I cacciatori dell’arcobaleno
Scritto da Raffaella Quadri in data Ottobre 2, 2019
I ricercatori del Dipartimento di Scienza dei materiali dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca hanno sintetizzato un nuovo nanomateriale per cercare di recuperare la parte di spettro solare sprecato dalle celle fotovoltaiche. Si chiama ePAF e potrà aprire la strada verso nuovi sviluppi in campo energetico e biomedico.
Raffaella Quadri per Radio Bullets. Musica: “True colors” di Cyndi Lauper.
È gratuita, pulita, si rinnova e ce n’è in abbondanza. Ma soprattutto è essenziale alla vita e può essere utile in numerosissimi campi. È la luce del Sole, un fantastico insieme di colori.
L’energia del Sole
Tra le risorse che abbondano sul nostro pianeta e che fortunatamente sappiamo sfruttare c’è quell’infinita gamma di colori data dalle frequenze elettromagnetiche che provengono dalla nostra stella. I fotoni – detti anche quanti di luce – sono gli elementi fondamentali di cui è composta la luce e, cosa più importante, al di là del permetterci di percepire i colori, trasportano energia.
Per questa ragione sono raccolti per produrre elettricità, cosa che avviene per esempio attraverso le tecnologie fotovoltaiche che tutti noi conosciamo. Ma ciò che non si sa è che c’è un’ampia parte dello spettro solare, quindi di fotoni, che non è ancora sfruttata.
Come fare quindi per non sprecare tutta la loro preziosissima energia?
Ci hanno pensato i ricercatori dell’Università degli Studi di Milano – Bicocca, in particolare, un team del Dipartimento di Scienza dei Materiali, guidato da Angelo Monguzzi, professore associato di Fisica Sperimentale della Materia, e da Angiolina Comotti, professore ordinario di Chimica Industriale.
Il team ha progettato e sintetizzato delle speciali nanoparticelle in grado di migliorare la capacità delle celle solari di raccogliere la luce e quindi di produrre energia sfruttando al massimo lo spettro solare.
Il nuovo materiale cattura fotoni
Queste particelle infinitesimali realizzate in Bicocca si chiamano ePAF, acronimo inglese per nanoparticelle porose multicomponente fluorescenti (emitting porous aromatic frameworks), e sono in grado di catturare i fotoni che solitamente finiscono per essere sprecati. Una volta catturate, le particelle di luce sono poi convertite in altri fotoni ad alta energia che sono facilmente assorbiti dai dispositivi con cui poi produciamo elettricità.
A rendere possibile questa trasformazione – che, come spiegano i ricercatori, si chiama upconversion – sono due molecole che formano il nuovo materiale e che interagiscono: la prima funge da antenna e cattura l’energia all’interno della nanoparticella porosa, la seconda invece funziona come un convertitore/emettitore riceve l’energia che proviene dall’antenna e produce i fotoni ad alta energia.
Come sfruttare il nuovo materiale
L’applicazione più interessante per questo nuovo nanomateriale è proprio nelle tecnologie fotovoltaiche, in cui può essere usato per migliorarne l’efficienza. Tuttavia, i ricercatori sono certi che potrà portare allo sviluppo di nuovi e avanzati nanomateriali luminescenti che potranno essere impiegati in diversi campi,
per esempio nel settore medico al fine di realizzare nuovi marker per la bioimaging o ancora per costruire nuovi sensori luminosi che possano servire per individuare sostanze nocive e pericolose.
Insomma applicazioni pratiche che potranno essere molto utili sia nel comparto energetico sia in medicina e diagnostica.
Lo studio dell’ateneo milanese, ricordiamo infine, è stato pubblicato sulla rivista Advanced Materials.
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