Le 60 lingue che uniscono l’Europa
Scritto da Valentina Barile in data Agosto 28, 2020
Un viaggio nel vecchio continente, attraverso villaggi sperduti tra le montagne della Svizzera, nelle foreste più folte del Nord, fino a tirare verso Ovest, sull’Oceano Atlantico, e poi finire giù, nella corrente dei Balcani. E saltare, di nuovo, a Ponente. Le lingue, i dialetti, i regionalismi, l’Europa. Valentina Barile ne parla con Gaston Dorren, linguista e giornalista olandese, autore del saggio Le 60 lingue che uniscono l’Europa (Garzanti 2020), e Fabio Caon, ricercatore all’Università Ca’ Foscari di Venezia e direttore del Laboratorio di Comunicazione interculturale e didattica.
Giuliano Terenzi al doppiaggio
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Le lingue diverse uniscono un continente?
La genialità di Gaston Dorren è subito identificabile dal modo in cui tratta un argomento così importante, impegnativo, accademico. La leggerezza con cui indossa gli abiti di Cicerone e parte per l’Europa è incoraggiante, soprattutto per chi si interessa per la prima volta alla linguistica. Le differenti storie proposte, attraverso le curiosità, le abitudini, i gesti e gli sguardi che contraddistinguono e identificano i popoli, servono a raccontare le lingue, la genitorialità dei fonemi che le caratterizzano. E la gente del vecchio continente.
«Credo vi siano due modi per unificare un continente dal punto di vista linguistico. Uno, consiste nel costruirlo monolingue, o “pocolingue” (oligolingue), per meglio dire. È il caso delle Americhe e dell’Australia, e il prezzo è totalmente inaccettabile perché consiste in un genocidio, la distruzione delle nazioni e delle culture intere, con le sue lingue. È un crimine terribile in termini umani e una perdita enorme in termini culturali. L’altro modo è assicurare che si conservino un gran numero di idiomi, che si usino e che vengano rispettati da tutti. Praticamente, è la soluzione dell’Unione Europea. Abbiamo una lunga cultura della traduzione, a tal punto che Umberto Eco disse che la traduzione è la lingua dell’Europa. Oggi, usiamo l’inglese come lingua franca, soluzione non proprio perfetta, ma che sembra fattibile. E in questo modo, spezziamo le distanze tra noi europei. Non voglio idealizzarla, questa condizione, perché molte lingue minori non ricevono la conservazione che meritano, ma ovviamente la preferisco di gran lunga alla soluzione – tra virgolette – sanguinosa e depauperante che gli stessi europei hanno imposto alle varie colonie».
Concetto rafforzato da Fabio Caon: «È molto importante mantenere i dialetti per una questione di identità, di appartenenza, perché aumentano nei bambini, cognitivamente, la possibilità di avere più visioni del mondo, quindi hanno sicuramente dei vantaggi sia emotivi sia culturali e sia cognitivi: quindi assolutamente valorizzare il plurilinguismo e valorizzare i dialetti, le lingue d’origine».
Dorren continua su Radio Bullets: «Una cosa che non smette di sorprendermi è il numero dei concetti linguistici distorti che persistono tra molte persone, anche tra quelle ben istruite, anzi, maggiormente in loro che in altre. Molte di queste convinzioni sono frequenti in tutta Europa, altre più frequenti in taluni Paesi. Una di queste false convinzioni è che la lingua scritta sia più importante di quella orale, di livello inferiore. In realtà, passiamo più tempo a parlare che a scrivere, e lo scritto è assolutamente un derivato del parlato, peraltro imperfetto, mancando di intonazione, gestualità e molto altro ancora. Altra idea sbagliata, ma diffusa, è che i dialetti siano forme corrotte di una lingua ufficiale, quando la lingua ufficiale è semplicemente più di un dialetto; un dialetto prestigioso e utile che manca di bellezza, ma artificiale e costruito sulla base dei dialetti stessi. Per fortuna, ci sono vari Paesi, come la Norvegia, e credo che anche in Italia valga lo stesso discorso, in cui i dialetti sono più apprezzati che in altri. Per concludere, una terza convinzione assurda è che l’ortografia debba riflettere la storia, l’etimologia delle parole. L’italiano non è caduto in questa trappola, ma il francese e l’inglese, e per certi versi l’olandese, sì. Purtroppo».
Gli stessi gesti uniscono i continenti?
Molto spesso accade che non si abbia una lingua in comune tra persone che si incontrano. A volte la comunicazione può concludersi serenamente aiutandosi con la gestualità, elemento inizialmente visibile, ancor prima di produrre fonemi. Può succedere, però, che in molti casi la gestualità contamini la trasmissione del messaggio.
Cosa è necessario ricordare, sempre? Scopriamolo insieme a Fabio Caon: «I gesti possono aiutare la comunicazione ma nel caso di lingue e culture diverse possono anche essere delle trappole. Perché? Perché, mentre i gesti, le drammatizzazioni – i gesti didascalici: correre, camminare – sono gesti che non pongono problemi ma sono delle mini azioni che si mimano, altri, ad esempio, il famoso nostro “cosa vuoi” con la mano a sacchetto, può voler dire “abbi pazienza” nel mondo arabo oppure “va benissimo” in alcune aree della Turchia o della Grecia. Sono gesti che, quindi, possono essere o non essere compresi, oppure addirittura possono essere fraintesi. Quindi, diciamo, dobbiamo avere diffidenza – una sana diffidenza – nei confronti dei gesti, perché non sono naturali ma sono culturali, vale a dire che c’è una predisposizione naturale dell’uomo a gesticolare, a manifestare anche accompagnando le parole con dei movimenti, ma poi, di fatto, tali gesti si sono differenziati culturalmente nel tempo. Quindi non sono un facilitatore assoluto. Bisogna avere consapevolezza di questo e, quindi, un controllo. E, soprattutto, non pensare che siccome ho detto questa cosa a gesti l’altro mi abbia capito».
Le lingue che uniscono l’Europa
Quanto è importante il modo di raccontare? Quanto è efficace la scelta dello stile prima di cominciare una narrazione, che sia un romanzo o un saggio? Quanto si può osare in certi ambiti narrativi, e quanto è conveniente?
Gaston Dorren conclude, così, il suo intervento per Radio Bullets: «Devi sapere che ho scritto questo libro prima di “Babele: le 20 lingue che spiegano il mondo” (Garzanti, 2019), seppure in Italia siano usciti in ordine inverso. Cominciai a scrivere “Le 60 lingue che uniscono l’Europa” nel 2009, dopo che non mi ero occupato di linguistica per dieci anni, durante i quali mi sono dedicato più al teatro e alla musica. È stata una delle riconciliazioni, tra le più calorose, come ritornare a casa, quasi come un secondo innamoramento. Certamente io ne sapevo abbastanza di lingue europee, e la crescita enorme del Web nella decade precedente mi ha permesso di rintracciare qualsiasi quantità di informazione e di esperti, e per questo, ogni risposta a qualunque domanda mi ponessi. Non è stato così per i miei libri precedenti. Inoltre, i miei anni di teatro mi hanno aiutato a capire come presentare le mie conoscenze, non solo dal punto di vista informativo – come deve essere un libro di divulgazione scientifica che si rispetti – ma anche dal punto di vista narrativo, dando un tocco ironico allo stile. E questo, nella lettura, traspare. Credo che non avrei mai potuto scrivere in uno stile così accessibile e leggero senza aver fatto teatro per sette, otto anni della mia vita».
Il mondo in cui viviamo è molto meno immenso di quanto si possa immaginare. O di quanto si immagini. Esistono lingue originarie che, purtroppo, in passato hanno subito l’obbligo di non essere più parlate, ma che per fortuna, oggi, riemergono dalla storia che le ha volute preservare grazie a donne e uomini invisibili che in fondo la tessono. Esistono lingue coloniali che sono un’alchimia di suoni, rumori, colori, grida, nenie. Che portano nei fonemi e nei grafemi il sangue di chi ha combattuto per la propria libertà. Lingue madri di molte altre, e lingue, come l’esperanto, che non ce la farà mai a omologare il mondo, perché il mondo è unito solo se mantiene le proprie sfumature.
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