Tre francesi, un olandese e un brasiliano
Scritto da Eleonora Viganò in data Ottobre 24, 2019
Sette ore di bus da Salvador de Bahia a Lencois, la città che apre le porte al Parco Nazionale della Chapada Diamantina. Un altro mondo nel mondo: turistico, ricco di bellezze naturali e di storia. La scelta migliore? Partecipare a un trekking di almeno tre giorni. Io mi sono accontenta di girare un po’ a caso con un ragazzo della città e un olandese con un’automobile.
7 ore per la Chapada Diamantina
Arrivata a Salvador de Bahia in perfetto orario, quel giorno – cercando una connessione internet per non ricordo quali strani motivi – mi lasciai sfuggire l’autobus delle 13:00 per Lencois, la cittadina dalla quale si può esplorare la Chapada Diamantina: un insieme di cascate, grotte e formazioni rocciose racchiuse all’interno di un parco nazionale nello Stato di Bahia. Si possono fare escursioni e trekking che durano giorni, oppure dedicarsi a brevi escursioni giornaliere, anche al di fuori del parco. Per arrivare a Lencois da Salvador ci vogliono circa sette ore di autobus: pensai seriamente di modificare i miei programmi, ma qualcosa mi spinse ad attendere il successivo, non prima delle 17:00, sapendo che comunque non avrebbe influito sulle mie visite di quel giorno. Sarei arrivata a mezzanotte anziché alle 20:00, la giornata sarebbe comunque stata dedicata interamente agli spostamenti. Inoltre, io adoro viaggiare in bus o in treno per ore: mi sento protetta e accolta. Non devo prendere decisioni e posso riposare: di me si occupano un autista e coloro che condividono con me il viaggio. Di giorno posso osservare, leggere, fantasticare o parlare con il vicino. Di notte posso dormire, evitando ostelli e guadagnando tempo.
I francesi
Nell’attesa trovai un punto internet, scrissi il diario, mi rifocillai e acquistai una canottiera blu, una mappa di Salvador de Bahia e una mini guida della Chapada. Arrivai presto alla fermata e mi accomodai al mio posto: 43. Accanto non avevo nessuno e così nei due posti al di là del corridoio. Il bus era classico, abbastanza comodo. Prima che partissimo scrissi due righe velocemente, sapendo che i movimenti della guida mi avrebbero impedito poi di farlo per tutte le sette ore successive. Mancava ormai qualche minuto alla partenza, quando salirono gli ultimi tre passeggeri: i miei vicini. Tre giovani francesi. Biondi, occhi chiari, occhiali da sole, fisico asciutto. Li fissai un po’, ma senza farmi notare. Ritornai a scrivere e poi a leggere, fino a quando quello accanto a me, con il profilo disegnato da un artista e il sorriso da attore, non decise di rivolgermi la parola. Parlammo dei nostri itinerari, del lavoro, delle letture. Aveva in mano Amado in portoghese, mi parlava in un italiano con accento straniero, si rivolgeva ai suoi amici nella sua lingua e viveva a Barcellona. Era un project manager da dieci anni nel settore informatico, ma voleva cambiare lavoro. Non gli avrei dato più di 28 anni. Mi mostrò dal finestrino la favela di Salvador de Bahia, raccontandomi qualcosa, questa volta in inglese. Dopo qualche ora, ci addormentammo tutti, nonostante la guida fastidiosa e le buche. Quando arrivammo a Lencois non salutai e partii spedita verso il mio alloggio. Lo avrei rivisto il giorno dopo, al tramonto.
Lencois: dai diamanti al turismo
Scelsi la mia pousada sulla guida turistica, non avendo avuto modo e tempo di decidere una volta arrivata a destinazione in base alla piacevolezza dell’architettura, della hall e dell’atmosfera, come sempre. Rimasi soddisfatta: un po’ fuori dalla cittadina vera e propria – ma pur sempre in centro –, solito stile hippie che adoro e prezzo basso. A mezzanotte non apprezzarono la mia richiesta di informazioni e dovetti cedere al riposo. Anche il giorno dopo la situazione non cambiò: era ormai troppo tardi per prenotare qualche escursione di trekking, ma ero soddisfatta così, libera. Vagante e libera, in cerca di ciò che avrei potuto scoprire da sola. Chiesi informazioni alla reception e mi diressi verso uno dei piccoli sentieri suggeriti.
Nel tragitto incontrai un ragazzo del posto, giovane, al quale chiesi un’indicazione: due parole e divenne la mia guida della giornata per 40 real. Gli chiesi l’età più volte, ma ancora non sono certa che lui avesse davvero 19 anni. Mi disse che da quelle parti iniziano a fare le guide a 9-13 anni per pochi real e su percorsi semplici. Per altri sentieri è fondamentale conoscere bene il luogo: ci vogliono esperienza ed età. Mi disse anche che le sue coetanee erano già quasi tutte sposate e con figli: iniziavano a tredici anni e preferivano di solito gli uomini vagabondi, rapporti difficili, ostili che spesso finivano in botte e abbandoni. I lavoratori, queste donne, non li guardavano nemmeno. Mi parlò di un italiano che si era sistemato lì e di un uomo di 93 anni morto in quei giorni che aveva partecipato come testimone alla realizzazione di documentari sulla Chapada Diamantina. In realtà Seu Cori di anni ne aveva 88 ed era stato un cercatore di diamanti, attività tipica di quel luogo e che l’anziano praticò dall’età di 12 anni fino ai 65. Era il simbolo di quella terra, era un museo vivente: aveva ricreato una vera e propria casa-museo, con arredamenti, attrezzi e oggetti di una volta. Più tardi vidi un crocchio di gente fuori da una casa: Sociedade União dos Mineiros. Era qualcosa di simile a un funerale, ed era per lui.
Nella Chapada, con le nuove generazioni, si passò dalla miniera a turismo, possibilmente eco-sostenibile. La prima mossa fu la creazione del parco, nel 1985 e poi con la telenovela del 1992: “Pedra sobre Pedra”, che ha contribuito a diffondere per il paese le bellezze della Chapada Diamantina.
Elco: la bioenergetica e il poco do diablo
Camminai per buona parte della mattinata con questo ragazzino, cercando di capire le sue spiegazioni in portoghese e provando a far domande in un misto di spagnolo e italiano con qualche parola in inglese. Mi portò in un punto in alto, per vedere la Chapada e qualche cascata. Andammo ai pozzi per fare il bagno e lasciarci trascinare dall’acqua di piccole rapide: rossa per via delle foglie e del materiale organico decomposto. Infine, mi portò dove la sabbia è colorata e si ricava dalle rocce.
Dopo questo girovagare senza aspettative, decisi di proseguire da sola per il centro di Lencois, con le sue casette colorate, le strutture coloniali, il ponte, i vicoli e i negozi per turisti. Avrei voluto provare l’altro percorso: verso una piccola cascata andando in direzione opposta rispetto al centro, uscendo dal mio ostello, senonché, al centro di una piazza sulla quale si affacciavano due o tre bar ristoranti, scorsi un uomo che mi fece un cenno con la mano. Era seduto a un tavolo, stava già bevendo un succo di maracuja. Lo salutai e mi avvicinai. Mi disse di avermi visto in ostello a colazione, quella mattina. Ripeté il nome del nostro alloggio, come se fosse una domanda di conferma. Mi accomodai con lui, dopo aver scambiato qualche parola. Ordinai un’insalata, mentre lui venne servito con un pasto ben più tipico, ma non ricordo cosa fosse. I giorni scorsi – mi disse – era stato male e non aveva potuto visitare nulla, ma ora – alla fine della sua esperienza nella Chapada – avrebbe voluto vedere qualcosa. Elco, questo il suo nome, era un olandese che durante un viaggio in Brasile aveva conosciuto sua moglie, una afrobrasiliana di Rio, e da lì non si era più spostato. Si occupava di IT, ma avrebbe voluto diventare psicologo: si trovava da quelle parti per un corso di bioenergetica e ne aveva approfittato per visitare un luogo molto lontano da Rio de Janeiro. Mi disse di adorare Murakami, di aver letto Umberto Eco. Parlava inglese e portoghese alla perfezione.
Parlammo delle migrazioni in Europa, utilizzate politicamente per trovare un nemico.
In Brasile, mi disse, il meccanismo è del tutto simile contro haitiani, afrobrasiliani e cinesi. Gli haitiani, scappando dai disastri del terremoto, approdavano a nord, non trovavano lavoro e si spostavano a sud. A Foz do Iguacu, per esempio, un tassista mi disse che solo in quella città si contavano circa 73 etnie e 30 mila arabi – sempre che tra me e il taxista ci sia stata comprensione –, un tempio cinese che ha 19 anni e, in proporzione al numero di abitanti, anche la più grande moschea del Brasile.
Elco mi guardò e mi propose di andare insieme al Poco do Diablo e in cima al Morro do Pai Inacio. Lui aveva un’auto, eravamo soli ed era tardi per un tour organizzato, in più quei tour servivano solo perché non ci si poteva spostare in altro modo. Mi scombinò i piani, ma annuii entusiasta. Ritornammo in ostello dove parlammo con la responsabile per le escursioni successive: rischiavo di replicare il Morro perché era incluso un po’ ovunque. Alla fine, si trovò un compromesso per non rinunciare a quella esperienza senza vincoli, in due.
Elco continuò a parlare a lungo di stereotipi olandesi e della moglie gelosa che lo chiamava di continuo all’ostello. Mi chiese se fossi sposata poiché porto sull’anulare sinistro un anello del Cammino di Santiago, che da lontano potrebbe ricordare una fede. Quel giorno tutto fluì, come l’acqua del Poco, nel quale feci un bagno gelido il giorno seguente. Trovai piacevole spostarmi con un’auto privata e vedere quei luoghi da una prospettiva più casalinga. Al tramonto incontrai i francesi, ma mi limitai a un frettoloso saluto. Per cena evitai Elco: anzi, ci evitammo. Non ricordo cosa feci, forse cenai all’ostello con la tapioca e un loro dolce squisito. Poi girai per il centro a vuoto: quasi sicuramente presi un succo denso e pastoso, giallo intenso, in un bar all’aperto e con il mio diario tra le mani: i pantaloni larghi, l’aria e l’attesa per il domani.
In copertina, foto di Eleonora Viganò
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