Afghanistan: la pena degli artisti
Scritto da Barbara Schiavulli in data Ottobre 5, 2021
Kabul − A vederlo sembra un pacioccone. Poi vedi quello che disegna e scopri che Iqbal Tarnak è un artista in ogni cellula del suo corpo. E per questo, come tutti gli artisti, intellettuali, musicisti, professionisti e giornalisti in Afghanistan, è nel mirino dei talebani. Le gallerie d’arte che esponevano ritratti sono state vietate, i quadri ritirati. Al massimo si può dipingere una natura morta, un paesaggio o delle bellissime composizioni con i caratteri arabi.
Ma a Iqbal e a molti dei suoi colleghi non basta. «L’arte è espressione, è libertà, è politica», ci dice mentre cerca di tirar fuori alcune delle sue opere. Roba da far tremare le viscere dei talebani che non amano le critiche. Iqbal parla e si circonda dei ritratti che ha disegnato, finita l’università gli è stato chiesto di rimanere come insegnante alla facoltà di Arte, ma ora l’università è chiusa, i suoi dipinti non sono più in vendita e, come centinaia di migliaia di persone, pensa e spera di poter partire per costruirsi una vita in un paese che accetti il suo talento.
I talebani non amano l’arte che non sia strettamente legata alla religione. Disegnare facce, in alcuni casi farsi foto, è proibito anche se di fatto non è raro vederli mentre si fanno un selfie o, come ora accade, apparire in foto di riunioni politiche o ripresi dalle telecamere dei giornalisti. I talebani sono più flessibili con sé stessi che con gli altri. E questo vale per ogni settore intellettuale del paese. Per loro la musica è il male, come lo sono i dipinti di volti, le facce delle donne con un’acconciatura nelle vetrine delle parrucchiere, ormai attentamente rimosse o a cui è stato cancellato il viso. Nelle strade non ci sono neanche più i cartelloni pubblicitari con donne, e neanche manichini con la testa.
Iqbal in un angolo tiene un blocco per bozzetti, sono le sue sperimentazioni, dal ritratto sta variando verso l’arte contemporanea, ma quello che ne esce sono un foglio più potente dell’altro, dove la rabbia esplode tra le righe e i simboli: una sedia fatta di proiettili che racconta il potere in Afghanistan costruito con le armi. Il suo ritratto con la testa spaccata in due e le parole che escono, perché è così che si sente. Una bambina, con un cuore per zainetto, che cerca di scavalcare un muro ma delle corde la trattengono. «Vorrebbe andare a scuola, ma non può», ci dice mostrandoci degli schizzi che neanche si rende conto di quanto siano già perfetti.
Afferra un ritratto, c’è una ragazza senza un occhio e la bocca. È Hassina, una delle studentesse morte durante l’attentato all’università nel novembre 2020. Ha dipinto un quadro per ognuna delle 19 vittime che non possono più parlare. Con un occhio ci impongono di guardare la loro anima, perché non vengano dimenticate. Voleva fare una mostra, ma gliel’hanno vietato. Troppo forte, troppo significativa.
Anche suo padre lo ha invitato a staccare i quadri che aveva in casa. «Ho chiuso la mia pagina Facebook, tutto quello che penso mi resta bloccato nel cuore. Quando sono arrivati i talebani, ho perso ogni speranza, temo che dovrò andarmene, perché il compito di un artista è essere critico, non essere d’accordo, essere una voce fuori dal coro», dice mostrandoci l’opera di un asino fatto con i ritagli di giornali, che rappresenta la stampa allineata.
«Fare paesaggi non mi permette di esprimermi, l’arte mi serve come indicazione da seguire per costruire la mia vita, vedo cose che non esistono e cerco di raccontarle. Vedo quello che potrebbe essere e cerco di raccontarlo».
Vorrebbe continuare a studiare, ma la maggior parte dei professori ha lasciato il paese. «Dalla mia facoltà dieci se ne sono andati. Vi dico la verità, non sono tanto spaventato per la mia vita, non ho paura di morire, quello che mi spaventa davvero è il non poter comunicare, restare bloccato con tutto quello che ho dentro, per questo mi sento spaccato in due».
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