Incontri
Scritto da Eleonora Viganò in data Settembre 26, 2019
Gli incontri sono la parte fondamentale del viaggio: più di ciò che vedo e che spesso dimentico. È difficile, invece, dimenticare una persona, un nome, un momento preciso, un aiuto del tutto incondizionato: magari non tutte le parole, ma quelle fondamentali si ricordano o, a volte, per non perderle, si scrivono. Edoardo, Judith, la donna con Guinness al guinzaglio, Tito, Fermi che è l’amico di un amico: ciascuno mi ha donato un pezzo di sé. Chi mi ha indicato la strada, chi mi ha spiegato piccole cose della religione ebraica che mi affascina, chi mi ha fatto le sopracciglia parlandomi della sua bambina, chi fotografa ma fa altro, chi mi mostra la piscina dove i suoi genitori si sono conosciuti e innamorati. In sottofondo il sapore del burek o dell’hummus, il mare grosso di Tel Aviv e i tramonti di Haifa, gli odori di formaggio e cipolla del mercato, un robivecchi, Giaffa e il ritorno.
Per ultimo
Per ultimo, Tel Aviv.
Dopo Akko, Nazareth, Monte Tabor, Safed, Tiberiade, Bet Shean, Gerico, Gerusalemme, Masada, Hebron, Haifa, Cesarea, sono arrivata a Tel Aviv, alla fine del mio viaggio che avrebbe dovuto essere un cammino – tagliando molte delle tappe elencate – e che invece è stato un improvvisare continuo, una strada tracciata facendola. Tito, il mio compagno da Gerico a Gerusalemme a piedi, era riuscito. Era riuscito a percorrere a piedi ogni tappa del cammino: eravamo sullo stesso aereo, il 22 dicembre 2016. A settembre lui aveva già iniziato a preparare ogni cosa: a studiare trail, unirli, smembrarli e rimontarli, ha letto più guide, ha costruito da casa una traccia. Si era scaricato l’applicazione giusta per non perdersi e il suo cellulare non si era guastato nell’acqua. Aveva iniziato a camminare un giorno prima, rispetto a me, il 23 dicembre: sacrificando in parte Akko – io l’ho rivista più volte attorniata da guide improvvisate differenti – era riuscito ad arrivare a Iblin e a dormire dove io avevo trovato una porta chiusa per le festività natalizie. Tito era partito per Nazareth nel giorno giusta e all’ora giusta e aveva continuato per Tiberiade prima di salire sul Monte Tabor. Ha avuto in regalo: fango, una spalla dolorante, una caduta, un po’ di ansia e un pizzico di nervosismo. Ha preso qualche autobus, rinunciando alla perfezione. Davanti a lui ho ripetuto a voce alta i miei impedimenti: la pioggia, le date sbagliate, nessuna prenotazione e nessun percorso studiato e meditato, nessuna App e nessun cellulare, a un certo punto. Le mie paure, soprattutto, più forti di quelle di Tito, inconsapevolezza, errori, noncuranza e approssimazione. Avevo “fallito”, se così si può dire, ma ne ero felice: un po’ come quando sul Kilimanjaro, l’anno successivo, sono scesa a una sola tappa dalla vetta. Stavo male, avevo fatto il possibile: ero euforica per il dono ricevuto fino a lì e bastava così.
Tito
Grazie a Tito, il 31 dicembre ho chiuso uno degli anni più intensi della mia vita con 30 chilometri e 1.000 metri di dislivello nelle gambe, sporca e sudata: abbiamo guadato piccoli fiumi, siamo saliti su rocce che creavano scale e su scale vere e proprie, di metallo sottile, siamo stati avvolti dal silenzio e da una temperatura perfetta – non troppo calda, come a Masada, non fredda come a Safed. Siamo arrivati a Betania e ci siamo fermati alla tomba di Lazzaro. Non ho più rivisto Tito, metodico e preciso, da quella volta.
Tzedakah
Ho conosciuto Edoardo, che mi aveva accolto a Tel Aviv comprandomi una sim e augurandomi buon viaggio, e che il 31 ha dato quasi il cambio a Tito: ricordo le sue spiegazioni e le mie domande. Mi aveva consigliato lui Safed. Ho una foto di un Kuppat Tzedakah, che ovviamente io non so pronunciare. Lui mi ha spiegato – io lo avevo fotografato inconsapevolmente – che lì si mettono le monete per la carità. Tzedakah in ebraico significa giustizia: dando qualcosa si contribuisce a riequilibrare la giustizia nel mondo, dando una nuova speranza a chi è meno fortunato. È un obbligo per un ebreo, ricco o povero che sia. I questuanti, in yiddish shnorrel, sono figure importanti poiché permettono al fedele di adempiere all’obbligo richiesto. Edoardo mi ha spiegato che gli tzitzìt, frange bianche attaccate ai vestiti, servono per ricordarsi del peccato e delle tentazioni. Mentre alcuni ebrei ortodossi portano come dei boccoli, seguendo il precetto che dice di non radersi ai lati del capo.
Ho conosciuto guide, tassisti, beduini, ho preso arance, indicazioni, caffè, passaggi in auto da ragazzini che lavoravano in polizia, ho incontrato turiste evangeliche e italiane, palestinesi, arabi israeliani, ebrei italiani e israeliani, ho avuto in prestito un pile azzurro bucato dal mozzicone di sigaretta per ripararmi dal freddo, ho pranzato con quattro uomini arabi in una sorta di maneggio, ho augurato buon Natale a preti e suore, ho conosciuto una turista tedesca innamorata e un’estetista che mi ha fatto le sopracciglia con il filo di cotone, come avevo già visto altrove, ho incontrato un amico di un amico conosciuto su Facebook che mi ha fatto camminare per chilometri spiegandomi tutta Tel Aviv.
L’amica di un premio Nobel
Ho conosciuto anche una donna. L’ultimo shabbat in Israele, ho declinato l’invito di Edoardo, per trascorrere con loro la giornata a Netanya: ancora me ne dispiaccio dopo anni. Per aggirare l’ansia dovuta alla stasi di shabbat, ho preso uno sherut taxi – una sorta di taxi condiviso, un mini van – per 45 shekel. Accanto a me era seduta una donna che indossava un cappello rigido, blu e con la tesa circolare. Le unghie erano smaltate come se fossero quadri e al dito portava un anello con una pietra racchiusa in un intreccio di fili di un qualche metallo. Il rossetto segnava la screpolatura delle labbra, la sua età si può dire, eppure era impeccabile. Le guance erano tirate, gli zigomi evidenti. Gli occhi avevano pochissimo trucco: un’ombra color terra. Mi ha chiesto da dove venissi per poi formulare qualche frase in italiano: non sono i soliti «buongiorno, come stai?» un po’ urlati, ma frasi ponderate e ben costruite, seppur semplici. Mi ha detto di aver studiato in Italia e che la sua insegnante era di Milano.
Mi ha parlato di gallerie d’arte e di alcuni amici: Ada E. Yonath – Nobel per i ribosomi –, qualche ambasciatore e le due parole che ha scambiato con Riccardo Muti. Io ero muta, zitta e immobile: la ascoltavo senza quasi respirare mentre mi raccontava di luoghi da vedere, dell’ispirazione provata nel deserto così come a Milano, per il suo lavoro di stilista, mi ha parlato di una mostra fotografica di un amico e mi ha passato il suo biglietto da visita.
Stringendolo tra le mani, ho abbassato lo sguardo e ho letto: Judith Ulman. L’ho riposto accanto a quello di un tizio francese di Parigi – anche lui di una certa età – che viaggiava scambiando la casa con altri viaggiatori. Una mattina, durante la colazione, mi aveva riempito di domande sulla transiberiana.
La variegata Tel Aviv
Quando sono scesa dallo sherut, una giovane donna con Guinness – un adorabile cane con gli occhi di due colori diversi – alla quale ho chiesto la strada per l’ostello mi ha detto di seguirla: abitava vicino a Giaffa, poi dal confine con il quartiere Florentin mi ha spiegato dove andare. Aveva appena terminato gli studi in fotografia, veniva dalla Russia e da dieci anni viveva a Tel Aviv. Si manteneva con un altro lavoro poiché non voleva fotografare matrimoni: voleva viaggiare e studiare ancora. Dal quartiere Florentin ho salutato lei e Guinness senza provare nostalgia.
Quella sera in ostello, sotto di me dormiva un’italiana incontrata a Masada, ma prima ancora ho incontrato l’amico dell’amico: lui sarebbe stato la mia guida per Tel Aviv, percorsa a piedi di notte e di giorno vedendo quartieri artistici, grattacieli, luoghi della storia e di Israele, un museo, la piscina dove i genitori di quel ragazzo si erano conosciuti molti anni prima.
L’ultimo giorno ho mangiato un burek al formaggio in quel negozietto di Giaffa dove avevo visto appesi ritagli di giornale celebrativi, articoli accompagnati dalle foto delle specialità, ho girato per Carmel market con un vento che faceva scherzi e giocava con gli odori: formaggio passando accanto al pane, spezie davanti ai fiori e un momento pungente di cipolla percepito davanti alla bancarella di dolci arabi appiccicosi e dorati. Mi sono spostata poi verso il quartiere ricco con i vivaci colori dei muri e le vetrine eccentriche per poi farmi coccolare dall’estetista. Sono tornata nella città vecchia per un altro mercato differente con robivecchi, mobili, monili portafortuna. Il mare l’ho lasciato per ultimo: potente, grosso e violento. Non pioveva: solo onde poco più alte delle rocce, che erano arrivate a me in schizzi. Ho chiuso così il viaggio, strampalato e improvvisato: con salsedine e lentezza e con la voglia di ritornare.
In copertina, foto di Eleonora Viganò
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