Afghanistan: uomini che odiano le donne

Scritto da in data Agosto 11, 2022

KABUL — Farida mi guarda, si alza ed esce dalla stanza senza dire una parola. L’aria si taglia con un coltello. A volte sono le parole non dette quelle che ti penetrano più profondamente e ti squarciano l’anima.
A un certo punto del nostro incontro, tutto era diventato troppo. Ogni sua parola pesava come una pietra che cadeva su un’altra, come se intorno a noi ci fosse una grandine di sassi che per tutta la vita ha seppellito questa donna di ventinove anni con grandi occhi blu. Il colore del mare. Un mare di dolore e di sofferenza che ti porta a domandarti se esiste un limite a quello che una persona può sopportare. Quel limite è diventato questo momento, il momento in cui Farida si è sentita riempire gli occhi di lacrime ed è scappata via per non farsi vedere piangere. Si è messa in un angolo buio nella stanza accanto. E il silenzio di quella in cui mi trovo, diventa ancora più rumoroso sotto i colpi delle sue lacrime.

Non c’è fretta, Farida che ogni giorno combatte per avere un giorno in più da vivere, può prendersi tutto il tempo che vuole. Poi torna, chiede scusa — quando vorrei essere io a scusarmi per essermi intrufolata nella sua storia — e andiamo avanti. Accanto a lei siedono le due figlie più grandi. Tra lei e la maggiore ci sono tredici anni di differenza. Farida aveva dodici anni quando i suoi genitori le hanno detto che doveva sposare un uomo di trentacinque. A tredici ha dato alla luce Laleh.
Cosa si prova a sposarsi quando sei ancora una bambina? «È passato così tanto tempo che non me lo ricordo, il dolore che ho sopportato da quel giorno mi impedisce di ricordare».

Farida viene data in moglie perché, secondo una delle tante tradizioni afghane, quando un fratello si sposa c’è una sorta di convenienza economica nel far sposare anche la sorella, magari al fratello della nuora. Solo che lei era appena una bambina. In quel momento le due famiglie vivevano in Iran, come molti profughi si facevano matrimoni di convenienza, un po’ affrettati forse, ma nessuno avrebbe potuto immaginare che l’uomo che Farida avrebbe sposato fosse un mostro.

Le botte sono cominciate subito. Non serviva una ragione. Lui si drogava e si sfogava su di lei. Lei non fugge perché ha paura di perdere i suoi figli. Chiede aiuto al padre, le danno da mangiare perché il marito non le dà cibo, la consolano, ma il divorzio non è ancora un’opzione.
Gli anni passano e tornano tutti in Afghanistan, Farida non ce la fa più. Continua a sopportare fino a quando lui la manda in ospedale. Cinque anni fa. Naso e due costole rotte. Ma è uno scricchiolio di troppo, quello delle sue ossa. È ancora giovane ma ora sa che non vuole più vivere con lui. Lo denuncia, si trasferisce a casa dei suoi. E lui scappa in Iran. Per due anni se ne perdono le tracce. Lei chiede il divorzio. Lui dice no. Quei due anni, però, sono quasi spensierati, lavora in un ufficio della polizia, sta con i suoi tre figli, è indipendente e si cura le ferite di quello che più che matrimonio è un tiro al piattello, dove lei era stata la preda per tutta la sua adolescenza. Poi il marito torna. E rivuole lei e i figli.

«Non potevo tornare. Non potevo ricominciare», mormora Farida,  credeva che lasciarlo fosse l’unico modo per sopravvivere. E così un giorno come tanti in una Kabul di qualche anno fa, quando le donne ancora potevano pensare di potersi costruire una vita, Farida riceve in ufficio una chiamata alla quale all’inizio non riesce neanche a credere.

Il marito quel giorno telefona al padre di Farida per parlargli, va a trovarlo, il divorzio è l’argomento della conversazione, si porta con sé nove familiari, perché è questione di famiglia, si siedono a prendersi un tè e poi, posata la tazza, tirano fuori le pistole e compiono una strage. Il padre, cinquantotto anni, e il fratello di Farida, ventinove anni, sono stati crivellati da ventiquattro proiettili. La madre viene ferita, mentre i bambini si nascondono. La sorella dodicenne di Farida la chiama al lavoro e lei corre a casa, dove li trova in un bagno di sangue.

Farida, il viso incorniciato nel suo velo rosso a fiori e una bellezza che trascende la vita dura che ha avuto, con le mani coperte da guanti neri tira fuori foto che non ci serve vedere, ma che sembra aver bisogno di condividere, le sparge sulla moquette davanti a me con le figlie che guardano il nonno morto, lo zio, le fasciature delle varie botte che ha preso nel tempo. Un gioco al massacro dove non ci sono vincitori. Una serie di foto dell’orrore che lei conserva come reliquie di una vita impregnata di violenza, sangue, sofferenza.

Il marito e tre familiari vengono presi dalla polizia, processati e condannati a morte. Trascorrono sei mesi e Farida, con quel che resta della sua famiglia, cerca di affrontare la vita e il dolore che la circonda. Per un attimo pensa che sia caduta talmente in basso che non possa esserci niente di ancora più doloroso. Aveva conosciuto il dolore di doversi sposare a dodici anni, di essere violentata e picchiata ogni volta che il suo marito-padrone voleva. Aveva avuto tre figli che amava, ma da un uomo che l’aveva brutalizzata. Era stata affamata, impaurita, senza via di uscita. Aveva perso il padre e il fratello. Non poteva esserci altro. Non aveva ancora venticinque anni e già aveva vissuto il peggio di tutto quello che poteva capitare a una persona in dieci vite. Sbagliava.

Il 15 agosto i talebani conquistano il paese, e uno dei loro primi atti è stato svuotare le carceri e concedere l’amnistia a tutti, indipendentemente da cosa avessero commesso. E così assassini, terroristi, trafficanti escono. E così esce anche il marito di Farida.

È trascorso un anno. E lui continua a chiamarla nonostante lei cambi numero, nonostante continui a cambiare posto dove vivere. «Le ragazze non vanno a scuola perché i talebani lo hanno vietato, ma mio figlio che ne ha dodici, cambia scuola in continuazione perché non deve essere trovato». Nelle sue telefonate le dice che la ucciderà e prenderà i figli. Farida è stremata. Ha dovuto lasciare tutti. Non può fare amicizia con nessuno. È sola con i suoi tre bambini che non sono più bambini.

Anzi non è proprio sola. O per lo meno da qualche mese non lo è più. Parlando con un’amica in Albania, viene a sapere di un’associazione che la mette in contatto con un’altra organizzazione italiana che opera in Afghanistan. Si chiama Nove Onlus, un manipolo di donne forti che per anni hanno costruito progetti di emancipazione per le donne afghane, dall’insegnare a leggere fino a ottenere la patente. Dal fare corsi di economia e tante altre piccole cose che servono per rendere la vita delle donne se non migliore, un po’ più facile. Poi, il 15 agosto scorso con l’arrivo dei talebani tutto finisce, Nove Onlus partecipa all’evacuazione, porta fuori chiunque abbia avuto a che fare con l’Ong e che potesse essere in pericolo. Poi piano piano la missione cambia, ora non si tratta di aiutare le donne a migliorare le proprie vite e ad avere o dare un contributo alla società afghana, si tratta di sopravvivere. Di aiutare famiglie in difficoltà, donne che non possono più lavorare perché i talebani non vogliono, bambini che non hanno nessuno. Farida entra immediatamente nel programma Dignity — il diritto di esistere. Ma non basta nasconderla e aiutarla a sopravvivere. Finché il marito continuerà a cercarla, Farida e i suoi figli sono in pericolo. L’aiutano con i documenti, l’aiutano a trovare case sicure di cui nessuno conosce l’esistenza.
L’obiettivo è portarla in un paese vicino e poi inserirla nel primo corridoio umanitario che si aprirà per l’Italia. Quando? Ogni giorno per Farida è un’incognita che non merita. Lui potrebbe essere ovunque anche vicino a noi. L’operatrice di Nove Onlus ci dice che siamo alla resa dei conti. Se tutto va bene, settimana prossima la trasferiscono in un altro paese. È il “se tutto va bene” che ci lascia impietriti, anche solo a sentire il suono delle parole dette una dietro l’altra.

L’Italia sarà la fine del suo incubo, se riuscirà a tenere duro ancora un po’. Quell’Italia che non parla di blocchi navali o di invasioni. Un’Italia accogliente e che sarà la cura per una donna ferita. Se tutto va bene, ovviamente.
Farida non riesce neanche a immaginarsela l’Italia, ma sa che non dovrà più avere paura perché c’è gente gentile, che l’ha aiutata a fuggire e a salvare la vita sua e dei suoi figli. «In Italia le lacrime sono vietate per legge, da noi si può solo sorridere», le diciamo scherzando, e lei sorride piangendo ancora di più.

Farida hai paura del futuro? «È del mio passato che ho paura. Non so cosa mi riserva il futuro, può anche andare peggio, ma non lo so, e preferisco quell’incertezza alla sicurezza di quello che lascio. Sono afghana e amo il mio paese. Ma ora mi fa paura. Il mio paese è il mio pericolo. Ho chiesto aiuto alla gente, alla polizia, nessuno mi ha aiutata perché sono una donna come tante altre nelle stesse condizioni. Ho perso tutto. La mia famiglia, il mio lavoro, i talebani mi han detto che dovrei stare con mio marito perché una donna con delle figlie non può stare sola — continua a parlare in un fiume di lacrime, che ormai ha contagiato tutti. Andrò in un altro posto, in Italia, dove non sarò in grado di comunicare, dove ci sono tradizioni e abitudini diverse, ma vorrei solo una vita migliore, vorrei che le mie figlie studiassero, non voglio che siano costrette a sposarsi da giovani, so cosa significa, ogni giorno della mia vita mi ha insegnato che ci deve essere qualcosa di meglio. Non posso più avere paura. Sono così stanca».
Avevi un sogno Farida, di quelli folli che hanno i bambini? «Da piccola volevo fare l’astronauta, volevo andare sulla luna, ora vorrei invece che fossero le mie ragazze ad avere sogni folli, perché per me oggi l’unico sogno è sopravvivere un altro giorno».

19 dicembre 2022 – La redazione di Radio Bullets è lieta di annunciare che grazie al corridoio umanitario con impegno voluto da Sant’Egido, Arci e tutti quelli che continuano ad aiutare questo paese martoriato e che ha portato circa 150 persone in Italia, Nove Onlus è riuscita a portare Farida, le sue due figli e il terzo figlio in Italia. Sono al sicuro a Bari, dove dovranno curarsi le ferite di una vita che non ha fatto loro sconti. Ma ora qui da noi, hanno la possibilità di costruirsi una nuova storia dove le ragazze andranno a scuola e potranno realizzare i loro sogni.

 

Ndr: I nomi sono stati cambiati per tutelare la sicurezza delle persone.
Ndr: Questa storia è stata raccontata grazie al contributo dei sostenitori di Radio Bullets che hanno finanziato questo reportage in Afghanistan, a un anno dalla presa dei talebani. 

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