Prima dell’azzurra Zfat

Scritto da in data Agosto 22, 2019

“Zfat è da tutt’altra parte”. Così mi era stato detto dall’avvocato e dall’insegnante di inglese incontrati a 8 km di distanza dal Monte Tabor. Lo avevo visto anch’io, sulla cartina: a nord della Galilea, più in alto rispetto alla tappa successiva, Tiberiade, e distante circa 60 km da Nazareth.

Una fermata senza senso, slegata dal contesto del cammino. Quel giorno mi ero prefissata di fare tutto: sarei dovuta arrivare sul Monte Tabor, per orgoglio e testardaggine a piedi entro pranzo, sarei poi scesa per prendere un bus per la città azzurra, ma le cose non sono andate del tutto così.

A cura di Eleonora Viganò per Radio Bullets

A piedi verso il Tabor

Arrendersi dopo una sola tappa mi sembrava prematuro, un po’ triste e poco furbo: anche se ero felice di voler convertire il cammino – in Israele e Palestina – in un viaggio improvvisato per questi territori, mi sentivo in dovere di darmi un’altra possibilità, che non si è fatta attendere: il 26 dicembre sono partita spedita per il Monte Tabor. Sebbene lo avessi già visto in auto il giorno prima, accompagnata dalla donna tedesca e dal suo compagno arabo con il quale gestiva l’ostello dove stavo, avevo quel piglio un po’ ostinato di volerci arrivare sopra a piedi.

A volte questi lati intransigenti sono capaci di nascondere alla vista le infinite possibilità che si presentano sul cammino: avrei potuto modificare il tragitto, ostacolato da un Monte o anche lasciar perdere e sfruttare un’altra tappa per riprovare. Il percorso avrebbe dovuto toccare, dopo Akko, Iblin e Nazareth, anche il monte Tabor, Tiberiade con le sue chiese poco fuori dal paese, Beit She’an e poi una lunga camminata lungo il confine con i territori palestinesi con due tappe prima di arrivare a Gerico. Da qui, attraverso il Wadi Qelt, si arriva a Gerusalemme. Quest’ultimo tratto, nel Wadi, era la mia vera preoccupazione per la paura di potermi perdere in quello che in fondo ha tutta l’aria di non avere molti punti di riferimento. Si tratta di una sorta di canalone, di valle color ocra, terra e rossiccio. Ricorda un deserto.

Quella mattina, dicevo, sono partita molto presto con un pallido sole – per arrivare – per pura curiosità – fino al Monte del Precipizio, dove è stato portato Gesù, come si racconta, per essere ucciso.

Da lì, per non tornare indietro, ho preso alcune strade che alla fine mi hanno condotto di nuovo a Nazareth. Incredula, dopo aver camminato ore, ho iniziato a salire verso Nazareth Illit, la zona ebraica di Nazareth (che è invece a maggioranza araba), affrontando una serie di salite su strade trafficate. Le endorfine hanno fatto un ottimo lavoro, facendomi sentire bene. Sono entrata in una specie di bar-negozio per un caffè: un anziano attaccato al narghilè mi ha fatto accomodare sulla sua sedia accanto a una stufetta. Ha versato il caffè per me, per sé continuando a fumare incessantemente, mentre io osservavo il fumo bianco uscire ampio e denso dal naso. Stavo per pagare quando lui mi ha fermato e a gesti mi ha detto: “no, offro io”. Ho proseguito ancora fino a quando, a otto km dal Monte Tabor, non mi è scaricato il cellulare e tutte le batterie di scorta. Avevo memorizzato buona parte del tragitto, sapendo che è condiviso con il trail nazionale.

Un passaggio in auto

Sono entrata in un locale per chiedere informazioni e – come sempre – ho trovato la solita accoglienza fatta di caffè e di: “siediti qui: con calma, non c’è fretta. Dimmi: dove vuoi andare? Hai fame?”.  I due ragazzi in cassa facevano fatica a capire l’inglese. Per riuscire a spiegarmi meglio la strada si erano rivolti a un loro cliente: un arabo che aveva studiato giurisprudenza a Modena. Abbiamo iniziato a parlare in italiano: ha 4 figli, vive nel paesino poco sotto. Mi ha ripetuto che no, non era possibile fare quella strada a piedi. Ma come? Mancano solo 8 km! Cosa ci sarà mai di impossibile in 8 km? Poco dopo è arrivato un suo amico, un insegnante dall’inglese impeccabile. Stessa scena: troppo fangoso, troppo difficile senza mappa, nessuno a cui chiedere: “ti portiamo noi! Non fino in cima: nel paese alle pendici a Daburiyya, così cammini”. Ho tentennato un po’, ma non avevo scelta. Senza navigatore non sapevo dove andare e insieme alla tedesca erano altri due che mi stavano parlando di fango. La sera poi avrei dovuto ridiscendere per prendere un bus per Zfat.

“Zfat? Ma è da tutt’altra parte!”, mi ha risposto l’avvocato.

“Lo so, ma avevo previsto di arrivare sul Monte Tabor per pranzo e di prendere un bus verso sera”.

Nel mio tentativo di improvvisare, avevo prenotato – vista l’alta stagione – un letto in un luogo consigliato da un amico a distanza e completamente estraneo al cammino, da dove poi avrei potuto proseguire viaggiando. Gli orologi osservati a lungo e il mio cellulare appeso penzoloni a una presa elettrica, mentre cercavo di capire qualcosa su una mappa, mi stavano comunicando che il mio piano non avrebbe funzionato. I due uomini continuavano a insistere e dicendomi che non avrebbero avuto cuore di lasciarmi andare da sola. Mi sono quindi convinta ad andare in auto con loro fino a Daburiyya. Lungo la strada qualcosa è cambiato. Non riuscivo più a fidarmi: avevano preso una direzione opposta alla mia precedente e imboccato un viale sterrato e isolato verso un belvedere.  Anche il navigatore mi diceva che stavamo andando nella direzione opposta. Avevano chiuso le sicure. A quel gesto sono letteralmente impazzita e ho chiesto, quasi urlando, di farmi scendere. Loro hanno temporeggiato per un po’ fino a quando finalmente non hanno aperto le portiere. “Che faccio qui? Niente”. Mi sono dovuta fidare, ancora: mi hanno portato alla fermata più vicina per prendere un bus per Zfat. L’avvocato mi aveva detto di aver compreso il mio momento di crisi; l’insegnante di inglese invece si era offeso. Sono certa che fossero brave persone: hanno seguito alla lettera i miei ordini improvvisati del momento. Io in quell’istante e per la seconda volta in due giorni mi ero resa conto di quanto fosse labile il confine della fiducia e di quanto possa farci perdere o guadagnare: nel tempo sono diventata più attenta ma anche più istintiva e a volte so che rinuncio a qualcosa solo per paura (legittima).

Verso Zfat

Ho aspettato per ore il bus per Zfat, in ritardo a causa di un incidente, chiacchierando con una donna alla fermata. Il giorno se ne era andato così, in attesa. Quella sera sono arrivata a Zfat al buio e con la pioggia, il taxi non trovava il mio alloggio, un po’ isolato. Per il freddo, la proprietaria dell’ostello mi aveva prestato un pile azzurro molto chiaro del marito, con bruciature di sigaretta qui e là e la chiusura da uomo, così da riuscire ad andare in centro a comprarmi un piumino. “C’è un bus”, mi aveva detto, dopo avermi raccontato del suo amore per la Toscana e dopo aver fatto due chiacchiere con la coppia di ciclisti (medici) inglesi con cui dividevo la stanza. Ho preferito andare a piedi, per 4 km, con la mia luce frontale. Un tassista mi voleva offrire una corsa gratis perché “you are beautiful”, tu sei una principessa (con un cappello nero con pon pon e un kway rosa shocking sopra al pile azzurro puffo) ma ho rifiutato. Ho comprato un piumino per 60 shekel (15 euro, più o meno, all’epoca) e a pioggia finita ho girato per la via principale trai negozi e qualche festeggiamento per Chanukah. Un bambino mi ha chiesto se volessi una specie di frittella. Ho trovato un posto per cenare bene e comodamente: ero l’unica turista e mi sono sentita felice per quella giornata.

Il giorno dopo sono riuscita visitare quel luogo più in profondità, vagando per le strade interne alla ricerca di sinagoghe e artisti, osservando l’ortodossia nell’abbigliamento di chi incontravo. Nella memoria Zfat per me è azzurra: come il maglione prestato, come le cancellate dipinte o alcuni tetti, come il cielo denso di pioggia chiara e di nebbia. Le mura erano color sabbia, anch’esse chiare. Dicono che d’estate la città dai mille nomi – Zefat, Zfat, Safed, Safes, Safet – sia più luminosa. Io ho il ricordo di una felicità semplice.

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