15 novembre 2024 – Notiziario Africa
Scritto da Elena Pasquini in data Novembre 15, 2024
- Darfur: riapre a Nyala il centro medico di Emergency
- Sudan: la guerra dimenticata
- Eritrea: Dawit Issak, il giornalista coraggio, con la più lunga condanna al mondo
Questo e molto altro nel notiziario Africa di Radio Bullets, a cura di Elena L. Pasquini
“Ogni volta, nei vari conflitti nell’ambito dei quali abbiamo lavorato, indipendentemente da chi combattesse contro chi e per quale ragione, il risultato era sempre lo stesso: la guerra non significava altro che l’uccisione di civili, morte, distruzione. La tragedia delle vittime è la sola verità della guerra”.
Sono le parole di Gino Strada, il fondatore di Emergency. “Come le malattie, anche la guerra deve essere considerata un problema da risolvere e non un destino da abbracciare o apprezzare”, diceva ancora.
Sudan
Nyala è una città nel Darfur meridionale, in Sudan. Era il centro di un impero. Una città le cui rovine dovrebbero essere solo quelle lasciate dalla ricca e straordinaria storia antica e che invece è in mezzo ad altre macerie, quelle di una guerra di cui non si riesce ad immaginare la fine.
Qui, c’è un centro di Emergency che da qualche giorno ha ripreso tutte le attività ambulatoriali rivolte ai bambini fino ai 14 anni.
Un anno fa era stato saccheggiato e devastato, alcuni membri dello staff sudanese erano stati prelevati e arrestati dalle Forze di Supporto Rapido – i paramilitari che da diciotto mesi combattono contro l’esercito governativo – per poi essere rilasciati dopo un giorno di detenzione senza accuse.
“In un contesto di guerra ininterrotta, e con tutte le difficoltà logistiche e burocratiche che abbiamo dovuto affrontare, la riapertura dell’ambulatorio pediatrico è un traguardo fondamentale per le famiglie del Sud Darfur che qui possono trovare cure gratuite”, racconta Laura, Coordinatrice medica del centro.
Una buona notizia in un conflitto armato che non ha tregua. Secondo il quotidiano francese, Le Monde, che a questa guerra a cui nessuno presta attenzione dedica una serie di otto articoli, sarebbero 150 mila le vittime civili dall’inizio del conflitto, e 13 milioni le persone che sono state costrette a lasciare le loro case.
Numeri difficili da verificare, ma che secondo un recentissimo studio della London School of Hygiene e del Tropical Medicine’s Sudan Research Group, sarebbero molto più alti di quanto fino ad ora si pensasse.
Solo nello stato di Khartoum, nei primi 14 mesi di guerra, sarebbero morte 61 mila persone, di cui almeno 26 mila per morte violente. “Un dato più alto di quello delle Nazioni Unite per l’intero Paese”, scrive l’agenzia Reuters.
Secondo un’indagine di Amnesty International, ad uccidere, sarebbero anche armi europee. Si tratterebbe “di tecnologie militari di fabbricazione francese, integrate in veicoli corazzati usati per il trasporto delle truppe e prodotte negli Emirati Arabi Uniti”.
Una probabile violazione dell’embargo sulle armi imposto dalle Nazioni Unite al Darfur, spiega l’Organizzazione per i diritti umani. Già a luglio, Amnesty aveva identificato veicoli corazzati per il trasporto truppe, fabbricati negli Emirati Arabi Uniti, in varie parti del Sudan.
“Una nuova ricerca ha dimostrato che questi veicoli, usati dai paramilitari delle Forze di supporto rapido (Fsr), sono dotati di sofisticati sistemi di difesa reattiva progettati e prodotti in Francia”, spiega.
Il sistema si chiama Galix, e serve per rilasciare esche, fumo e proiettili quando le minacce sono ravvicinare. A produrlo, la Lacroix Defense che pubblicizza il sistema Galix come uno strumento che “nasconde i veicoli da combattimento da minacce in avvicinamento e protegge i mezzi di trasporto, i principali carri armati e i veicoli corazzati”, si legge ancora.
“Il 15 ottobre Amnesty International ha contattato Lacroix Defense, KNDS France e il Segretariato generale per la difesa e la sicurezza nazionale in Francia, segnalando di aver identificato il sistema Galix in Sudan.
Al momento della pubblicazione, non è stata ricevuta alcuna risposta”. Secondo Amnesty, che riporta i dati del Rapporto parlamentare francese sulle esportazioni di armi del 2024, le aziende francesi avrebbero fornito agli Emirati equipaggiamenti per circa 2,6 miliardi di Euro.
Una guerra tra due generali, Abdel Fattah Al-Bourhane, che guida le forze armate del Sudan, e Mohammed Hamdan Daglo, detto “Hemetti”, a capo delle Rapid Support Forces, che insieme, nel 2021 avevano rovesciato il governo di transizione democratica insediatosi dopo la rivolta popolare del 2019 che aveva portato fine della dittatura di Omar Al-Bashir.
Le radici, però, sono sociali, “il risentimento verso le élite che hanno monopolizzato il potere dall’indipendenza nel 1956 –, claniche ed etniche.
I miliziani della RSF sono i successori dei janjawid, tribù nomadi arabe dell’ovest del Paese, che parteciparono, vent’anni fa, al genocidio contro le popolazioni nere del Darfur”, scrive Le Monde.
Conflitto che non è però solo questione interna. Ad alimentarlo, rivalità internazionali: “Il Sudan è uno dei principali produttori di oro dell’Africa e ha un’ampia costa sul Mar Rosso, un importante punto di accesso per il commercio mondiale. Mentre l’esercito regolare beneficia del sostegno di Egitto, Arabia Saudita, Iran e ora Russia, le milizie della FSR ricevono armi dagli Emirati Arabi Uniti”, scrive ancora Le Monde.
Una guerra senza fine per la quale il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Uniti sta valutando una risoluzione proposta dalla Gran Bretagna che chiede alle parti in guerra la cessazione delle ostilità e un accesso sicuro, veloce e senza impedimenti agli aiuti umanitaria, riporta sempre l’agenzia Reuters.
Mozambico
Sono morti almeno in sei, mercoledì scorso, nella città di Nampula, nel nord del Mozambico. In otto sarebbero stati feriti, secondo Decide Electoral Platform, un’organizzazione della società civile.
Ancora una volta la repressione di una manifestazione dell’opposizione è costata la vita a chi è sceso in piazza per protestare contro gli esiti delle elezioni del 9 ottobre che hanno visto la vittoria di Daniel Chapo, candidato della Frelimo, il partito che governa il Paese dalla sua indipendenza nel 1975.
Venãncio Mondlane, il candidato dell’opposizione ha chiamato a raccolta i suoi sostenitori per contestare i risultati. Brogli, voto manipolato, queste le accuse. Diversi i rapporti che confermerebbero le irregolarità, incluso quello dell’Unione Europea.
Mano pesantissima, quella delle forze di sicurezza: “La polizia è pronta ad affrontare quello che ha definito “terrorismo urbano”.
“Non si tratta di manifestazioni pacifiche, ma di manifestazioni violente, a tendenza sovversiva, il cui intento è quello di minare l’ordine costituzionale mozambicano. Bastano le dimostrazioni. Torniamo al lavoro “, ha detto il generale Bernardino Rafael, comandante della polizia, come riporta Radio France Internationale.
“Non ci tireremo indietro, nonostante le parole di profondo delirio, persino di disperazione, del comandante generale Bernardino Rafael. Se la polizia vuole usare la violenza, ricordiamo che le persone hanno il diritto all’autodifesa”, ha risposto Venancio Mondlane su Facebook.
Una tensione che cresce sempre di più. Secondo il Centro de Integridade Pública, organizzazione della società civile, le manifestazioni violente si sono intensificate portando il bilancio delle vittime dall’inizio della protesta, il 21 ottobre, a circa 50.
Il Mozambico non è nuovo a contestazioni post-elettorali, “ma questa volta sembra diverso”, scrive Sam Jones, ricercatore al World Institute for Development Economics Research della United Nations University su The Conversation Africa.
Poteste ampie, blocco delle attività economiche durato una settimana, mobilitazioni a cui “praticamente tutti gli strati socioeconomici hanno partecipato, con i quartieri più ricchi che hanno adottato il panelaço, un colpo coordinato di pentole e padelle, per mostrare il loro malcontento”, scrive Jones. Violenze, saccheggi, Internet limitato, disordini. Secondo il ricercatore, però, il nodo non è solo quello degli esiti del voto.
I disordini rifletterebbero “un diffuso disincanto nei confronti dello status quo, inclusa la mobilità sociale limitata per molti”. Sintomo di questo malcontento, secondo alcuni studiosi, sarebbe anche l’emergere del terrorismo islamico nel nord del Paese a partire dal 2017.
Tra le determinanti, le “disuguaglianze e le aspettative insoddisfatte derivanti dall’estrazione di risorse naturali, in un contesto di rapida crescita demografica”.
All’origine della tensione ci sarebbero crisi economiche e istituzionali di lungo periodo, secondo Jones. Tra queste, la “crisi del debito nascosto” venuta alla luce nel 2014, “che coinvolgeva prestiti commerciali da miliardi di dollari garantiti dal governo per costituire una flotta per la pesca del tonno.
Quando questi debiti divennero noti al pubblico, il Mozambico vide una forte contrazione dell’assistenza ufficiale allo sviluppo al governo, un rapido deprezzamento del tasso di cambio e un’elevata inflazione dei prezzi al consumo”, scrive.
E poi, criminalità organizzata, e l’“opinione diffusa che i contratti governativi e le concessioni minerarie siano strettamente controllati a vantaggio degli addetti ai lavori politici. Questi addetti ai lavori spesso fungono da guardiani per gli investitori privati esterni”, aggiunge.
A questo si sono aggiunti il Covid-19, la violenza del clima, la drastica diminuzione degli investimenti pubblici e del credito delle banche al governo.
Mali
Venerdì scorso, Terence Holohan, l’amministratore delegato della società mineraria australiana Resolute e due suoi colleghi, sono stati fermati in Mali con l’accusa di “presunta contraffazione e danneggiamento del patrimonio pubblico” e da circa una settimana sono detenuti presso la brigata del Centro Economico di Bamako.
La Resolute possiede l’80 percento di una miniera d’oro nel sudovest del Mali. A quanto riporta Radio France Internationale, il contenzioso sarebbe di natura fiscale e “le autorità maliane li criticano soprattutto per le pratiche commerciali non ortodosse “.
Resolute avrebbe trovato un accordo per evitare l’arresto dei suoi dipendenti, un compromesso, ovvero due tranche di denaro: “Ma è dopo la firma [di un memorandum] e il primo pagamento di diverse decine di miliardi di franchi CFA che questi alti dirigenti della compagnia mineraria riacquisteranno la libertà”, scrive RFI.
Ma questa storia è molto più di una vicenda giudiziaria, spiraglio di come sta cambiando il rapporto tra la giunta militare guidata da Assimi Goita, che ha preso il potere nel 2021, e chi da sempre gestisce le risorse minerarie del Paese.
È per “rafforzare la sovranità sull’oro e ribilanciare le relazioni con le compagnie multinazionali”, scrive AfricaNews, “che il governo sta implementando delle riforme ardite”.
“Il Mali sta attraversando una trasformazione radicale nel suo settore minerario. Il governo maliano sta intensificando gli sforzi per recuperare tra i 300 e i 600 miliardi di FCFA in tasse e dividendi non pagati, in particolare da giganti minerari stranieri come Barrick Gold”, si legge.
E in questo quadro che bisogna leggere l’arresto del CEO, Terence Holohan, e dei suoi colleghi.
Il Mali vorrebbe anche far crescere la quota statale nei progetti minerario: della miniera gestita da Resolute, per esempio, solo il 20 percento è in mano al governo.
“Il governo maliano, fermamente impegnato a rompere con le pratiche del passato, è determinato a rimodellare le sue relazioni con le multinazionali che operano all’interno dei suoi confini”, si legge ancora.
Somaliland
Va avanti il conteggio dei voti nelle elezioni presidenziali del Somaliland che si sono tenute mercoledì scorso. Pacificamente.
Siamo in quelle che la Somalia rivendica come le sue province settentrionali, nell’autoproclamato stato indipendente che non ha ricevuto fino ad ora il riconoscimento della comunità internazionale.
Fino al 1960 erano parte dell’impero britannico, poi si sono unite ai territori sotto amministrazione fiduciaria italiana per formare la Repubblica Somala, separandosene nel 1991 alla caduta del regime di Siad Barre. Per il mondo, il Somaliland è ancora parte della Somalia.
Circa un milione di persone è stato chiamato a votare.
“Grazie ad Allah, le elezioni hanno avuto luogo democraticamente e pacificamente. Nessun incidente è stato segnalato”, ha detto Mohamed Adan Saqadhi, il generale a capo delle forze di polizia.
Tre i candidati, e per tutti, in cima alla lista degli impegni per il futuro, ottenere il riconoscimento internazionale. Muse Bihi Abdi è il presidente in carica che cerca il rinnovo del mandato. Lo chiamano Kulmiye. A sfidarlo, Abdirahman Mohamed Abdullahi e Faisal Ali Warabe.
“Queste elezioni metteranno fine a due anni di instabilità politica”, secondo Mubarak Abdulahi Daljir, politico, economista e vicepresidente dell’Università Admas della capitale Hargeisa, università che ha la sua sede principale ad Addis Abeba, in Etiopia. “Migliorerà ulteriormente la credibilità democratica del Somaliland e migliorerà l’immagine del Somaliland sulla scena internazionale”, ha detto Daljir alla DW.
Il voto si tiene in un momento di particolare tensione nella regione a causa di accordo, un memorandum of understanding, firmato a gennaio di quest’anno tra Somaliland ed Etiopia.
Accordo, ancora non implementato ma sostenuto da tutti e tre i candidati in corsa per la carica di Presidente, che garantirebbe all’Etiopia la possibilità di avere un accesso al mare grazie all’affitto di venti chilometri di costa lungo il golfo di Aden su cui costruire un porto commerciale e una base militare. In cambio l’Etiopia potrebbe garantire al Somaliland il riconoscimento.
Il memorandum è stato considerato dalla Somalia una violazione della sua sovranità non avendo mai accettato l’indipendenza di quelle province che occupano una posizione tanto strategica lungo una via commerciale tanto importante.
Ad aprile, Mogadiscio ha espulso l’ambasciatore etiope Muktar Mohamed Ware, ad ottobre un diplomatico. A nulla sono valsi i tentativi di mediazione mediati dalla Turchia la scorsa estate.
La crisi desta particolare allarme, con la Somalia che minaccia di sostenere i gruppi armati che destabilizzano l’Etiopia se Addis Ababe non si ritirerà dall’incontro, e che ha firmato con l’Egitto un accordo di cooperazione militare che ha già visto forniture di armamenti raggiungere il porto di Mogadiscio.
Guinea Equatoriale
Sarebbero circa duecento i militari russi arrivati in Guinea Equatoriale, il piccolo Stato dell’Africa centrale affacciato sull’Oceano tra il Camerun e il Congo.
Ex colonia spagnola, dal 1979 è guidato con poteri dittatoriali da Teodoro Obiang Nguema. Le truppe servirebbero a proteggere la presidenza. Resoconti di stampa, riporta la BBC, sostengono che i russi stiano addestrano gruppi d’élite nelle due più importanti città del Paese, Malabo e Bata. Si tratterebbe, secondo l’agenzia Reuters, di mercenari del Crops Africa, ex Wagner.
Reuters ha intervistato tre fonti diplomatiche, un’altra fonte dell’opposizione, una della società civile e due persone vicine al governo dell’ex colonia spagnola. “Le fonti – scrive l’agenzia – che non hanno voluto essere identificate, hanno confermato la presenza russa nella Guinea Equatoriale.
Tre di loro stimano che negli ultimi due mesi siano arrivati dai 100 ai 200 russi. Due delle fonti hanno affermato che il personale militare potrebbe includere truppe della Bielorussia, alleata della Russia, mentre Reuters ne ha identificato uno come proveniente da un’unità d’élite di paracadutisti russi.
Due delle fonti hanno affermato che gli uomini probabilmente facevano parte dell’Africa Corps”.
Un ulteriore passo nell’espansione della presenza russa in Africa. Russia che ha inviato truppe di mercenari in diversi Paesi per sostenere e proteggere regimi autoritari, come quello di Nguema, il capo di stato non monarchico da più tempo in carica nel mondo.
Un piccolo Paese dove il potere è concentrato tutto nelle mani della famiglia del presidente. Suo figlio, Teodoro Obiang Mangue, è stato al centro di scandali e sottoposto a sanzioni.
“Non libero”, cosi definisce questo Paese, l’organizzazione non governativa Freedom House: “Nella Guinea Equatoriale si tengono elezioni regolari, ma il voto non è né libero né equo …
La ricchezza petrolifera e il potere politico sono concentrati nelle mani della famiglia del presidente. Il governo detiene spesso i politici dell’opposizione, reprime la società civile e censura i giornalisti.
La magistratura è sotto il controllo presidenziale e le forze di sicurezza praticano torture e altre violenze con relativa impunità”, scrive.
Eritrea
Dawit Isaak è un giornalista. Da 23 anni marcisce senza processo nelle prigioni dell’Eritrea. Questo fa di lui il giornalista che nel mondo sta scontando la pena più lunga. A Isaak è stato conferito il premio per i diritti umani della fondazione svedese Edelstam per il suo eccezionale coraggio, “coraggio instancabile, testimonianza del principio della libertà di espressione”.
Isaak, che è cittadino eritreo e svedese, è stato uno dei fondatori di Setit, il primo quotidiano indipendente del Paese del Corno d’Africa che oggi è il solo nel continente a non avere più una stampa di privata. Nel 2001 tutte le testate private sono state chiuse per ragioni di “sicurezza nazionale”.
È proprio a causa delle pagine di quel giornale che Isaak è stato arrestato in quello stesso anno dopo che la testata aveva pubblicato lettere che chiedevano riforme democratiche nel Paese guidato con poteri autocratici da Isaias Afewerki. È stato arrestato nel corso di una purga nel Paese che chiamano la “Corea del Nord Africana”.
Insieme a lui sono finite agli arresti decine di altre persone, giornalisti, membri del parlamento e del governo. Nessuno sa, ad oggi, dove Dawit sia detenuto e quali siano le sue condizioni di salute
A ritirare il premio, il 19 novembre a Stoccolma sarà la figlia di Isaak, Betlehem Isaak. “Dawit Isaak è il giornalista detenuto da più tempo al mondo.
Siamo molto preoccupati per la sua salute e non sappiamo dove si trovi, non è accusato di alcun crimine e gli è stato negato l’accesso alla sua famiglia, l’assistenza consolare e il diritto alla libertà …
In effetti, si tratta di una sparizione forzata”, ha affermato Caroline Edelstam, presidente della giuria del Premio Edelstam, facendo appello alle autorità eritree perché rivelino dove si trova e gli consentano un’assistenza legale.
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