Nebbia e case colorate

Scritto da in data Ottobre 10, 2019

L’idea di andare in Transilvania, in Romania, mi è venuta così per caso: ne avevo sentito parlare da G., la mia compagna di Cammino, conosciuta il primo giorno a Saint Jean Pied du Port e con la quale si è creata una stretta relazione spirituale. G. mi ha fatto conoscere la sua famiglia, a Budapest, ma mi ha anche detto di essere nata a Targu Mures, una delle tappe che avevo immaginato nei miei quattro giorni con pochi mezzi, pochi turisti e un freddo intenso. Di tutto mi restano le atmosfere fiabesche, i campanili o le torri, le case ma soprattutto i tetti, la nebbiolina, gli incontri fugaci e spesso silenziosi: un tassista, un uomo in chiesa, la donna che mi regala il pane, un rito, un funerale, due ragazze, la proprietaria della guesthouse e un cantante famoso, visto da lontano.

Eleonora Viganò su Radio Bullets

Shighisoara

La mente – dicono – è capace di prendere frammenti e ricomporli in un unico disegno. Riordina, riempie i vuoti, rende coerente la contraddizione.

Le case sono colorate: ciano, arancione, verde. La casa nella quale Vlad Dracul ha vissuto per quattro anni riporta una targhetta su un muro, giallo acceso: ora dentro c’è un ristorante. A Sighisoara arrivo alle 22:00 di un giovedì. Le strade lucide di umidità, vuote, due taxi senza autisti. Chiedo informazioni a due ragazze che puzzano di alcol, per poi telefonare alla proprietaria della guesthouse.

Simona mi aspetta in auto, i fari puntati verso di me: scende, apre la porta di casa – gialla – e mi consegna le chiavi, suggerendomi dove cenare, così tardi. Vuoto. Buio. Camminavo piano, mi guardo intorno. Ritrovo le due ragazzine alcoliche, mi dicono: “qui, puoi cenare qui”. Nel locale siamo in quanti? Nove? Compreso il personale. Molti locali hanno quell’aria da pianobar, nightclub o sala da biliardo: luci soffuse, fodere verde scuro.
Cinque ore di treno per fare poco meno di 200 km. Ho dormito, letto, osservato i viaggiatori romeni. Un uomo indossava un paio di pantaloni blu, ma quel blu chiaro che mi ricorda i nonni di una volta o gli operai.

Non avevo programmato niente e non avevo interessi particolari: solo una fissazione che – da brava testarda – ho realizzato. Andare a Biertan. Là c’è solo una Chiesa: voglio vedere quella.

Chiedo a Simona, che scandisce le parole alzando la voce, infilandoci il suo accento romeno. Mi consegna una brochure. Wanderlust: “vai da loro che organizzano minibus: li trovi accanto alla torre dell’orologio”. Quando visito la fortezza di Sighisoara inizio a guardarmi intorno e a chiedere informazioni. Prima a un carretto di souvenir, che mi ricorda una vecchia che dà da mangiare ai piccioni, in qualche film; poi nelle chiese e nel museo della torre. La bigliettaia chiama Wanderlust e mi passa il telefono. “Non organizziamo in inverno – mi spiega al telefono – la Chiesa è chiusa”. Riferisco alla bigliettaia, facendo spallucce. Mi dice: aspetta. Chiama ancora. Scrive su un foglietto: Biertan e un numero di telefono. “Telefona prima di andarci e chiedi se la Chiesa è aperta o se ti aprono”. Come ci vado? By bus? “Oh, no. Ti conviene un taxi”.
Ne fermo uno. 150 Lei (questa moneta è bella quanto il nome). No. Chiamo la Chiesa. Contratto con un altro: 100 Lei. 25 euro. 1 ora ad andare e una a tornare più l’attesa. La Chiesa chiude alle 15:00. Partiamo.

Verso Biertan

Il tassista non parla, gli faccio qualche domanda, poi desisto e mi limito a osservare fuori dal finestrino.

Terreni, capannoni, cimiteri di auto, zone agricole, zone industriali, zone residenziali, fango, fanghiglia, terra, pianura, erba, carretti trainati da cavalli, carretti pieni di legna, Auto Verona, Pizzeria San Gennaro, Toskana, lavori in corso, campagna, etnie. Un velo. Una sorta di filtro seppia o vintage. Che non va più via. Non lo levi. E allora penso che la case rosa shocking siano una risposta alla patina. Perché lo vedi il cielo azzurro azzurro là in fondo, ma e là e sai che non ci arriva, qui. Sai che sarà sempre da un’altra parte. Sembra vicino, con la sua luce e il sole: ti sbagli. Quel cielo ti illude.

La patina marroncina rende tutto immobile, fermo, pigro, decadente, quasi trascurato. Come se il mondo si abbandonasse al destino della stagione. Quella patina potrebbe assomigliare a un cucchiaino che scava in un cuore. Non è tristezza: più rassegnazione. Poi però ci sono le case, le case vicine le une alle altre a farsi forza, le case colorate con i tetti sui quali sembra abbiano appiccicato delle lingue di gatto rosse striate di nero. Ci sono le Torri di Sighisoara, le fortezze, i villaggi Sassoni, con le loro forme da fiaba o del tempo che fu, che un po’ spaesata ti ci senti. Ci sono le Chiese dipinte e i cimiteri con i muschi sulle tombe disseminate sulle colline, senza recinto.

Serrature

A Biertan non c’è quasi nessuno. Faccio il biglietto e attendo che una donna venga ad aprirmi la Chiesa. Tra tutto ciò che di bello ho visto – oltre alla terribile stanza dei divorzi dove le coppie in crisi dovevano trascorrere “rinchiusi” dalle due alle sei settimane – c’è una porta. Una porta di sacrestia, dove ci sta un forno, dove si cambiavano i preti, ma dove c’era pure un tesoro: questa porta ha diciannove serrature. Perfette. Ho immaginato cuori sanguinanti rinchiusi in porte simili. Intarsiate, eleganti, piene di serrature nascoste. “Tu, quante?”, “facciamo tre”, “per lei, signora?”, “io le voglio tutte, si sa mai”. Ho immaginato gabbie belle e cuori serrati. E tesori chiusi da diciannove serrature. E ho toccato d’istinto il mio.

Tornando indietro parlo con il tassista: età di mio padre, occhi annacquati. Chiedo dove mangiare qualcosa di tipico, a Sighisoara. “Vuole venire con me? Ci vado ora. 15 Lei per un pasto completo”. 4 euro. Sono andata. Fuori dal centro, l’insegna recita Catering. È un luogo per i lavoratori, ma alle 15:00 ci siamo solo noi due. La sala, sempre quel non so che di lugubre e chiuso e infilato sottoterra anche se era al primo piano, ha le sedie ricoperte di stoffa verde chiaro e tavoli rotondi con tovaglie bianche da matrimonio. Sembrano tavoli da cerimonia, anche se poco fine. Mangio zuppa al pomodoro, fagioli e salsicce e una ciotola di peperoni cotti freddi e sotto aceto, credo. Non mangio dalla cena del giorno prima a base di zuppa. Ho fame. Non parliamo molto, anzi non parliamo proprio. Sighisoara la rivedo al tramonto e di sera. Rivedo turisti, vie, chiese, torri già viste.

Chiudere il cerchio

Dopo Shighisoara vado a Targu Mures. “Non andarci”, dicono le locandiere. Io ci vado perché lì è nata G. una mia amica pellegrina, conosciuta sul cammino di Santiago. Ci voglio andare. La prima Chiesa ortodossa mi fa sgranare gli occhi. Aprire la bocca in un oh! Resto immobile. Gente compila foglietti, un uomo mi dà un sacchetto di pane. Un signore si avvicina e mi spiega. Esce dalla Chiesa e torna indietro un paio di volte: per spiegarmi, per chiedermi se ho domande, per accertarsi che io abbia capito. Prendo un foglietto e scrivo in alto: Mariangela. Seguono i nonni biologici, la mamma di un’amica, il fratello di un’altra. Tutti morti. Consegno il foglietto, pago 5 Lei. Il pane è per i defunti e lo si mette anche nella tomba. Una non-cattolica chiede preghiere per i morti in una chiesa ortodossa. Rimango lì, a respirare. Una signora mi dona il suo pane. Nella seconda Chiesa ortodossa c’è un funerale mentre due bambine ballano e giocano al centro; faccio qualche foto e dono i miei pani a una donna che chiede l’elemosina, mi tocca e mi benedice. Incontro un’amica di G. che mi fa da guida nel Palazzo della cultura. Colori. Foto in 3D della Prima guerra mondiale. Foto senza nome e senza luogo. Foto. Colori. Vetrate e specchi.

Chiudo il cerchio tornando a Cluj Napoca, da dove sono partita: cammino lenta, vagando tra luci, mercatini, qualche orgasmo culinario come il papanasi, folla. Partecipo per caso al concerto di una specie di “Tiziano Ferro romeno”, in piazza. Mi muovo a ritmo e ascolto le persone cantare, ripetono “Da”, alzano cellulari. Chiedo a una donna se può dirmi chi sia il cantante. Famoso, sembra, e orecchiabile. Andrei Tiberiu Maria, detto Smiley. Sorrido e rientro lenta in ostello, tra la pioggia fine, per mettere ordine.

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