Vorrei farmi leggere le carte

Scritto da in data Novembre 28, 2019

Vorrei tornare a quel momento preciso, a quella situazione perfetta quasi da film. Una donna uruguayana che mi legge le carte alla luce di una candela, seduta davanti a una chiesa bianca lungo una strada fatta di ciottoli. A Paraty era festa: indipendenza e santo patrono. Fili di bandierine si stendevano da un capo all’altro della strada. La gita in barca nella baia era stata pigra e indolente. Avevo parlato moltissimo con una donna figlia di un pastore protestante. A Paraty era anche lutto cittadino per un incidente di autobus e a Paraty ci fu un diluvio tale che andò via la corrente per molto, ovunque. A Paraty mangiai molto bene e ritrovai Havier. Vorrei tornare là, quando tutto sembrava perfetto.

La zingara dell’Uruguay

Vorrei farmi leggere le carte: non dalle donne delle sagre di paese, truccate in modo pesante, poco curate. Di solito indossano jeans sotto a finte vesti bianche e colorate, da gitana. Accanto a loro si trova una cassettina per i soldi: sono in fila. Tanti piccoli tavolini in fila, con la candela accesa accanto. Non da loro vorrei farmi leggere le carte, ma da una donna uruguayana che mi parla in spagnolo, perché – mi sussurra – non riesce proprio a leggere le carte in inglese. La si trova davanti a una chiesa bianca, linda e senza nemmeno un segno, proprio al limitare di una via fatta di ciottoli. Accanto alla chiesa c’è un edificio con righe blu mentre la via è attraversata da bandierine appese a un filo: è festa a Paraty. Anzi le feste sono due: l’indipendenza e il santo patrono. Ma c’è anche un lutto, ad accogliermi: un incidente che ha visto coinvolto un autobus.

La chiesa coloniale, la candela

Quando arrivai a Paraty, la mia ultima tappa dopo Ilha Grande, mi sentii in una sorta di acquario, in una cittadina ovattata e fuori dal tempo e dallo spazio. Lei – la donna che mi ha letto le carte in spagnolo – l’ho incontrata la prima sera: aveva disposto il suo tavolino, il solo, davanti a quella chiesa in stile coloniale. C’era una tovaglia bianca disposta sopra un panno rosso, c’era la candela e c’era un abito da zingara. Accanto a lei ma distante c’era anche il suo compagno: sembrava una sorta di protettore, a vederlo così, in piedi come un palo che mercanteggiava e contrattava per la donna. I suoi capelli – di lei – erano neri, lunghi e mossi, la sua veste morbida ma stretta in vita: mi ricordava Esmeralda, nel cartone animato “Il gobbo di Notre Dame”. Come dicevo, parlai prima con lui: giovane, capelli corti e chiaro di colore. Aveva un atteggiamento e un abbigliamento sportivi. Per le carte mi chiese 30 euro: prima chiacchierammo della città, del mio viaggio e di loro due. Era l’ora del tramonto: ricordo la luce, poi l’ombra e infine il buio e la candela finalmente accesa. Ora – seduta a quel tavolino con la chiesa bianca accanto e i ciottoli poco distanti da me – finalmente poteva iniziare lo spettacolo.

Uno spettacolo teatrale o un sogno a occhi aperti

Quel momento contribuì ancora di più a creare e plasmare un ambiente fiabesco, spettacolare, teatrale. Non ricordo cosa mi disse: restai delusa nelle predizioni lavorative – tanto che si affrettò a chiarire che poteva vedere solo fino a febbraio, solo per sei mesi. Mi disse che avrei incontrato un uomo più grande di me e che avrei imparato molto da lui. Più di tutto mi colpì dicendomi ciò che già di me sapevo, ciò che apparteneva alla mia indole, al mio passato e al mio carattere. Funziona così, giusto? I 30 euro furono nient’altro che il prezzo di un ottimo spettacolo teatrale, di una performance di strada, di un’arte che aveva bisogno solo di una chiesa bianca, ciottoli e una candela a illuminare il viso di una donna gitana.

Havier

Ero arrivata a Paraty senza sapere nulla: né di feste, né di morti né tantomeno degli incontri che avrei fatto. Ho scoperto tutto piano piano, con calma, ma con un certo distacco: non ne ero davvero partecipe. Ero alla fine del mio viaggio e – con la mente – ero già a casa. In una delle escursioni prenotate senza interesse, conobbi Elizabeth una donna tedesca che vive a Berlino, figlia di un pastore protestante. Rividi anche Havier, un giornalista spagnolo di Toledo incontrato per caso su Ilha Grande.
Quella mattina non volevo che la pioggia incessante mi fermasse e decisi di fare comunque il piccolo trekking verso la spiaggia più bella dell’isola. Chiesi alla reception se potessero andare bene le mie scarpe da running, se il terreno fosse critico o scivoloso per l’acqua e se le indicazioni fossero ben segnalate. Alle loro risposte mi sentii più sollevata e partii. Durante il cammino incontrai una sola persona che a quell’ora e con quel diluvio aveva deciso come di fare ugualmente il trekking: Havier, appunto. Non ci parlammo subito. Ci limitammo a camminare a una sorta di distanza di sicurezza. Essendo soli era bene non perdersi di vista, ma allo stesso tempo non volevamo importunarci a vicenda. A un certo punto però, la distanza si ridusse e Havier potè notare il mio braccialetto del Camino de Santiago: fu allora che mi rivolse la parola. Lo aveva fatto anche lui, anzi: lui ogni anno ne faceva un pezzettino. Mai tutto: solo un pezzetto.

La coppia di Oxford

Quell’esperienza in comune, unita alla sua professione e al mio amore per la Spagna, ci portarono a dialogare a lungo fino all’arrivo sulla spiaggia e oltre. Non ricordo se cenai con lui a Ilha Grande: di sicuro non volevo accentuare quel piccolo legame. Preferivo di sicuro conversare con la coppia di Oxford incontrata in viaggio: 33 e 35 anni; stavano insieme da sette anni e la loro idea era di viaggiare per sette mesi. La donna della mia età – la trentatreenne – era un’insegnante di disegno che aveva pensato – avendomi vista nella pousada a Rio de Janeiro – che fossi una bella persona con cui stringere amicizia. La donna più grande, invece, era una psicologa che si divertì a chiedermi come mi vedevo tra cinque anni: era il 2015 e i cinque anni scadono l’anno prossimo. Loro non le incontrai più: o meglio, le vidi da lontano una delle ultime sere sull’isola, ma non volli disturbare e feci finta di niente.

Vorrei tornare a farmi leggere le carte

Con Havier invece mi scontrai a Paraty. Ecco, vorrei tornare lì. Vorrei farmi leggere di nuovo le carte fino a febbraio, anzi fino a maggio. Vorrei tornare al momento in cui ritrovai Havier, per caso, a quando andò via la corrente per la troppa pioggia e fu tutto un trambusto, cercando di fare un check in e stampare un biglietto.
Vorrei tornare a quando scoprii che il bus per São Paulo era pieno.
– «Il notturno è pieno, signorina».
– «Non è possibile» dissi scuotendo la testa, sbiancando e insistendo.
– «Purtroppo, è pieno»
– «Ho l’aereo, l’aereo per l’Italia. L’aereo è domani».
Feci due conti, bianca e di marmo: quante ore ci vogliono? Quando parte il mio volo? Prendendo quello del mattino, di bus, il primo, dovrei farcela. Tornai all’ostello, prenotai una stanza per quella notte, mentre Havier, il giornalista spagnolo di Toledo incontrato camminando a Ilha Grande, sparirà: non lo rivedrò mai più. Avrei dovuto cenare con lui, ma ero impegnata con l’acqua, il check in, l’apocalisse di quella notte.

Vorrei tornare a prima di quella pioggia, tornare a parlare con l’uruguayano, mentre la sua fidanzata poco distante si preparava: il tavolino basso e circolare, i colori gitani fuori luogo.
«Non riesco a farti le carte in una lingua diversa dalla mia» mi disse, «per te va bene?».
Io le risposi con parole in tre lingue che si mischiarono in una sola frase.
Lei sussurrò davanti alla candela; io osservai la facciata di quella chiesa piccola e bianca e pensai ai miei ultimi giorni in Brasile.
Mi sentii davanti a uno spettacolo fragile, com’è fragile ogni rientro.
Ripenso ora a tutto ciò che del Brasile mi è rimasto. Vorrei tornare alle intemperanze e all’immensità di un Paese così diverso in ogni punto toccato: vorrei ricordare quanto di me si mescola con il luogo.

In copertina, foto di Eleonora Viganò

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