Afghanistan, a proposito di cultura

Scritto da in data Settembre 23, 2021

Kabul − «Una nazione resta viva quando la sua cultura è viva», si legge su una scritta incisa sulla pietra davanti all’entrata sigillata del museo di Kabul. Abbiamo appena lasciato il museo Nazionale dell’Afghanistan. È chiuso tanto che neanche il direttore Muhammad Fahim Rahimi può entrare nel suo ufficio. Ma preferisce così perché il suo compito è proteggere i reperti che ritiene il patrimonio storico e culturale dell’Afghanistan. Avrebbe potuto andarsene, ma ha scelto di restare ed è disposto a fare qualunque cosa pur di rimanere nello staff, qualora i talebani lo rimuovessero dal suo ruolo. Rahimi parla dell’Afghanistan, dei suoi 5.000 siti archeologici, del suo potenziale storico essendo stato il crocevia di molti mondi, che vanno da Alessandro Magno ai monasteri buddisti. Davanti al cancello d’entrata di guardia ci sono due talebani poco convinti di quello che stanno proteggendo.

direttore del museo nazionale di kabul Mohammad Fahim Rahimi

Muhammad Fahim Rahimi, direttore del Museo Nazionale dell’Afghanistan (credits: Barbara Schiavulli)

Rahimi ha dovuto dialogare a lungo con il nuovo regime, la sua paura più grande era che il museo venisse saccheggiato. «Non ho dormito due notti. Sono rimasto qui, con altri due impiegati». Temeva che accadesse come negli anni Novanta quando durante la guerra civile il museo venne depredato e perse il 70% dei suoi reperti, poi spuntati alle aste, nelle collezioni private, perfino nei musei di mezzo mondo. Ma c’è un’altra paura ed è il traffico illecito, in un paese che ha bisogno di soldi potrebbe essere anche perpetrato da chi ha il potere, senza contare che nel 2001 i talebani distrussero i due giganti, i Budda di Bamiyan, davanti agli occhi del mondo. «Non credo che questa volta potrebbero fare niente di simile, soprattutto dopo quello che ha fatto l’Isis in Siria e in Iraq. I talebani vogliono essere riconosciuti, almeno per ora non faranno niente che li metta troppo in difficoltà con il resto del mondo da cui vogliono essere riconosciuti».
Certo è che dovranno fare i conti con tutto quello che è pre-islamico e che durante la loro presa di potere precedente, hanno tentato di distruggere.

Mentre Rahimi resta a presidiare il suo museo, e una guardia talebana con una ferita alla gamba saltella per aprirci il cancello, al ministero della Cultura e dell’Informazione sembrano molto indaffarati. Un via vai di talebani carichi di carte e documenti che entrano ed escono dall’edificio presidiato da giovani guardie, molto più aggressive di quelle al museo. Ci aspetta Abdullaq Wasiq, vicecapo della Commissione Cultura del governo talebano. Barba folta e nera, occhiali da vista, il viso incorniciato da un turbante. Si siede a distanza, parla guardando nel vuoto con gli occhi che ogni tanto si abbassano per controllare i messaggi sul cellulare. «Il museo è chiuso per la sua stessa sicurezza. Non sappiamo ancora quando, ma riaprirà», mormora Wasiq. Assicura che, come per ogni nazione, anche per il nuovo Afghanistan la cultura è importante e che nessuno di loro ha intenzione di distruggere alcunché. «Una nazione senza cultura, è senza identità», dice poi, però scuote la testa quando viene di nuovo incalzato sul non andare a scuola delle ragazze delle superiori. «Ci andranno quando sarà sicuro per loro, tutto deve essere fatto in modo appropriato e in rispetto della legge islamica. Bisogna che siano al sicuro, dal trasporto alle classi». Potrebbero andare con donne che guidano dei pulmini, a Kabul ci sono donne che sanno guidare. «Le donne non sanno guidare». Non è vero, ce ne sono che sanno guidare, potrebbero aiutare. «Tu guidi?». «Certo che guido e ho una macchina mia». Alza gli occhi al cielo. L’Islam non vieta alle donne di lavorare. «No, ma ci sono lavori consoni per loro, come badare alla casa».

vicecapo commissione cultura talebano

Abdullah Wasiq, vicecapo commissione cultura del governo talebano (credits: Barbara Schiavulli)

E la musica? Anche la musica è cultura. Questa volta l’uomo che scopriremo essere un poeta, mormora «haram, haram, proibito». «La musica è volgare e il ballo fa perdere i sensi, va bene la musica religiosa di soli uomini senza strumenti, quella va bene». Ma l’Afghanistan ha una tradizione musicale, ha avuto tanti compositori. «No, la musica arriva da fuori, non è afghana e non è musulmana». L’Afghanistan è l’unico paese al mondo dove la musica è vietata, che si tratti di un matrimonio, della televisione o delle radio delle macchine.

Si cambia discorso, Wasiq non ama la musica forse perché gliela sparavano gli americani nelle orecchie per non farlo dormire. È stato rinchiuso per due anni (2007-2009) nella famigerata prigione americana di Bagram (dove c’era la più grande base militare americana), è lì che ha imparato a parlare un discreto inglese. Prima era il portavoce dei talebani nella provincia di Zabul e gestiva una radio di propaganda, motivo per il quale è stato arrestato. Passava il tempo a scrivere poesie sulla libertà, contro gli americani e l’amore per la patria. Poesie d’amore, no? «Certo per questa terra».

Risponde all’ennesimo messaggio. Il fotografo che è con noi, nota che smanetta con un iPhone di ultima generazione. Non è proibito avere un cellulare americano? Wasiq fa una smorfia che sembra un sorriso: «Un telefono è come un coltello: puoi tagliarci il cibo o uccidere un uomo. Perché non dovremmo usare un iPhone? Quello che volevamo era che gli americani non invadessero e controllassero questo paese, per il resto siamo in buoni rapporti e sono sempre i benvenuti».

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