Storia di un’ingiustizia. Nessuna pace per le vittime
Scritto da Barbara Schiavulli in data Gennaio 8, 2021
Il 16 settembre 2007 era una delle solite torride giornate di Baghdad. In quegli anni ero l’unica giornalista italiana in Iraq e mi fermavo settimane per raccontare quel paese tormentato dal conflitto. Risiedevo in un piccolo alberghetto dove c’era anche l’agenzia stampa Reuters prima che si trasferisse in un vero e proprio compound super protetto. Ogni giorno lottavo per raccontare un paese che combatteva sotto il peso degli attentati di Al Qaeda, della rabbia tra sciiti e sunniti, dei bombardamenti americani, dei rapimenti e dei razzi che attraversavano il cielo della capitale come stelle cadenti in pieno giorno.
Giravo per la città vestita di tutto punto da irachena sciita, per non dare nell’occhio e poter lavorare in città un po’ più tranquillamente visto che i giornalisti stranieri erano nel mirino della militanza.
Poco prima di mezzogiorno, un’autobomba esplose vicino a Izdihar, un complesso di edifici dove si stavano incontrando funzionari americani e statunitensi. A quell’epoca ogni americano o straniero presente sul posto, ma anche i funzionari stranieri giravano scortati da contractor per la sicurezza stranieri. Si parlava di decine di migliaia di mercenari giunti in Iraq per fare da scorta alle persone importanti: americani, canadesi, sudafricani, persino nepalesi, altri avevano appalti che andavano dalle carceri americane in Iraq alla sicurezza della Green Zone, la cittadella fortificata che raccoglieva molte istituzioni irachene quali il parlamento e le ambasciate straniere. Si parlava anche di veri e propri eserciti che addestravano iracheni o, come mi aveva raccontato Joel che una sera a cena mi aveva detto di guadagnare un milione di dollari a settimana a soli 30 anni, con i suoi uomini interveniva su richiesta dei soldati americani quando le regole d’ingaggio non permettevano di «finire il lavoro». C’erano scontri ed esplosioni ovunque. E quella poco prima di mezzogiorno del 16 settembre non era niente di nuovo, un’altra nuvola di fumo grigio che si sollevava verso il cielo di Baghdad, o almeno così sembrava.
I funzionari americani che si trovavano a parlare con i colleghi iracheni erano scortati da un team di sostegno della Blackwater, una delle più grosse compagnie di sicurezza americane. Su di loro già circolavano sinistri racconti a proposito della loro brutalità e di come l’immunità che avevano in un paese come l’Iraq li facesse sentire padroni del mondo. Dopo l’esplosione, per evacuare gli americani, un team tattico della Blackwater si schierò sul lato meridionale di Nisour Square per garantire il passaggio degli americani e dei loro colleghi che li scortavano. Pochi minuti dopo in quella piazza è scoppiato l’inferno. Un inferno fatto di vittime, di sangue, di urla, di errori, di procedimenti penali, di una qualche forma di giustizia avvenuta ben dieci anni dopo e culminata con la peggiore ingiustizia che si potesse infliggere ai familiari delle vittime, che hanno visto “perdonati” dal presidente Trump degli assassini condannati dopo un lungo e straziante processo.
Morirono 17 persone in quei pochi minuti, 20 vennero feriti. 14 erano civili, uno era Ali Kinani, un bambino di 9 anni. Era l’ennesima strage che colpiva Baghdad in un giorno qualunque, eppure questa volta non erano stati i militanti di Al Qaeda o gli ex militanti vicini a Saddam Hussein. Erano stati un manipolo di addetti alla sicurezza che avevano sparato sulla folla in movimento nella piazza.
La Blackwater si è difesa dicendo che erano stati attaccati, di aver risposto e di essersi legittimamente difesi. Ma la versione dei testimoni, delle vittime, di chi ha indagato è bel lungi da sposare questa versione.
Gli avvocati della difesa che rappresentavano gli ex membri della Blackwater, quando cominciò il processo negli Stati Uniti, sostennero che avevano visto una Kia avvicinarsi in modo sospetto. Chiunque è stato in Iraq in quel periodo sapeva che non bisognava avvicinarsi mai ai convogli, che erano pericolosi perché erano obiettivi di kamikaze che si lanciavano contro di loro con le auto imbottite di esplosivo, o che i contractor sparavano contro chiunque si avvicinasse troppo per paura che rappresentasse una minaccia. Era meglio accostare, lasciarli passare, vederli allontanarsi e riprendere il proprio viaggio. Secondo i testimoni, nessuno ha sparato contro il convoglio o gli uomini della Blackwater ma è presumibile credere che la Kia che loro hanno crivellato di proiettili potesse aver preso nel senso sbagliato la rotonda o potesse non essersi accorta di essersi avvicinata troppo. L’iracheno alla guida, colpito alla testa, è stata la prima vittima di quello che sarebbe stato un massacro. Poi, visto che la macchina proseguiva anche se l’autista era morto, i contractor hanno continuato a sparare sulla macchina per tentare di fermarla uccidendo la madre dell’autista. Poi hanno lanciato una granata sull’auto, incenerendola. Hanno raccontato dei testimoni che il rumore della granata può aver innescato una risposta della polizia irachena che ha pensato a un autobomba, ingaggiando uno scontro a fuoco sul nulla, ma secondo i testimoni, Raven 23 − come si chiamava il team di supporto − aveva sparato sulle altre macchine in movimento, fino a quando è arrivato un altro team che ha aperto il fuoco provocando altri morti e feriti tra i civili.
La polizia irachena − ma alle alle 12.39, circa 40 minuti dopo l’inizio di tutto − e un convoglio dell’esercito americano coperto da aerei in sostegno, hanno scortato il team nella Zona Verde.
Era impossibile avvicinarsi − il posto venne immediatamente sigillato ai giornalisti − ma era evidente che qualcosa di terribile era accaduto. Poco dopo un comunicato del Dipartimento di Stato americano disse che erano stati attaccati, mentre il governo iracheno confermava la tesi su un ragazzo a bordo di una Kia con la madre accanto che aveva guidato sul lato sbagliato della strada, che erano stati lanciati colpi di avvertimento ma, non avendo capito o non essendo riuscito a fermarsi, la macchina era stata crivellata. Dal canto loro la polizia e i soldati iracheni avevano scambiato granate stordenti per bombe, aperto il fuoco contro quelli della Blackwater, che hanno quindi risposto. Secondo gli agenti iracheni, anche gli elicotteri giunti in supporto hanno sparato sulle macchine. Quelli della Blackwater dicono che la Kia li minacciava, che un poliziotto che si era avvicinato alla macchina sembrava indirizzarla verso di loro, che pensavano di essere sotto attacco e hanno sparato alla macchina, uccidendo anche il poliziotto. I colleghi del poliziotto, sempre secondo la Blackwater, hanno iniziato a sparare contro i contractors. Qualcuno ha anche parlato di un colpo di mortaio. Sta di fatto che quando tutto è finito, in strada i morti erano quasi tutti civili.
Nell’ottobre 2007, le Nazioni Unite hanno pubblicarono uno studio durato due anni che affermava che gli appaltatori privati, sebbene assunti come “guardie di sicurezza”, svolgevano compiti militari. Il rapporto ha rilevato che l’uso di appaltatori come Blackwater era una «nuova forma di attività mercenaria» e illegale ai sensi del diritto internazionale. Gli Stati Uniti non sono firmatari della Convenzione sui mercenari delle Nazioni Unite del 1989 che vieta l’uso dei mercenari e nemmeno del protocollo aggiuntivo del 1977 alla Convenzione di Ginevra del 1949 in cui l’articolo 47 specifica che i mercenari sono civili che «prendono parte direttamente alle ostilità» e sono «motivati a prendere parte alle ostilità essenzialmente dal desiderio di guadagno privato».
Il 24 settembre 2007, il ministero degli Interni iracheno disse che avrebbe sporto una denuncia contro il personale della Blackwater coinvolto nella sparatoria, anche se non era chiaro come potessero essere processati; poi un collaboratore dell’allora premier Al Maliki, disse che tre dei contractos erano iracheni e potevano essere perseguiti.
L’11 ottobre 2007, il Centro per i diritti costituzionali ha intentato una causa contro Blackwater USA ai sensi dell’Alien Tort Claims Act per conto di un iracheno ferito e delle famiglie di tre dei diciassette iracheni uccisi dai dipendenti della Blackwater durante il 16 settembre 2007. La causa si risolse con un patteggiamento per una somma non divulgata, nel gennaio 2010. Una seconda causa civile intentata dalle famiglie di sei vittime contro Blackwater venne risolta il 6 gennaio 2012 con un’altra somma di denaro non divulgata.
Nel dicembre 2008, il Dipartimento di Gustizia degli Stati Uniti ha presentato accuse penali contro cinque dipendenti della Blackwater e ha ordinato loro di consegnarsi all’FBI. I cinque sono stati accusati di 14 capi di omicidio colposo, 20 di tentato omicidio colposo e violazione per il possesso di armi. Si trattava di Donald Ball, un ex marine di West Valley City, Utah, Dustin Heard, un ex marine di Knoxville, Tennessee, Evan Liberty, un ex marine di Rochester, New Hampshire, Nicholas Slatten, un ex sergente dell’esercito di Sparta, Tennessee, e Paul Slough, un veterano dell’esercito di Keller, Texas.
Una sesta guardia della Blackwater, Jeremy Ridgeway della California, reggiunse un accordo con i pubblici ministeri il 4 dicembre 2008 e si dichiarò colpevole di omicidio colposo volontario per ciascun capo di accusa, tentato omicidio colposo e favoreggiamento e accettò di testimoniare contro gli altri cinque uomini.
Il processo venne fissato per l’inizio del 2010, ma le accuse vennero respinte dalla Corte distrettuale degli Stati Uniti che stabiliva che il Dipartimento di Giustizia aveva gestito male le prove.
Nel memorandum, il giudice Urbina aveva stabilito che i casi contro Slough, Liberty, Heard, Ball e Slatten erano stati impropriamente costruiti su testimonianze rese in cambio di immunità, che le prove includevano dichiarazioni che le guardie erano state costrette a fornire agli investigatori del Dipartimento di Stato, e che, poiché queste dichiarazioni sarebbero state auto-incriminanti, non potevano essere usate come prove ai sensi del Quinto emendamento.
Il 22 aprile 2011, dopo una testimonianza a porte chiuse, una giuria della Corte d’Appello Federale ha resuscitato il processo del Dipartimento di Giustizia nei confronti delle ex guardie Blackwater Worldwide, ripristinando le accuse di omicidio colposo contro i cinque uomini. Un gruppo di tre giudici della Corte d’Appello degli Stati Uniti del Distretto di Columbia ha riscontrato errori “sistemici” nella decisione del tribunale distrettuale del 2009 di respingere le accuse contro le cinque ex guardie di Blackwater.
Nel settembre 2013 le accuse contro Ball sono state ritirate. I pubblici ministeri hanno dichiarato di aver raggiunto la loro decisione dopo una «valutazione delle prove ammissibili contro di lui».
Gli altri quattro sono stati processati a partire dal 17 giugno 2014. Dieci settimane di testimonianze e 28 giorni di deliberazioni della giuria hanno portato a condanne per tutti e quattro gli uomini il 22 ottobre 2014. Nicholas Slatten è stato riconosciuto colpevole di omicidio di primo grado e Slough, Liberty e Heard sono stati giudicati colpevoli di accuse volontarie e di tentato omicidio colposo, e di aver utilizzato una mitragliatrice per commettere un crimine violento. I giurati si sono schierati con la tesi dei pubblici ministeri secondo cui la sparatoria fosse un atto criminale non uno scontro a fuoco andato male.
Il 13 aprile 2015, il giudice del distretto federale Royce C. Lamberth ha condannato Slatten all’ergastolo, mentre le altre tre guardie sono state condannate a 30 anni di prigione ciascuna.
Il 4 agosto 2017, un gruppo di tre giudici della Corte d’Appello degli Stati Uniti del Distretto di Columbia ha ribaltato la condanna per omicidio di Slatten e ha ordinato che gli altri imputati fossero condannati al tempo già scontato. La giuria raccomandò anche che Slatten si sottoponesse a un nuovo processo poiché era ingiustificabile processarlo con i suoi coimputati, mentre avrebbe dovuto essere processato separatamente.
Il 19 dicembre 2018, Slatten è stato riconosciuto colpevole di omicidio e nuovamente condannato all’ergastolo il 14 agosto 2019. Heard, Liberty e Slough sono stati condannati il 5 settembre 2019 a 15 anni.
E quando le famiglie delle vittime e i feriti di allora hanno pensato che il calvario giuridico fosse finito, il 22 dicembre del 2020, solo poco più di un paio di settimane fa, il presidente Trump ha concesso la grazia presidenziale a Slatten, Slough, Liberty e Heard. Ora questi quattro uomini non potranno più essere processati per i loro crimini neanche da un altro presidente né un altro tribunale può impugnare la grazia presidenziale.
I quattro condannati per il massacro di 14 civili a Baghdad in quell’assolato mezzogiorno di fuoco, sono liberi.
Ingiustizia, impunità, dolore sono le sensazioni che attraversano gli iracheni in questi giorni. Ma non solo. Liberty ha rilasciato un’intervista, la prima dopo l’amnistia, all’Associated Press, nella quale ha detto di «sentire di aver agito correttamente», durante la sparatoria a piazza Nisour. «Mi dispiace per le perdite di vite di innocenti, ma sono fiducioso di come ho agito e posso sentirmi in pace».
Delle sue azioni a piazza Nisour, Liberty ha detto di non aver «sparato a nessuno che non stesse sparando a me» e ha detto che lui e i suoi compagni «non avrebbero mai ucciso una vita innocente. Abbiamo risposto a una minaccia».
Questo non è, però, il risultato dell’indagine dell’FBI di John Patarini o del tribunale in cui gli uomini sono stati condannati. L’investigatore capo dell’Fbi nel caso Blackwater, ha paragonato la strage di piazza Nisour al Massacro di Mai Lay in Vietnam: senza mezzi termini, ha detto in una lettera a The New York Times di «essere disgustato dalle azioni del presidente».
Nota a margine: la Blackwater, la società di sicurezza privata, è di proprietà di Erik Prince, fratello della Segretaria all’Istruzione dell’amministrazione Trump, Betsy DeVos.
Nella lettera pubblicata venerdì, Patarini ha detto: «Ero l’agente dell’FBI che ha guidato le indagini sul massacro di Blackwater a Baghdad. All’inizio eravamo andati in Iraq pensando che questa sparatoria fosse una storia di civili innocenti coinvolti nel fuoco incrociato tra le guardie di Blackwater e gli insorti. Dopo solo una settimana, abbiamo capito che questo incidente non era quello presentato dal personale della Blackwater e dai loro lacchè del Dipartimento di Stato, ma un massacro sulla falsariga di My Lai in Vietnam». Il massacro di My Lai ebbe luogo il 16 marzo 1968. Ben 504 tra bambini, donne e uomini anziani furono uccisi da una compagnia di fanteria americana, i cui membri violentarono numerose donne e ragazze. Solo William Calley, un tenente, venne condannato all’ergastolo, scontando tre giorni di prigione prima che Richard Nixon ordinasse una riduzione della pena. Nel 2009, Calley disse di provare «rimorso per i vietnamiti uccisi, per le loro famiglie, per i soldati americani coinvolti e per le loro famiglie. Mi dispiace molto».
Non solo l’Iraq non ha avuto pace in tutti questi anni, ma con Trump non ha neanche più giustizia.
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