Il teatro della protesta
Scritto da Barbara Schiavulli in data Gennaio 2, 2020
di Barbara Schiavulli da Baghdad, Iraq
“Molti di noi restano qui perché hanno paura di tornare a casa”, ci dice un giovane manifestante a Sadoun Street, costellata di tendoni, dove sorge, vive, riposa, pianifica e pulsa il cuore della rivoluzione irachena. Da tre mesi ci sono giovani e meno giovani che cercano di cambiare il corso della Storia, quella di una politica che non li rappresenta, fatta di interessi che non riguarda la culla della civiltà di cui loro si sentono parte. 550 morti, 21 mila feriti, secondo le ultime stime e 56 persone scomparse, molte delle quali attivisti, lo zoccolo duro dalla rivolta irachena. L’ultima vittima la notte scorsa, un attivista appunto, Saadoun al Luhaydi, colpito alla testa a sud ovest della capitale.
“C’è parecchia tensione in questo periodo, l’attacco all’ambasciata americana non ci aiuta, mostra solo come gli americani e gli iraniani sono più interessanti dei problemi degli iracheni”, dice Hussein 22 anni, regista e attore. Accanto lui il collega Yousef, 23 anni. Bazzicano una cinquantina di attori sotto al tendone che chiamano il “Teatro della protesta”.
“In questa strada ognuno di noi ha portato la sua esperienza, ci sono studenti, sindacati, medici, gente che cucina, che spazza, che studia, noi abbiamo pensato che ci fosse bisogno di momenti per alleviare la tensione – ci spiega Hussein – il teatro è diventato il collante tra la popolazione e la situazione, le generazioni che ci hanno preceduto sono completamente distaccate dal mondo che ci circonda, noi usiamo l’arte per sorridere e riconnettere un posto che dovrebbe appartenerci”.
L’Iraq ha una lunga storia di teatro, di musica, di arte. C’è un detto arabo che dice “gli egiziani scrivono, i libanesi pubblicano e gli iracheni leggono”, un popola che ha inciso la scrittura nella pietra, ora martoriato dal settarismo, dalla guerra, dall’estremismo, dall’avidità e il potere.
I ragazzi del teatro hanno deciso di scendere in piazza e di rappresentare in modo satirico quello che sta succedendo, perché sorridere e riflettere è la loro soluzione. Ogni giorno mettono in scena uno spettacolo, le gente si raduna sotto il palco. “La nostra storia è una tragedia, noi la prendiamo e la trasformiamo in qualcosa di divertente, perché si deve ogni tanto anche pensare ad altro. E’ il nostro contributo, colmare la distanza tra noi giovani attori e la gente”. E ora li cercano, li aspettano, li applaudono e se qualcuno non può raggiungere la tenda, perché sta presidiando il ponte che porta la zona verde, ci vanno loro, “perché il teatro non è qualcosa di fisso, noi siamo movimento”.
Yousef non ha peli sulla lingua: “quelli al governo si dicono religiosi e hanno depredato questo paese, questa rivoluzione è laica, e vorremmo che religione e politica fossero separati, questi politici hanno fatto di tutto per farci ripiombare nel Medioevo, loro sono laggiù a meno di un km di distanza eppure siamo anni luce gli uni dagli altri”.
Col teatro si può vincere? “Il teatro è il massimo della comunicazione di qualità”, risponde Hussein, “per questo il governo non ci vuole, per noi non ci sono incentivi, non ci sono per il cinema e per la musica, perché i nostri politici non vogliono che la gente si avvicini, che ami la cultura, che pensi. In Iraq ci si alza al mattino pensando a come trovare da mangiare, non a cosa si potrebbe andare a vedere al cinema o al teatro, ci schiacciano perché le parole valgono più di mille armi”.
Non a caso tutte le militanze più violente che si sono susseguite in Iraq, hanno perseguitato gli artisti, gli intellettuali, i professori. L’ignoranza è potere per chi governa. “Siamo arrivati al punto di non ritorno, non vogliamo più ladri, corrotti, milizie, questa non è la nostra mentalità, questi non siamo noi, questo non è l’Iraq”.
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