Che la Madre Terra vi benedica

Scritto da in data Ottobre 20, 2019

Le cose sono tornate di nuovo alla normalità. I bambini possono andare tranquillamente a scuola. I bus stanno circolando normalmente. E questa è una emozione perché la lotta del mio popolo è valsa la pena – Halcón Blanco, 23 anni. Artista ecuadoriano, che di giorno fa il pane per pagarsi gli studi e i sogni, e di notte disegna. Valentina Barile lo ha intervistato per Radio Bullets.

La voce di Halcón Blanco è di Francesco Iacovelli

Ecuador

Halcón Blanco (falco bianco) – è così che si fa chiamare – e io abbiamo avviato la nostra corrispondenza dopo il mio ennesimo ritorno dal Sudamerica, ingannando oceani e fusi orari.

Dieci giorni fa è stata interrotta da video e immagini scioccanti che tracciavano i segni di una rivolta indigena contro il governo Lenín Moreno, presidente dell’Ecuador da due anni, che esercitava una così forte repressione da sentir parlare di violazione dei diritti umani.

Perché i popoli originari continuano a dover lottare? Un colonialismo mai terminato, una forza malefica che attacca il mondo naturalmente più ricco, dall’Equatore in poi. Ed è proprio qui, a Quito, la capitale dell’Ecuador, luogo attraversato dalla famosa fascia che divide i due emisferi terresti, che è scoppiata la guerriglia.

Quando Halcón parla e scrive del suo popolo, la voce gli si fa più fioca, calma, il ritmo rallenta. D’un tratto, spariscono i suoni intorno e come un filo di vento che attraversa i capelli e mette tutto in ordine, così la sua anima si prepara a raccontarsi.

In uno stato in cui lo stipendio base corrisponde a meno di quattrocento dollari statunitensi, lui, proveniente da una famiglia di contadini, una esperienza passata come pastore all’età di undici anni, cerca di portare avanti il suo talento, e il lavoro che gli permette di vivere: il pane.

Il primo ottobre, come un fulmine a ciel sereno, l’Ecuador esce dall’Opec (Organizzazione dei Paesi Esportatori del Petrolio), il giorno successivo è sciopero nazionale: il presidente Moreno, in accordo con il Fondo Monetario Internazionale, avvia un piano di austerità, il Paquetazo, che prevede la liberalizzazione del prezzo del gasolio, la diminuzione delle garanzie sui contratti di lavoro a termine, tagli alle ferie dei dipendenti pubblici e aumento del costo della vita in generale.

La Conaie (Confederazione delle Nazionalità Indigene dell’Ecuador) scende in piazza con più di ventimila indigeni a protestare: è coprifuoco! Feriti, repressione su manifestanti. La stampa nazionale corre ai ripari, censurando repentinamente molti periodici. Nocencio Tucumbi, ex leader della Conaie, resta ucciso a Quito. La lotta intanto prosegue, siamo al 10 ottobre.

Lenín Moreno fa una marcia indietro e decide di sedersi al tavolo tecnico con gli indigeni: “non negozieremo con il sangue dei nostri fratelli”, dicono dalla Conaie, invitando il presidente a rivisitare il decreto 883, la cui modifica elimina il sussidio sui carburanti.

Il 13 ottobre, Moreno cede alla protesta dei manifestanti, i negoziati tra governo e comunità indigene vanno a buon fine, con la mediazione delle Nazioni Unite e la Conferenza episcopale.

Gli indigeni scendono in piazza, stavolta per festeggiare.

Il bilancio è di 7 morti, 1340 feriti, 1152 arrestati.

Jaime Vargas, l’attuale presidente della Conaie, riconosce che oggi, ad amministrare il paese c’è la destra insieme al FMI, e che, in un certo senso, Lenín Moreno è più vicino agli indigeni di quanto non lo sia stato il socialista suo predecessore, Rafael Correa, eletto grazie ai voti degli indigeni, e dal quale il suo successore prende le distanze.

Esiti

Il popolo indigeno vince! Dopo dodici giorni di protesta.

Cosa accadrà? Moreno manterrà gli accordi?

Il FUT (Frente Unitario Trabajadores), l’organizzazione dei lavoratori, per fine mese di ottobre sta organizzando una mobilitazione contro le riforme preannunciate dal presidente liberale, il quale fa sapere che se il 30 ottobre si riapriranno le sommosse, non siederà più al tavolo con la Conaie per cercare soluzioni e accordi che possano garantire il benessere nazionale.

HALCÓN BLANCO

Dopo un anno di corrispondenza, proprio mentre parliamo di Ecuador, mi viene in mente di chiedergli qual è il suo vero nome. E lui mi dice: «Diego, Diego Armando… ». Un amerindo che si chiama così fa notizia, ancora oggi, nonostante sia un amerindo degli anni Novanta, nato e cresciuto nel mito di uno dei più grandi calciatori del mondo.

Halcón Blanco scopre il suo amore per il disegno a scuola, ma non ha i mezzi per poter sviluppare il suo talento, frequentando un’accademia d’arte, perché ha undici anni e deve badare al suo gregge. Con il passare del tempo, incontra un professore che gli insegna come procedere. A questo punto, capisce che il disegno è ciò che lo rende felice.

Quando gli chiedo se ha un’immagine davanti ai suoi occhi della lotta indigena di questi giorni, mi dice: «Praticamente, sì. In questo momento vedo persone che morivano. Più di tutto, vedo i nostri figli che durante la protesta ci aspettavano a casa con la speranza: chissà se papà torna o meno. Così, ho pensato di illustrarlo, anzi più che pensarlo, disegnerò due bambine indigene che aspettano il ritorno dei genitori che lottano per i propri diritti».

Gli chiedo qual è la situazione attuale, adesso, nella sua città Cotopaxi, se ancora terribile come nei video che mi ha inviato.

«Alcuni giorni fa le cose stavano male qui, in Ecuador, a causa dell’aumento della benzina. Il governo ha aumentato il prezzo della benzina e il mio popolo indigeno si è svegliato ed è sceso in piazza. Fondamentalmente, noi indigeni alimentiamo le città e trasportiamo gli alimenti dalla campagna mediante dei mezzi. Per esempio, se dalla sera alla mattina il prezzo del carburante sale, i trattori non possono trasportare i prodotti allo stesso prezzo, e i soldi del ricavato ci servono per far crescere i nostri figli, per comprargli gli indumenti o qualsiasi cosa. E per questa ragione la mia comunità indigena e tutte le altre si sono indignate per l’aumento del combustibile. Poi, però, hanno provato a giungere a un accordo per eliminare il sussidio sul carburante e alla fine abbiamo ottenuto un dialogo – secondo le regole indigene del buon vivere – con il presidente, anche se all’inizio lui non era disposto all’apertura». A questo punto, gli chiedo la ragione e lui mi risponde: «Lui non voleva modificare il decreto 883, non voleva eliminare il sussidio sul carburante».

Incalzo ancora, chiedendo se il presidente Lenín Moreno sta dalla parte degli indigeni, e Diego Armando continua così: «La verità è che siamo arrivati a un accordo, ma il presidente aveva alzato delle barriere su ciò che il popolo chiedeva, poi si è aperto alle proposte e si è fatto un incontro in cui dopo un lungo dialogo con i leader indigeni, il governo ha stabilito la diminuzione del sussidio sul combustibile».

Quando gli chiedo come ha passato i giorni di lotta e cosa vuol dire per lui lotta indigena, la nostra chiacchierata prende una piega più emotiva: «Ho vissuto una esperienza orribile, in pratica siamo stati senza cose da mangiare, i locali erano tutti chiusi. Le persone non avevano di cosa alimentarsi, qui, nel mio quartiere, non si trovava il latte, le patate, e la gente cominciava a preoccuparsi. Né abbiamo ricevuto un aiuto umanitario. Ci sono state, però, molte persone che ci hanno aiutato in molte cose. Che hanno collaborato con noi per distribuire bibite, pane, vestiti; c’erano delle squadre organizzate per questo. Noi come indigeni lottiamo per i nostri diritti più di ogni altra cosa. Lottiamo per essere presi in considerazione dalla società e che non ci trattino come selvaggi. Tu sai che grazie agli indigeni, grazie alle persone che vengono definite selvaggi, la città si alimenta. Se la campagna non produce, la città non mangia». Quest’ultima sua frase, che è a tutti gli effetti uno slogan pacifista, è come un proverbio. Lo interrompo e gli chiedo se ha paura per i giorni futuri e se ci sono in programma altre manifestazioni per la fine del mese, come annunciano alcuni periodici nazionali: «Più che paura, ho avuto molta tristezza perché mi sembrava una lotta tra la polizia e gli indigeni, in cui il mio popolo lottava per la libertà. Per quanto riguarda le possibili proteste, non sono informato, però non credo. Speriamo che passeranno perché tutto questo fa soffrire l’Ecuador». Rimbalzo con una curiosità che per lui è forte, parlando di corruzione: «Praticamente, sì. C’è stata molta corruzione nella stampa, come, ad esempio, in Tele Amazonas, da cui non è uscito nulla, e addirittura il governo ha affermato che fosse tutto a posto, mentre la gente per le strade subiva le percosse, ci lanciavano i gas lacrimogeni: è stato orribile».

Ci stiamo per salutare e Halcón Blanco, d’un tratto, comincia a parlare in quechua, la sua lingua originaria, mi accorgo che le parole che pronuncia sono dei suoni piacevoli, che significano qualcosa di positivo. Ritorna al suo spagnolo sudamericano con un’ultima frase: «Che la Pachamama – in quechua Madre Terra – ti benedica. Ringrazia anche i tuoi colleghi di lavoro per questo spazio che mi avete regalato, per esprimere ciò che sento».

Il debito dell’Ecuador

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