La spiaggia di Itapuã

Scritto da in data Ottobre 31, 2019

 

Un episodio personale, un momento di viaggio che non ha scalfito la mia passione, non ha cambiato il mio pensiero, non ha mai permesso le generalizzazioni né sul Brasile né su Bahia né sul viaggiare sola. Un episodio personale che ha cambiato la mia prudenza, il mio stare nello spazio e nel tempo, il mio modo di muovermi, di percepire, di rischiare. Un viaggio ancora immaturo che ha avuto una svolta verso la lentezza, la calma, la voglia di viaggiare ancora e ancora senza rinunciare mai.

Destino e libero arbitrio

Quanto destino c’è e quanto libero arbitrio? Cosa spinge verso un luogo, una scelta, cosa ci fa scartare le altre possibilità? Il cammino è ciò che conta, la meta ha solo un significato simbolico: eppure senza la meta, l’obiettivo, noi non faremmo mai un passo. Amo il pezzo di puzzle che si incastra, i puntini che si uniscono a posteriori. Non disdegno la scia lieve e morbida con la quale avvengono certi passaggi e percepisco il “click” di alcuni momenti, anche quelli banali, alternati alla fatica fisica e mentale per arrivarci.
Racconterò un episodio personale, più personale degli altri, perché credo che a volte, quando si viaggia, sia importante condividere anche l’io, i problemi, i pensieri. Preferisco essere un registratore su persone, luoghi e racconti. A volte sono un registratore su di me.
È il 2015, sono in Brasile. Ho deciso quel viaggio ancora prima di saperlo, quando nel 2013 ho conosciuto Gabriela, a Londra. Le dissi che ci saremmo riviste, che quelle cinque settimane di condivisioni non potevano finire così, nel nulla. Le dissi: «vieni in Italia nel 2014, io verrò in Brasile nel 2015». Sembrava una frase fatta e per lei – che in Italia non venne mai – lo fu. Per me no. Nel 2015, a gennaio, acquistai un biglietto per San Paolo – andata e ritorno – a 600 euro. Ci misi moltissimo prima di stabilire un percorso, acquistai costosi voli interni e decisi di percorrere distanze immense in quel mese a disposizione. Ero ancora una viaggiatrice immatura e bulimica: i miei punti fermi erano troppi e ai poli opposti di un Paese grande quanto l’Europa. Da Gabriela rimasi solo tre giorni, a Cuiabà, nella zona a ovest, nel Mato Grosso. Quando andai da lei ero ancora alle mie prime scoperte ed ero lontana dall’episodio personale che sto per raccontare, che non mi ha cambiato nella mia passione, ma solo in prudenza.
Iniziamo…

17 giorni di viaggio, Salvador de Bahia

Sono trascorse tre domeniche, due settimane di viaggio: diciassette giorni – lunghi e lenti come mesi – in cui ho conosciuto gente, luoghi, trasporti, cibo, consuetudini e lingue. Il tempo si è disteso e dilatato, sono cambiata. Ho superato metà percorso: mancano l’ultima città – Rio – e poi Ilha Grande e Paraty.
Dal giorno dell’aggressione gli ingranaggi interni si sono trasformati e incastrati più volte, come a voler trovare il posto più comodo in cui continuare a funzionare dopo essersi trovati fuori dai binari. Una donna sola, bianca, con un cellulare in mano per scattare foto non avrebbe dovuto stare su una spiaggia semi deserta durante un giorno feriale, in un sabato di nuvole nerastre. Ma facciamo ordine.
Minacciava pioggia quella mattina, ancora più di quando arrivai a Salvador de Bahia: un giovedì, dopo essere stata nella Chapada Diamantina. Ogni brasiliano mi aveva ripetuto la stessa frase: «stai attenta, in quella città. Tieni i soldi protetti, via il cellulare e stai solo nel centro – nel Pelourinho – dove ci sono poliziotti e militari». Ero partita dunque guardinga e in tensione. I muscoli pronti, l’energia raccolta nel mio corpo a livello dell’addome – proprio come il bacino di una diga – per liberarla nelle azioni tipiche: scegliere un ostello, visitare, conoscere, stupirsi. Quel sabato mi svegliai presto con in testa la voglia di spingermi su una spiaggia. Arembepe: quella degli hippie e di Janis Joplin; Itacarè, l’isola suggerita dalla cuoca Vanda; oppure la più classica Praia do Forte. L’olandese incontrato nella Chapada mi aveva consigliato Itapuã e il suo faro.
Vanda mi stava parlando, nel suo portoghese lento e calmo, ricordandomi le cuoche materne di alcuni film americani. L’ostello era ricco di personalità: Paolo mi aveva accolto al check in masticando parole in inglese secco, abituato a viaggiatori ben diversi da me. Alberto era più socievole, capello lungo e bianco, asciutto e magro nel corpo. Barbara era un’argentina da villaggio turistico e dai colori di Desigual.
Per Itapuã ci volevano solo 40 minuti di autobus lungo la costa: c’erano un faro e un mercato: il tempo era incerto. Vanda continuava a parlarmi di Itacarè: distante, richiedeva un traghetto e – appunto – il tempo era incerto. Non ascoltavo più mentre sbocconcellavo la mia colazione: ero già là, verso quella destinazione che avrebbe influito poi, anche facendo il possibile per evitarlo, sulla mia fiducia in quella città, ma soprattutto in me stessa.

You are brave!

I giorni precedenti avevo visitato il Pelourinho, pieno di polizia, case colorate tra cui il museo di Amado, negozi di souvenir e la sensazione che il patrimonio dell’Unesco fosse un bel modo per non vederla, quella città. Scesi nella città bassa. Con attenzione percorsi una via in cerca di un contatto avuto mesi prima da una pellegrina tedesca che transitava per Pavia in bicicletta, lungo una specie di sua personale Francigena. Camminando entrai in una viuzza dove intravidi un mercatino di colori, sapori e suoni. Sostai davanti ad alcuni punti di interesse, una piazza, qualche edificio particolare. La mia ricerca non andò a buon fine, ma avevo visto un pezzo della città abitata. In quei due giorni andai anche a Bonfim, a Farol da Barra, al Mercado de Sao Joaquim utilizzando i loro bus urbani e feci il free walking tour: una gita a piedi gratuita per scoprire la parte non turistica di quel Brasile un po’ più pericoloso. Non uscire dal Pelourinho – per me – fu come dirmi di farlo in qualsiasi modo.
Il tizio del free walking tour voleva far conoscere davvero la sua città: ci disse che quando il turista cerca di uscire dal Pelourinho viene spesso ricondotto dentro da poliziotti compiacenti con i negozianti, interessati a vendere. Lo stesso tizio mi galvanizzò non poco con incitamenti vari, sentendomi raccontare quanto fossi stata capace di andare a zonzo: «you are brave! Alone? You are brave!» Il giorno dopo, convinta che il pericolo fosse sopravvalutato, commisi una serie di errori da principiante.

Camminare da sola sulla spiaggia

Arrivata a Itapuã mi lasciai subito coinvolgere dal mercato, prima di raggiungere la spiaggia sovrastata dai nuvoloni della pioggia di stagione. Mi diressi verso le nubi cariche e minacciose, camminando. Il faro stava alle mie spalle, volevo raggiungere un’altra spiaggia sentita in ostello, senza sapere bene dove fosse. Lenta, sola e con un paio di infradito in mano attraverso sabbie, scogli in vista e gruppi di pescatori, continuai a fotografare. Mi riposai sulla sabbia per poco tempo a leggere e a scrivere, poi proseguii nel cammino anche quando la gente, già esigua, non si diradò per sparire del tutto.
Decisi di ritornare, passando attraverso la strada, ma ebbi la sensazione che non ci fosse un’uscita vera e propria. Incontrai una donna che mi disse a gesti che l’uscita era un po’ ovunque: dovevo solo dirigermi in una delle stradine invisibili alla mia sinistra, dalla parte opposta al mare. Sarebbe stata un po’ lunga, ma si riusciva. La ringraziai e proseguii: invece che prenderla più indietro, decisi di sfruttare ancora qualche passo. Non sentii nulla. Nessun segno: i miei sensi, di solito più accesi in viaggio, non mi avvertirono. Non mi feci invisibile, come sempre. Una donna bianca, sola, con un cellulare in mano.
Sentii un colpo sulla schiena, sulle spalle. Come di qualcosa che ti viene addosso, ma senza farti troppo male. Come una svista, uno scontro fortuito. Sentii la donna urlare: si fermò poco distante da me. Sentii afferrare, tirare, spingere e d’istinto opposi resistenza, trattenendo il cellulare tra le mani. Poi caddi sulla sabbia, subito, pensando “non sta succedendo a me”. Il coltello nero, quello per aprire il cocco, il machete insomma: lo vidi uscire e distendersi in alto, mentre io con le mani stavo frugando e inciampando nel marsupio per dargli i soldi. «Dinero, dinero, dinero» mi sembrò di sentire, mentre il coltello era là, inconsapevole. L’uomo si voltò verso la donna dal tono supplicante e le rispose qualcosa. Non sentii e non vidi. Provai sensazioni rapide. Ricordo un cappellino in testa, una camicia, le mani scure. Non era giovane. Si prese quello che avevo e scappò ruzzolando sulla sabbia.

Iolanda

Mi alzai. Fredda e lucida. Scossi via la sabbia e corsi verso la donna. Solo correndo iniziai a sciogliermi e solo davanti a lei iniziai a piangere. Iniziò a piovere. Mi ritrovai fradicia e spaventata con lei che sciorinava litanie in portoghese. Volevo parlare in italiano, mentre lei continua a ripetere “grazie a dio” nella sua lingua. Penso che abbia invocato qualsiasi santo, Iolanda, il mio personale angelo custode. Mi scrutò per capire se avessi ferite, ma c’era solo un lieve filo di sangue sul dito. Piansi così tanto che mi dovetti quasi scusare, non riuscivo proprio a fermarmi. Lei parlava, parlava in continuazione: pensava che senza di lei sarebbe finita ben peggio, mi aiutò a prendere un bus, ché in quel momento avrei voluto solo accasciarmi da qualche parte. Riacquistai energia e andammo insieme in un internet caffè per cercare di bloccare bancomat e cellulare e per riuscire a sentire qualcuno.
Ritornai all’ostello pensando che quell’episodio non avrebbe influito. Sapevo come fare. Sensi di colpa e insicurezze mi avrebbero di certo accompagnato per qualche giorno, fino a Rio e chissà…, ma dovevo accettarlo. Nel pomeriggio uscii subito da sola, andando al Mercato Modelo dove un uomo mi disse di non essere triste. Saltai invece lo spettacolo di Capoeira serale. L’indomani fui guardinga e mi sentii sollevata quando incontrai una coppia francese, già vista qualche tappa prima, con cui trascorrere qualche ora e infine mi regalai un pranzo di lusso. Andai all’aeroporto, il lunedì, con gli autobus urbani, senza paura e passando da Itapuã, guardando dal finestrino il lungo mare con il sole. A Rio cambiai le prospettive: decisi di dormire nel tranquillo quartiere di Ipanema e di lasciar perdere le favelas. Poi quella sensazione di pericolo passò, con calma: è rimasto solo un punticino, un aneddoto con un bel finale, in quel viaggio che fu una meraviglia.

Le prigioni cambogiane

Prima di Rio, tuttavia, accadde anche altro: in ostello, sapendo dell’accaduto, Barbara mi accolse quella sera con una caipirinha e mi presentò Chris, Martin e sua moglie. Un tizio svizzero di cui non ricordo il nome – per tirarmi su di morale – mi disse di essere stato per due anni in prigione in Cambogia. Chris voleva darmi un indirizzo per dormire a Rio, ma ritrattò strappandomi un sorriso quando si accorse che era nelle favelas: «stavolta no, Eleonora» mi disse. Conobbi anche altre giovani donne con cui andai in spiaggia a vedere il tramonto e che un po’ mi redarguirono per la mia imprudenza. Grazie a loro – che viaggiavano molto più di me, che avevano vissuto ovunque conoscendo molte lingue – mi calmai: raccolsi semplicemente le loro storie, come un retino da pesca.

In copertina, foto di Eleonora Viganò

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