a quarant’anni di quello che viene definito un genocidio, di cercare giustizia.

E un angolo di Roma insieme all’associazione 24 marzo, si anima di verità, di ricordi, di emozioni, di persone che i conti con il loro passato lo hanno fatto e ora chiedono che lo faccia il resto del mondo. 400 mila morti, molti dei quali arrestati, rapiti, torturati. Una lunga scia di volti e di nomi che chiedono di non essere dimenticati che sono lo spartiacque tra quello che è la narrazione che vuole imporre un paese e la verità. Argentina, Cile, Bolivia, Perù, Uruguay con le loro vite spezzate a cui dare un posto nella Storia.

Tra qualche ora la Corte di Appello di Roma esprimerà la sentenza, per questo molti familiari sono qua. Il processo di primo grado si è concluso due anni fa.

Ma verità e giustizia sembra abbiano sempre bisogno di tempo. Gli imputati sono militari di Bolivia, Cile, Perù e Uruguay coinvolti nella scomparsa di 23 cittadini italiani. Ranghi intermedi, non erano quelli che decidevano ma quelli che eseguivano. Nella sentenza di primo grado, il 17 gennaio 2017, vennero condannate all’ergastolo 8 persone Luis Garcia Meza Tejada (ex presidente della Bolivia), Luis Arce Gomez (ex ministro dell’Interno Bolivia) , Juan Carlos Blanco (ex ministro degli Esteri dell’Uruguay), Hernan Jeronimo Ramirez (Cile), Francisco Morales Cerruti Bermudez (ex presidente del Perù) , Valderrama Ahumada (colonnello in congedo dell’esercito in Cile), Pedro Richter Prada (ex primo ministro del Perù) e German Ruiz Figeroa (ex capo servizi segreti Perù), 19 furono assolte, tra loro anche il tenente di vascello Jorge Nestor Fernandez Troccoli, gia a capo del sistema di reporessione della Marina militare uruguaiana e unico a vivere in Italia dopo essere fuggito dal suo paese.

E in attesa della sentenza ai microfoni di Radio Bullets abbiamo Arturo Salerni, uno degli avvocati delle vittime ci racconta perché il processo è cominciato in Italia e perché questa sentenza è importante.

Ci sarà la cassazione eventualmente, dice l’avvocato delle vittime. Lo sapremo tra poco, naturalmente vi terremo aggiornati su questa storia che ha il peso di un passato che è fatto di violenza, di piani, di una macchina per uccidere. Figli che hanno perso genitori, mogli che hanno perso mariti, sembra che il mondo si ripeta in continuazione cambiano i nomi ma non le tragedie. Maria Paz Venturelli Cea, vive a Bologna. Aveva due anni quando suo padre le è stato strappato.

Maria Paz Venturelli insieme ai familiari di altre vittime

Omar Roberto Venturelli Leonelli è nato in cile nel 1942. Dirigente del M.I.R. Era stato uno dei sacerdoti che aveva giudato i “mapuches” nell’occupazione delle terre regalate ai coloni europei e per questo venne sospeso “a divinis” dal vescovo Bernardino Piñera (zio del Presidente).
Diventato professore all’Università Cattolica di Temuco, si era sposato con Fresia Cea Villalobos. Sapeva di essere ricercato e il 25 settembre 1973 si è presentato alla Caserma “Tucapel”, dove è stato visto vivo da altri prigionieri fino al 10 ottobre, data in cui si presume sia stato ucciso.

Sua figlia ci racconta che il processo non serve tanto a curare il trauma personale quanto quello sociale. Non esiste democrazia senza un patto sociale. E pensa alle vittime di ieri come quelle di oggi che ancora c’erano giustizia, come Giulio Regeni.

Sempre tardi, troppo tardi, alcuni degli imputati del primo processo sono deceduti perché anziani. Ma la morte degli aguzzini non cura le ferite, non porta sollievo, è solo nella conoscenza, nella giustizia, nella solidarietà che si compie quell’atto dovuto verso le vittime, il riconoscimento della loro vita rubata dal proprio Stato.

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Opinioni dei Lettori
  1. Gladys Sac   On   Luglio 8, 2019 at 6:22 pm

    Sono commossa e felice. Viva la lotta dei famigliari che non si sono mai arresi. La mia ammirazione per loro e per gli avvocati che difendono i diritti umani.
    Grazie.

I commenti sono chiusi.


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