Da Masada fino a Hebron

Scritto da in data Settembre 19, 2019

Non sapevo che sarei andata ad Haifa: non pensavo nemmeno di toccare tutti i luoghi in cui sono stata nel mio strampalato giro per Israele e Palestina. Alcuni erano previsti, altri nemmeno conosciuti prima di arrivarci, altri ancora erano solo ipotesi. Avevo pianificato, per il martedì, una visita a Herodion e poi a Betlemme nel pomeriggio: avevo ricontrollato un po’ di volte gli orari, non appena un vicino di letto dell’ostello mi prestava un computer, visto che non avevo un cellulare funzionante. Finalmente avevo deciso: alle nove sarei andata a Herodion.

Alle otto ero già alla fermata pronta a chiedere informazioni, per sicurezza: e infatti quel bus non esisteva. Il primo era alle 11:20. L’idea di attendere non mi aveva sfiorato nemmeno ma avevo semplicemente cambiato piano, decidendo di andare a Masada e – se ci fosse stato tempo – sarei andata anche a Ein Gedi per vedere il Mar Morto. Avevo un sacchetto con dentro la guida e poco altro, mi sono fermata a comprare uno zainetto per 80 shekel, due arance e il biglietto del bus per Masada. Non avevo con me tutto ciò che avrei voluto portare, ma va bene così.

L’attualità nasce dalla storia

Sul bus ho incontrato una coppia di italiani, in Israele per trascorrere le feste con i figli, che lavoravano e studiavano a Gerusalemme: avevano ricevuto in regalo una giornata al centro benessere di Ein Gedi (En Bokek). A Hebron, il giorno seguente, ho incontrato altre due italiane, due donne della mia età in viaggio per le città della Palestina. Mi avevano chiesto se fossi archeologa visto che ho visitato molti siti di rilevanza storica.
Ho trascorso con queste due donne, Anna e Roberta, qualche ora, impiegando il tempo a scegliere una kefiah e altre robe simili in un bazar-associazione che aiuta le donne palestinesi – uno simile l’avevo visto a Betlemme dove avevo comprato i loro saponi. Ho ascoltato le loro storie: Anna era laureata in scienze ambientali ma insegnava inglese, Roberta aveva fatto giurisprudenza e la specialistica in relazioni internazionali. Non so di cosa si occupasse allora, ma so che era stata un anno in Zambia come cooperante.
Anna mi ha guardato, quando le ho detto che la storia mi affascina – vederla e quasi toccarla anche se so ben poco – e, con il viso senza espressioni, mi ha risposto: «a me affascina l’attualità».
Alle tre, esasperata dall’attesa nel negozio, le ho salutate per visitare la moschea di Abramo, per poi incontrarle di nuovo nella sinagoga. Roberta ha iniziato a irrigidirsi: «mi sento poco a mio agio qui. Siamo in una chiesa e ci sono i militari. Io… queste cose. Pensa non siamo andate nemmeno alla Natività a Betlemme. La moschea merita? Sennò non ci andiamo…».
Le ho guardate in silenzio, evitando di specificare che era una sinagoga, non una chiesa, e che ci voleva un po’ di rispetto in generale: perché forse non si dovrebbe predicare la tolleranza – parola che non amo, non si tratta di tollerare ma non trovo quella giusta – o uguaglianza o robe simili e poi avere il prurito per ciò che non si conosce, non si capisce o semplicemente non si professa – se non lede l’altrui libertà – e che viaggiando non si dovrebbe cercare solo ciò che conferma e sancisce le nostre teorie, quelle di partenza.
«Non siete state nemmeno al Santo Sepolcro, immagino…».
«No, figurati. E vogliamo andare alla spianata delle moschee quando c’è la preghiera, per entrare…».
«Non si può entrare: solo musulmani. A qualsiasi ora. Ci sono stata alle 7:30 e non si entra».
«Comunque, secondo me, se vuoi capire o anche solo annusare l’attualità non credo che si possa evitare la storia. Questi sono luoghi carichi di storia e da questa dipende l’oggi. Mi sembra anche una banalità, da dire… Vedere cose semplici può essere molto potente. Vedere che il Santo Sepolcro è una chiesa con dentro tante chiese: ortodossa, siriana, cattolica, armena… ti lascia quasi ubriaca. Il fatto che a Hebron ci sia una moschea con i cenotafi di Sara, Abramo, Isacco e Giacobbe e che la sinagoga accanto abbia gli stessi identici cenotafi è qualcosa di inconcepibile. Sapere che moschee sono state costruite su chiese, costruite su moschee e cosi via ti apre al tutto che trovi a Gerusalemme. Ti apre a quanto questa terra appartenga a così tanti da diventare così piena, densa…».
Mi sono fermata, per lasciare sedimentare il mio entusiasmo.
Qualcuno mi aveva detto che tutto e niente qui coincidono.
Ci sto ancora riflettendo, visto che per me il niente è una questione di spazi aperti, come a Olkhon in Siberia, a Devarkulam in India o nei Lencois in Brasile. Gerusalemme invece ti smuove come possono smuoverti «three countries in one land» – come mi ha detto il tassista riferendosi a Israele, Palestina e Gaza – o tre religioni monoteiste che condividono brandelli per poi separarsi.
Alla fine, ci siamo salutate: io sono tornata a Gerusalemme da sola, lasciandole mentre mi dicevano che forse a vedere qualcosa ci sarebbero anche andate, prima di dirigersi a Eilat.

Il Mar Morto

Ritorno alla coppia sul bus per Masada: loro hanno avuto un atteggiamento molto accudente. Lui era cosi desideroso di mostrarmi la sua conoscenza di Israele che mi ha detto: «ci vogliono tre ore per salire, hai abbastanza acqua? Ci sono stato quarant’anni fa… almeno un litro per ogni ora di cammino…». E poi: «preparati che devi scendere». Per salire in cima a piedi ci vogliono 40/45 minuti. A pensarci oggi mi fa quasi tenerezza: in fondo, voleva solo essere d’aiuto.
Alla fine, quel giorno ero stata nel posto migliore: il Mar Morto dall’alto, le rovine del palazzo di Erode, la camminata per arrivare in cima, il deserto, il paesaggio a perdita d’occhio. C’era tutto. Poi, non contenta, ho improvvisato, andando verso En Bokek, solo fare il bagno per cinque minuti prima che tramontasse il sole.
Una volta scesa dal bus, mi sono fatta portare sulla spiaggia da una ragazza, entrando, vestita male e sudata, da un lussuosissimo Crowne Plaza. Sono rimasta in mutande e maglietta e mi sono immersa, galleggiando e ridendo. Due bambini lì accanto, ridevano e guardandomi dicevano: «It’s amazing!».
Poi, ecco, non avevo niente: né asciugamano né ricambio. Niente. Ho messo un maglioncino al posto della maglietta – e niente intimo, impossibile tenerlo addosso così bagnato –, mi sono asciugata come potevo dopo aver usufruito della doccia dell’hotel. Ovviamente il sale bruciava un po’ e il rientro non è stato esattamente dei più confortevoli. Non avevo nemmeno pranzato: mi ero fatta bastare le due arance.

Tempo di Shabbat

Al rientro, la coppia era ancora sul mio stesso bus – sempre quel giorno avevo ritrovato per ben due volte la tedesca evangelica di Cafarnao. Il giorno dopo ero andata a Betlemme e quindi a Hebron, quasi come conseguenza. Al ritorno ho scoperto che quel giorno c’era stato uno sciopero dei bus Egged: la compagnia con cui sarei dovuta andare a Masada; non posso che ringrazia quel bus inesistente per Herodion, altrimenti mi sarei persa Masada.
Dopo Gerusalemme, Masada, Betlemme ed Hebron, ho deciso di concludere con Haifa, prima di Tel Aviv. Anche se per un po’ ho immaginato anche di andare a Netanya o a Cesarea – ci andrò, ma in giornata. Ho pensato di farmi cinque ore di bus per Mitzpe Ramon, anche.
Ho scelto la semplicità, come con il rasoio di Occam, la città più comoda per raggiungere Tel Aviv: Haifa e i giardini di una religione nuovissima che promuove uguaglianza – le terrazze sono tutte uguali ma con un elemento che le rende uniche, come gli uomini –, la non violenza e la meditazione.
Ricordo il quartiere musulmano, il ragazzo a cui ho chiesto informazioni: faceva la guida turistica e stava controllando i punti di sosta e di spiegazione per il giorno dopo, mi ha detto di seguirlo, mi ha spiegato qualcosa e mi ha suggerito dove mangiare il miglior falafel di Israele.
Ricordo la salita a Stella Maris, la discesa alla grotta di Elia, la passeggiata sulla spiaggia al tramonto rosa shocking mentre osservavo pescatori e surfisti. Le chiacchiere con un tassista fermo in pausa pranzo, la gentilezza in un ostello amichevole e accogliente. Nell’ostello ho scambiato quattro chiacchiere con un tizio francese che faceva scambio di case per le vacanze. Ricordo la mia fatica nell’affrontare il primo Shabbat su tre senza camminare; Shabbat mi aveva appesantito per un motivo mentale: odio la noia e la stasi. Tutto era fermo: ma più fermo delle nostre domeniche e più fermo di Natale. Ho provato una sensazione di sospensione anche con i pochi locali aperti. C’erano 20 gradi ad Haifa, mancavano pochi giorni al mio rientro e l’ultima tappa sarebbe stata Tel Aviv – nei miei desideri anche grazie ad Amos Oz: di quel Shabbat ho apprezzato il museo della scienza – consigliato se è brutto tempo –, la lunghissima spiaggia, la melanzana affogata nella tahini, l’odore forte di caffè quasi bruciato, di fritto e di sudore di quelli che corrono. Ho apprezzato gli anziani con le racchette, un succo di melograno carissimo, le arance, i piedi in ammollo a gennaio, una coccinella sulla spiaggia e la mia lieve abbronzatura, le luci di Natale e la maglietta a maniche corte. La calma e la rilassatezza, da imparare, per poi non resistere e aggirare l’assenza di trasporti con uno sherut taxi per 45 shekel diretto a Tel Aviv.

In copertina, foto di Eleonora Viganò

Ascolta/leggi anche:

E se credete in un giornalismo indipendente, serio e che racconta dai posti, potete sostenerci andando su Sostienici


Continua a leggere

[There are no radio stations in the database]