6 dicembre 2024 – Notiziario Africa
Scritto da Elena Pasquini in data Dicembre 6, 2024
“La Kodak è stata una dolorosa calamità, il nemico in assoluto più potente che ci siamo trovati di fronte. Nei primi anni non abbiamo avuto alcuna difficoltà a indurre la stampa a presentare i racconti delle mutilazioni come calunnie, menzogne, invenzioni […] e con l’aiuto della stampa siamo riusciti a far sì che tutte le nazioni cristiane non prestassero ascolto a quei racconti […]. Poi, improvvisamente, la rottura, ovvero l’incorruttibile kodak, e tutta l’armonia andò al diavolo. La sola testimone che, in tutta la mia lunga esperienza, non sono riuscito a corrompere”.
Così Mark Twain, ne Il soliloquio di re Leopoldo, immaginava dicesse il re del Belgio.
Denuncia dei crimini commessi in Congo. È iniziato tutto con Leopoldo, ma non è finito quando le colonie sono passate al Belgio. Ed è da lì che partiamo oggi, dalle vittime del colonialismo che ottengono risarcimento per le sofferenze subite.
Resteremo in Congo, per capire cosa sta accadendo tra una guerra che non smette e tentativi di pacificazione.
Quindi in Niger, Senegal, Madagascar e in Nigeria dove il Festival della fotografia di Lagos diventa Biennale.
Ascolta il podcast
Belgio
Si chiamano Léa, Simone, Marie-José, Monique e Noëlle.
Sono cinque, soltanto.
Ma rappresentano tutti quei bambini e quelle bambine che le autorità coloniali del Belgio hanno strappato sistematicamente alle loro famiglie e alla loro terra.
Tra i 14 e i 20mila sono stati rapiti prima dei sette anni nelle ex colonie, oggi Repubblica democratica del Congo, Ruanda e Burundi, e messi in orfanotrofio.
Unica colpa: avere un padre bianco e una madre nera.
La Corte d’Appello di Bruxelles lunedì ha riconosciuto il loro diritto a essere risarcite per quell’atto disumano, motivato solo dall’essere di “razza mista”.
Un crimine contro l’umanità, la politica razziale del Belgio coloniale, un vero e proprio “piano per cercare e rapire sistematicamente i bambini nati da madre nera e padre bianco”.
Un crimine dunque imprescrivibile, ha sostenuto la Corte dando torto al giudice di primo grado secondo il quale era passato troppo tempo.
“La Corte ordina allo Stato belga di risarcire le appellanti per il danno morale derivante dalla perdita del legame con la madre e per il danno arrecato alla loro identità e al loro legame con il loro ambiente d’origine”, si legge nella decisione contro lo Stato che si è macchiato di questo e altri atroci crimini negli oltre cinquant’anni di dominio, tra il 1908 e il 1960.
Per tacere dei precedenti vent’anni quando il Congo era possedimento personale del Re del Belgio, Leopoldo, durante il quale si stima siano morte 10 milioni di persone.
Nel 2019 il governo belga si era scusato formalmente con i bambini rapiti.
“Eravamo distrutti. Scusarsi è facile, ma quando fai qualcosa devi assumertene la responsabilità”, aveva dichiarato Monique Bitu Bingi all’Agence France Press.
Nel 2017 la Chiesa cattolica aveva fatto lo stesso perché erano cattolici la maggior parte degli istituti dove venivano portati i bambini che i padri non hanno quasi mai riconosciuto.
Molti rimasero apolidi.
Anche Georges Kamanayo era uno dei bambini rapiti e portati in Belgio.
In un’intervista al quotidiano De Standaard, riportata anche dalla BBC, aveva raccontato la sua storia: “Nella colonia eravamo separati dai bambini bianchi. Era pura segregazione. Cercavamo di farci assorbire dal Belgio, così non saremmo stati visibili”.
“Belgi di terza categoria”, si sono però sempre sentiti, aveva detto Georges.
Alle cinque donne che hanno fatto causa all’ex potenza coloniale andranno alcune decine di migliaia di euro.
Repubblica Democratica del Congo
Si continua a combattere nell’Est della Repubblica democratica del Congo.
In Nord Kivu, a Lubero, a circa 150 km a nord della capitale provinciale Goma, lungo la Route Nationale 2.
La guerra tra i ribelli del gruppo paramilitare M23 e l’esercito congolese non cessa nonostante i tentativi di pacificazione portati avanti con la mediazione dell’Angola.
Il 15 dicembre è previsto a Luanda un incontro tra il presidente congolese Félix Tshisekedi e Paul Kagame, presidente del Ruanda, il paese che sostiene l’M23.
“Secondo fonti della sicurezza e della società civile, queste battaglie, caratterizzate dall’uso di armi pesanti, hanno gettato la regione nel panico, provocando un massiccio sfollamento della popolazione”, riporta Radio France Internationale.
Centinaia di persone sarebbero fuggite a piedi con tutto quello che sono state in grado di caricarsi sulle spalle.
L’esercito sarebbe riuscito a fermare l’avanzata dei ribelli, ma “fonti vicine all’M23 affermano che queste azioni mirano a ricordare la loro presenza attiva e a far sentire la loro voce nel quadro delle discussioni politiche, in particolare con le autorità angolane, mediatrici nel processo di pace di Luanda”, aggiunge RFI.
Cosa sta accadendo a Luanda?
All’inizio della scorsa settimana i negoziatori di RDC e Ruanda hanno adottato un documento, il CONOPS, Concetto di operazioni, che dovrebbe condurre al disimpegno delle truppe ruandesi.
Si tratta di un testo che fissa un calendario di operazioni, quattro fasi nell’arco di tre mesi.
Il piano, riporta la stampa locale, prevederebbe lo smantellamento delle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda, le FDLR, gruppo armato che si oppone alle M23 e che Kigali considera una minaccia alla sua sicurezza in quanto originariamente formato da hutu fuggiti dal Ruanda dopo il genocidio.
In cambio il Ruanda smantellerebbe quelle che definisce come “misure difensive”.
Il Ruanda, infatti, nega di essere presente con le sue truppe in territorio congolese, nonostante le evidenze raccolte, incluso l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite.
L’M23 ha detto di non sentirsi vincolato al rispetto di questo accordo.
Il CONOPS è un documento operativo, non un accordo di pace.
Su questo, invece, le diplomazie continuano a lavorare.
Il nodo centrale, infatti, sono le M23.
Il processo negoziale di Luanda aveva già previsto una roadmap all’inizio del conflitto al quale però non era stata data attuazione.
Processo che non è l’unico tentativo di pacificare questa terra dove si combatte da tre decenni.
Sabato, i capi di stato della Comunità dell’Africa orientale, riuniti ad Arusha in Tanzania, hanno chiesto la fusione del processo di Luanda con quello di Nairobi, guidato dall’ex presidente keniano Uhuru Kenyatta.
Processo, quest’ultimo che si è focalizzato sul disarmo dei tanti gruppi armati presenti nella regione, ma che è a un punto di stallo.
Secondo quanto riferisce a Rfi uno specialista della sicurezza della regione, “alcuni di questi gruppi hanno ripreso le armi e si sono uniti alla grande coalizione di wazalendo che collaborano con le forze armate congolesi contro l’M23” e dunque “non possono più essere smobilitati”.
Il presidente Félix Tshisekedi – che accusa il Kenya di sostenere il Ruanda – non c’era ad Arusha.
A rendere ancora più complesso il quadro, la decisione della RDC, annunciata lunedì, di portare il Ruanda davanti alla Corte africana sui diritti umani e dei popoli per indagare sui crimini commessi in Nord Kivu.
La prima udienza dovrebbe svolgersi il 12 febbraio.
Un passo ulteriore, dopo, la denuncia alla Corte di giustizia della Comunità dell’Africa orientale e la ripresa delle indagini da parte della Corte penale internazionale.
La malattia misteriosa
Restiamo ancora in Congo, nella RDC, per un’ultima notizia.
Una malattia misteriosa avrebbe ucciso più di 140 persone nella provincia sudoccidentale di Kwango.
Secondo quanto hanno riferito all’agenzia Reuters fonti nelle autorità locali, i sintomi sembrerebbero quelli di una comune influenza: febbre alta, mal di testa.
Un team medico sta raccogliendo campioni nella zona di Panzi per riuscire a identificare la malattia che colpisce particolarmente i bambini e le donne, e si sta dimostrando aggressiva su una popolazione già debole e malnutrita, che non ha accesso a cure tempestive.
Preoccupante perché il numero di persone infette sale rapidamente.
“Panzi è una zona sanitaria rurale, quindi c’è un problema con la fornitura di medicinali”, ha detto la leader della società civile Cephorien Manzanza a Reuters.
L’Organizzazione mondiale della sanità sta lavorando con le autorità congolesi per indagare su questa nuova emergenza.
Niger
Il Niger ha preso il controllo della società mineraria Somair togliendolo alla compagnia francese Orano, multinazionale dell’energia che opera prevalentemente in quella nucleare, e che possiede il 63% di Somair.
“Orano conferma che le autorità nigerine hanno preso il controllo operativo della compagnia”, hanno dichiarato i francesi.
Un passo ulteriore compiuto dalla giunta militare che guida il Niger nel cambio di rotta nei rapporti con gli investitori esteri.
Il Niger, da cui arriva il 4% dell’uranio globale e il 15% di quello utilizzato dalla Orano, non ha riposto alla richiesta di commenti da parte dell’agenzia Reuters.
Orano ha detto che “difenderà i sui diritti davanti agli organi competenti”, riporta Reuters.
A giungo il Niger aveva tolto i permessi di estrazioni alla sussidiaria Imouraren, mentre la canadese GoviEx Uranium ha dichiarato che a luglio il paese avrebbe strappato loro il diritto allo sviluppo di un progetto sull’uranio.
Orano avrebbe visto per mesi “interferenze nella governance di Somair, dove è stata costretta a sospendere la produzione dopo che le autorità avevano bloccato le esportazioni lo scorso anno”, secondo quando scrive Reuters.
Le scelte della giunta militare, guidata da Abdourahamane Tchiani e salita al potere nel luglio dello scorso anno, si inseriscono nel quadro di un allontanamento dei paesi del Sahel, Mali, Niger e Burkina Faso, dai rapporti privilegiati con l’ex potenza coloniale e con l’Occidente, e di avvicinamento invece alla Russia.
A fine novembre una delegazione russa con la presenza del vice primo ministro russo, Alexandre Novak, che è responsabile dell’energia, ha visitato i tre paesi dell’Alleanza degli Stati del Sahel con l’obiettivo proprio di rafforzare i rapporti con Mosca.
Con lui, nella delegazione, anche esponenti di Rosatom, la società pubblica russa per l’energia nucleare.
“Oggi si realizzano attivamente progetti di importanza regionale volti a migliorare la qualità della vita delle popolazioni, in particolare l’accesso all’elettricità o lo sviluppo delle infrastrutture di trasporto”, avrebbe dichiarato venerdì scorso Novak, secondo quando scrive l’Agence France Press citando il canale Telegram del governo russo.
La delegazione comprendeva anche il vice ministro della Difesa Younous Bek-Evkourov e membri dei servizi di intelligence.
Prima della visita, ricorda RFI, Mosca aveva inviato in Niger un aereo cargo carico di armi, a testimonianza “dell’intensità e della solidità della cooperazione strategica tra i due Paesi”.
“Al centro dei negoziati: il potenziale dispiegamento di nuovi paramilitari dell’Africa Corps, l’addestramento degli eserciti saheliani e la firma di nuovi accordi bilaterali nella lotta al jihadismo”, si legge ancora.
Senegal
Le sepolture sono allineate, sulla terra.
Ornate solo di marmo bianco.
Biram Senghor è qui ogni anno.
Ogni volta davanti a una tomba diversa.
Tombe senza nomi.
In una di quelle ci sta sua padre, ma non sa quale.
Biram ha ottantasei anni.
Ne sono passati ottanta anni dalla strage di Thiaroye.
Lui ne aveva sei.
Per decenni di quei morti non si è potuto parlare.
E solo dopo ottant’anni la Francia ha finalmente pronunciato la parola “massacro” per bocca del presidente Emmanuel Macron.
Perché quello compiuto il 1 dicembre del 1944 dai francesi in Senegal è stato un “massacro”.
Sarebbero stati 35 secondo la Francia, ma secondo gli storici probabilmente molti di più, centinaia, forse 400, i soldati ammazzati per aver chiesto la paga.
“Tirailleurs Sénégalais”, soldati che avevano combattuto per la potenza occupante, per i colonialisti, durante la Prima e la Seconda guerra mondiale.
Durante la Campagna di Francia nel 1940 erano stati catturati dai tedeschi.
Alcuni di loro vennero sommariamente uccisi dai nazisti, gli altri a marcire nei campi in Francia.
Nel 1944, dopo lo sbarco in Normandia, vennero rimpatriati e alcuni portati in un altro campo, il campo di Thiaroye, alla periferia di Dakar.
Senza retribuzione per il servizio reso, costretti in condizioni misere, i soldati senegalesi avevano solo chiesto la paga.
Una richiesta che è costata loro la vita, uccisi da chi avevano contribuito a difendere.
Disarmati, gli hanno sparato.
Per decenni la Francia si è giustificata dicendo che si è trattato di un “ammutinamento”.
Macron ha scritto una lettera al presidente senegalese Diomaye Faye, secondo quanto riporta l’Associated Press.
“La Francia deve riconoscere che quel giorno lo scontro tra soldati e fucilieri che chiedevano il pagamento di tutti i loro legittimi salari, ha innescato una catena di eventi che è sfociata in un massacro”, si legge.
Nessuna menzione del numero di soldati uccisi.
Con François Hollande il massacro era stato definito “repressione sanguinosa”, nella prima dichiarazione che ammetteva fosse accaduto qualcosa.
Hollande nel 2014 aveva consegnato all’allora presidente del Sengal, Macky Sall, gli archivi sul massacro.
Molti, però, i documenti che mancano, le informazioni che ancora non si hanno, come l’esatta ubicazione delle fosse comuni.
La verità su questa tragedia non è stata ancora pienamente rivelata.
Madagascar
Sono oltre mille gli animali rari che torneranno a casa, in Madagascar.
Tartarughe, lemuri, ragni, rettili vittime del traffico di specie rare.
Alcune, come i lemuri dalla coda ad anelli o le tartarughe radiate, vivono solo in questo Paese che è diventato meta ambita dai trafficanti.
Sono state trovate sette mesi fa nel Sud della Tailandia ed erano destinate ai mercati cinesi e vietnamiti per diventare polveri e rimedi della medicina tradizionale.
O per diventare animali da compagnia.
“È semplicemente una grande emozione essere qui sull’asfalto, vedere i lemuri uscire dalle gabbie”, ha detto il ministro dell’Ambiente del Madagascar Max Fontaine, accogliendo gli animali sbarcati all’aeroporto, riporta Radio France Internationale.
“È una piaga che sta prendendo piede nel sud-est asiatico, l’addomesticamento di queste specie selvatiche che attirano particolare affetto.
Per esempio a Hong Kong abbiamo avuto casi di persone che camminavano per strada con tartarughe al guinzaglio”, ha aggiunto.
Specie, quelle salvate nella più grande operazione di questo tipo mai effettuata e condotta dalle autorità tailandesi e malgasce, in pericolo.
Le tartarughe radiate hanno perso in trent’anni il 75% della loro popolazione.
Molte le persone arrestate, che rischiano fino a quindici anni di prigione.
Potrebbe trattarsi di una rete criminale organizzata molto più vasta.
“Ci sono sempre delle scappatoie potenziali, ci sono sempre forze del male che sono molto ben organizzate, perché ci sono in gioco grandi somme, quando parliamo di tartarughe sono diverse migliaia di dollari, quando parliamo di lemuri sono diverse decine di migliaia di dollari”, ha detto Fontaine.
Il traffico di specie rare rappresenta una vera minaccia.
Secondo l’ ultimo rapporto delle Nazioni Unite, pubblicato in primavera, però, i sequestri sono aumentati mentre il bracconaggio di avorio di elefante e corni di rinoceronte è diminuito in modo significativo.
Nigeria
“Incarceration”.
Non è soltanto essere rinchiusi in una prigione.
È ogni forma di costrizione, limitazione alla libertà e alle possibilità espressive degli esseri umani.
È questo il tema su cu riflette il Festival internazionale della fotografia di Lagos, Lagosphoto Festival 2025.
Un evento tra i più importanti nella scena artistica africana e internazionale, il primo in Nigeria, che diventa – per il suo quindicesimo anniversario – Biennale.
Non più soltanto luogo dove gli artisti possono raccontarsi attraverso i loro lavori, ma un lungo programma di workshop, seminari, eventi formativi, di scambio.
Una riflessione sulle sfide del mondo contemporaneo.
“Ci sono molti tipi di carcerazione. C’è l’essere rinchiusi in una cella di prigione. C’è la prigionia autoimposta, quella a cui costringe la corruzione, in cui è richiuso il potere. Ci sono i corpi fragili. Ci sono forme di incarcerazione che nascono dall’assenza di acqua, elettricità, c’è quella che patiscono i popoli occupati. C’è quella generata, dall’architettura, dal “modo di costruire per tenere gli altri fuori e tenere alcuni ingabbiati”.
C’è la censura.
E quella che nasce dalle “narrazioni che raccontiamo a noi stessi”.
Carcere, possono essere i confini.
“In tutte le verità professate c’è sempre un paradosso di fondo. Per esempio, la grande democrazia del mondo, la terra dei coraggiosi e dei liberi, ospita di gran lunga i popoli incarcerati del pianeta.
I 2,2 milioni di prigionieri attualmente in prigione rappresentano un quarto del numero totale di prigionieri nel mondo”, scrivono i curatori del Festival.
“Essere liberi significa essere disposti a soffrire per la verità. Tutta la grande arte è una ricerca di questa verità”, aggiungono.
Lanciato nel 2010, organizzato dall’African Artist Foundation ha un obiettivo “recuperare gli spazi pubblici e coinvolgere il grande pubblico nelle molteplici storie dell’Africa”.
Intorno al festival si è creata una comunità che unisce artisti locali e internazionali.
L’edizione 2025 si concluderà il 23 di gennaio, con la promessa di essere non solo spazio d’indagine del reale, ma anche luogo per l’elaborazione di visioni per il futuro.
In copertina Diana Robinson | Flickr
Leggi anche:
- Elezioni Usa: cosa accadrà nel mondo
- Trump: Interviste surreali ai confini della Storia
- Gaza: il quotidiano Haaretz descrive la campagna di pulizia etnica nel nord di Gaza
- Violenze e utopie
- Kenya, lacrimogeni sulla protesta delle donne contro i femminicidi
E se credi in un giornalismo indipendente, serio e che racconta il mondo recandosi sul posto, puoi darci una mano cliccando su Sostienici