La sindrome del parcheggio

Scritto da in data Ottobre 3, 2019

 

L’idea di parlare del cibo e della mia piccola ossessione è nata con l’ennesimo fallimento, durante il mio ultimo pasto nella città portoghese di Porto, nella scelta del piatto. È maturata grazie alle ore dedicate agli assaggi, ai complicati algoritmi mentali per decidere, ai digiuni prolungati perché non sono nella zona giusta della città e ai momenti di ricerca su internet, scrivendo ad amici e supplicando il tizio dell’ostello. Dove vanno a mangiare i portoghesi?

La prima volta in Portogallo

Un piccolo weekend di quattro giorni, di cui due pieni e due per metà: non è un viaggio, ovviamente, ma una piccola vacanza. Quando sono arrivata a Porto, la mia prima volta in Portogallo, sono andata subito per le vie a caso, seguendo un’idea, un intuito, qualche cartello.
Porto è facile, indubbiamente, ma non se non si sa cosa si cerca. Ciò che potrei dire di Porto riguarda il vino, il turismo di massa, la fugacità e la cucina. Sono tutti elementi legati tra di loro e loro con me o attraverso di me: alle mie incapacità o capacità. Sono legati anche agli altri, ovviamente: pellegrini, turisti, locandieri, guide, autisti di bus, camerieri, studenti.
Ma vorrei iniziare dal mio compleanno: esattamente 3 mesi prima di partire per 4 giorni, la mia responsabile ha preparato alcune buste numerate. In ciascuna busta ho trovato un indizio: una foto e una frase: Pessoa, Saramago, Tabucchi. Ho un ricordo nitido della caccia al tesoro organizzata da mio padre, per il mio compleanno: non so quanti anni avessi, ma so che c’erano dei bigliettini scritti a penna, un tesoro fatto di dolciumi e i miei compagni di classe delle elementari. C’era anche mia sorella, che per errore ha aperto la cassetta delle lettere, così a caso, trovando il tesoro prima del tempo. Non ha rovinato niente, niente di quel ricordo. Laura lo sapeva, così come sa che amo andarmene in giro da sola e che quest’anno non era stato possibile, così come sapeva che amo Saramago e che il Portogallo mancava: ma sopratutto sapeva quanto fosse piaciuto a lei.
Dopo tre mesi, quindi, a due settimane dall’inizio del nuovo corso lavorativo – che si sa, settembre è sempre ricco di buoni propositi – ho preso un volo e sono andata là, senza essermi informata su quasi niente: mi era stato di andare alla libreria Lello, fare un giro nelle cantine, forse qualcuno mi ha anche consigliato un posto per mangiare – che devo aver scordato – un’altra persona mi ha detto di salutarle un suo amico, Paulo, che ha un ristorante in centro. La guida, per scrupolo, l’ho acquistata in aeroporto a Porto: un’edizione sconosciuta, ovviamente in inglese, e dalla quale ho cavato poco, forse abituata alla Lonely Planet. Il mio vicino in aereo aveva dimenticato la sua guida tra i nostri due sedili: l’ho restituita. Un uomo che sembrava portoghese – non dall’aspetto, ma dai modi sicuri e veloci con cui è uscito dall’aeroporto – avrebbe potuto darmi qualche consiglio, se gli avessi rivolto la parola. Sapendo bene di non poter replicare i miei viaggi in un periodo ristretto di quattro giorni, ho evitato contatti: senza sforzo, non ne avrei avuto l’occasione. Non sono arrivati, ecco.
Porto mi ha avvolto, facendomi soffocare leggermente per i tanti, forse troppi turisti: lo so, che turista lo sono anch’io. Ho preso una cartina sponsorizzata dal Corte Inglés, che mi ricorda tanto il mio Erasmus a Madrid, di quelle con i disegni stilizzati delle cose da vedere e le strade tracciate male che alla fine devo usare google maps. Ho preso la cartina, la mia guida brutta appena acquistata e il primo pomeriggio sono andata a caso, guidata dal naso, dall’ispirazione e dalla voglia di scoprire. Imbocco una strada: la seguo e poi gira, e poi più in là e poi dove arriva? Ancora un passo: non tornare indietro, non si sa mai. Poi ci sono gli svincoli, gli incroci, le scelte: la prima a destra? Per poi tornare indietro e prendere la prima a sinistra.

Santa Caterina

Il primo pomeriggio, dopo aver mangiato una quiche e bevuto una coca cola in un baretto un po’ lezioso, che non ho mai più rivisto anche se sono certa che fosse in Rua das Flores, sono andata in rua santa Caterina. Non ricordo perché abbia iniziato da lì, non volevo vedere quella via. Forse il mercato? Forse la chiesa, la Cappella delle Anime? Un gruppo di studentesse universitarie vestite benissimo – con giacca, gonna, camicia bianca e cravatta – suonava e cantava, una sbandieratrice completava il momento prendendosi tutta l’ampiezza della via mentre noi, spettatori concentrati chi a filmare chi a scattare foto, chi a gettare monetine nel cappello, chi ad ascoltare le parole, indietreggiavamo.
Ho assaggiato un pastel de nata, intuendo che fosse tipico: ogni cosa era quasi urlata. Impossibile non capire che la francesinha, il baccalà, la trippa alla moda di Porto fossero tipiche. Al massimo poteva essere complesso capire dove mangiare. Una delle assurdità del turismo di massa – di cui, ripeto, so di far parte a modo mio – è il proliferare di luoghi di “descanso”: dal bar al ristorante, dalla pasticceria al bistrot, spesso di scarsa qualità, per turisti, appunto, e la maggior parte in luoghi con una vista meravigliosa, in centro, davanti al fiume. Alla fine, ci si deve fidare, si deve cedere e capitolare. La mia guida cartacea potrebbe essere stata anche onesta: non lo saprò mai poiché sono io a non essere mai capitata davanti ai locali segnalati nell’ora giusta. Il cibo è stata la mia piccola fissazione per quattro giorni.

L’ossessione

Due giorni interi, due mezze giornate. Vediamo… dieci pasti, in tutto, comprese le colazioni: quelle erano incluse nelle 70 euro per 3 notti pagate all’ostello, in centro, ma non troppo, in una via poco frequentata dai turisti perché del tutto inutile andarci, se non si aveva un letto da quelle parti. Intorno a quella via – ma l’ho scoperto l’ultima sera – c’erano locali piccoli e quadrati, uno accanto all’altro, con pochi coperti, che servivano cibo locale. C’erano ristorantini etnici, forse un cinese e un italiano, hamburger, posti in franchising, locali per bere. Erano spesso pieni di ragazzi, anche adolescenti o poco più grandi. Quando sono arrivata la mia via non mi piaceva: mi piaceva solo la piazzetta con il kebab e con la pasticceria; poi, di sera, si sono accese le luci di un negozio di elettronica con la sua vetrina composta di lampadine, un pittore dipingeva con la porta socchiusa e una birra in mano, qualche avventore solitario beveva vino in un locale ad angolo.

La sindrome del parcheggio

I pasti sono stati il mio cruccio, dicevo, proprio per una mancanza di direzione, di focus, di punto centrale. Una sorta di sindrome del parcheggio: se ne hai tanti liberi, non sai quale scegliere. I ristoranti si susseguivano uno accanto all’altro, magari in chiazze non omogenee: Ribeira, Vila Nova de Gaia, la via commerciale, quella nella quale continuamente mi imbattevo anche senza volerlo, rua das Flores. E poi le viuzze universitarie, quelle dei locali per bere, l’Hard Rock Cafè, immancabile. In piazza, quella con la scritta Porto davanti al Municipio, in basso in basso, in fondo: lì c’erano i ristoranti per un target di età superiore, per turisti in pensione, per gruppi, per quello con le braghette e i sandali con i calzini bianchi, per le donne in tailleur con l’ombrello in mano e un microfono alla bocca. Evitavo, scansavo, non riuscivo a decidermi: per alcuni pasti saranno passate anche ore. Per due volte sono andata nello stesso posto standardizzato in rue das Flores, vicino alla stazione più bella di Europa, dicono. Ho ordinato un antipasto ai formaggi e un bicchiere di Porto, la prima sera. Una francesinha la seconda. Sapevo cosa ordinare, più o meno, ma non sapevo dove.

La francesinha e le sarde

La francesinha – per quanto ne possa sapere io, che la mangiavo per la prima volta senza nemmeno sapere bene gli ingredienti – mi sembrava buona: ma lo era davvero? Era fatta come si deve? Questo sandwich in cui tra due fette di pane c’è più o meno di tutto, era come doveva essere? Con prosciutto, linguica (una salsiccia locale) e bistecca (quella l’ho vista!)? Il formaggio fuso c’era, anche fin troppo, e nuotava in una salsa buonissima che poteva essere pomodoro e birra: sì, poteva. Quante versioni ci sono? La mia aveva un uovo sopra: un uovo all’occhio di bue. Ho provato anche le sarde sull’Oceano, in quei ristorantini tutti uguali di Matosinosh: tutti uguali ma sani, sanguigni, con fumi di pesce che salivano dalle griglie, con sarde e salmone e spada. C’era una gara podistica, c’erano portoghesi, c’erano turisti spagnoli e qualche italiano. Quando sono arrivata, a Matosinosh – decidendo a caso di arrivare al capolinea, mentre l’idea iniziale era solo di vedere il faro – non c’era nessuno in giro, solo gabbiani e pochi bagnanti sulla lunga spiaggia dove è vietato fare il bagno. Sono arrivati dopo: le folle, i bambini, i cani, i surfisti. Anche lì ho girato un’ora – sia perché era presto sia per indecisione – per capire dove fosse meglio pranzare. Ho controllato siti, recensioni, pareri di persone sconosciute e qualsiasi, che potevano avere palati sopraffini o abituati ai fast food, persone schizzinose o alla buona, incantati più dal luogo che dalla qualità del pesce. Alla fine ho scelto, mischiando i vari parametri, utilizzando un algoritmo mentale complesso e ostinato. Ho pranzato quasi tardi, alla fine, per poi tornare a piedi a Porto, fermandomi al faro dove l’Oceano incontra il fiume – o viceversa.

Ultima cena ultimo pranzo

L’ultima sera l’ho sbagliata, prendendo un piatto spento, banale, quasi insignificante: il baccalà alla bràs. Il cameriere mi aveva detto di prenderne un altro, di baccalà, ma non gli avevo dato retta. Di sicuro quello scelto era cucinato male, in una via che prometteva bene.
L’ultimo pranzo non ne parliamo: da qui l’idea di scriverne. Il nodo dei pranzi, dal punto di vista logistico, era riuscire a incastrare la priorità di gironzolare senza troppi vincoli e capitare all’ora giusta proprio davanti a quel posticino consigliato per un’ottima cucina tradizionale. Il nodo delle cene era non andare troppo in là poiché, dopo aver macinato 20, 25, anche 30 chilometri in un giorno, la stanchezza era troppa. Le mie ricerche per un posto veritiero in cui mangiare sono sconfinate anche nei blog di viaggio, che consulto raramente: dopo la guida, i consigli dell’ostello, la telefonata a casa, era arrivato quel momento, il blog. I posti suggeriti erano tutti dal lato opposto, qualsiasi fosse la mia posizione, erano sempre troppo lontani. Uno in particolare era addirittura a Vila Nova de Gaia: ed ero lì, a degustare il Porto in una delle tante cantine, lunedì mattina. Per evitare i turisti ho scelto l’ultima cantina, in fondo alla via, per poi scoprire che è l’unica ancora portoghese e l’unica fondata da una donna, che per l’epoca era una cosa grossa, ecco. Distante dalla cantina, verso mezzogiorno, vedo il ristorante selezionato come casalingo, alla vecchia maniera, frequentato da portoghesi. Ed è così! Ha uno stile personale, unico, soffitto basso, tavoli disposti a tetris, una locanda portuale, di passaggio, di lavoratori. Le pareti sono bianchissime, i modi informali: quasi grezzi. Mi lascio consigliare da loro, come dicono sul blog. Mi suggeriscono il piatto del giorno, il menù tutto incluso. Dico di sì. Accanto a me un portoghese abituale, da come gli parlano. Magari lavora lì.
Mi arriva un risotto ai frutti di mare. Dentro c’è il surimi. Il riso ha i chicchi staccati, è brodoso, c’è del pomodoro. Mangio, zitta. La zuppa di verdure era buona e pure le crocchette di baccalà sembravano decenti. Sembravano. Forse mollicce? Non voglio fare cattiva pubblicità a nessuno: questo posto non so dove sia né come si chiami. Non voglio lasciare recensioni, né criticare chi si dà da fare ogni santo giorno. Io, in compenso, non ho proprio saputo chiedere, assaporare, conoscere, indagare. Troppa scelta, troppa confusione, troppo turismo: il turismo con i suoi spaghetti alla bolognese, le fettuccine Alfredo, i maccheroni al sugo e la pizza ai peperoni. Magari davanti al Duomo come al fiume.

In copertina, foto di Eleonora Viganò

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