Wfp: Afghanistan, una catastrofe epocale

Scritto da in data Agosto 13, 2022

Abbiamo conosciuto Mary Ellen McGroarty, la direttrice del WFP Afghanistan, il settembre scorso. Era all’indomani della presa del potere da parte dei talebani. Siamo andate insieme a Herat, dove ho raccontato la storia di sfollati che vivevano in una situazione devastante. Sono passati undici mesi — il 15 agosto segna, appunto, l’arrivo dei talebani — e noi l’abbiamo incontrata di nuovo nel suo ufficio di Kabul, come al solito grintosa, a tratti dura, e se c’è una che può dare filo da torcere ai talebani è lei.

Afghanistan, un anno dopo. Qual è la situazione?

Penso sia una situazione incredibilmente triste. C’è qualcosa di oscuro nell’aria. È in corso una massiccia crisi umanitaria. E questo periodo, che dovrebbe essere migliore perché è il momento del raccolto. Ma non è così. La siccità non ha aiutato. L’economia continua a precipitare. Sempre più aziende chiudono i battenti. Una volta la gente migrava dalle montagne alle città quando non era tempo di raccolto, ma non si trova più lavoro. Guarda Kabul, i lavori sono fermi, tutto è fermo. Nei mercati vedi molta frutta, perché questo è il periodo, ma dietro al colore intenso delle verdure ci sono milioni e milioni di persone che non sanno di che sfamarsi. Parliamo di diciannove milioni di persone a livello di emergenza o di crisi da insicurezza alimentare. Un numero sbalorditivo per questo periodo dell’anno.

Quante persone state aiutando a non morire di fame?

Ventuno milioni. Nel 2022 abbiamo raggiunto venti milioni di persone. Il numero è aumentato, il picco si è registrato a maggio. In questo momento ho due obiettivi. Abbiamo un deficit di novecentosessanta milioni di dollari alla fine dell’anno, e centosettanta milioni ci servono ora per fare il pre-posizionamento. In pratica in Afghanistan nevica. È un territorio montuoso e remoto. Abbiamo bisogno di portare cibo, scorte alimentari in quelle comunità lontane prima che inizi la neve, perché l’anno scorso non ci siamo riusciti. Quindi quest’anno, rivolgo un appello, per favore aiutateci ad aiutare, dobbiamo portare centocinquantamila tonnellate di cibo in quelle comunità lontane prima che inizi la neve. Ma così come pensiamo al domani, dobbiamo pensare alla gente che ha fame oggi.

I donatori non sono abbastanza?

I donatori sono stati incredibilmente generosi. Assistiamo oltre venti milioni di persone. Ma sai, quando si è di fronte ad una crisi umanitaria bisogna anche affrontare le cause dei bisogni umanitari.

La crisi ucraina ha avuto un impatto?

Certo che sì. Naturalmente è una tragedia, ma qui ha avuto molteplici conseguenze a partire dalla catena di approvvigionamento. Abbiamo avuto molti ritardi. Abbiamo dovuto aumentare l’assistenza in denaro del 10% ogni mese negli ultimi due mesi, perché i prezzi degli alimenti sono saliti, il costo del grano è aumentato del 30%, della benzina del 40%. Quando le famiglie spendono l’80% di quello che guadagnano in cibo, ogni aumento causa disperazione.

Come sta andando con i talebani?

Oh, è stato un anno interessante, ho incontrato un certo numero di ministri in carica qui a Kabul. E poi, naturalmente quando sono fuori nelle province, i governatori, sempre talebani. Alcuni sono aperti a discussioni franche. Altri, non lo sono. Molti non mi guardano mentre parliamo. Nel complesso siamo stati in grado di negoziare l’accesso umanitario con loro. Siamo riusciti a portare il nostro cibo in tutte le trentaquattro province. Non è stato tutto perfetto, ma quando abbiamo problemi a livello locale, sembriamo essere in grado di risolverli.

Cosa accadrà in futuro?

Non lo so. Ci penso spesso. Sono qui per starci. Gli eventi delle ultime due settimane, con attentati quasi quotidiani, mi fanno pensare che la situazione potrebbe peggiorare. L’ultima cosa di cui il popolo afghano ha bisogno, è più violenza e più conflitti. L’attenzione ora deve concentrarsi su come promuovere la pace. L’Afghanistan vuole vivere in pace, ma è necessario che così sia per tutti, che vengano riconosciuti i diritti del popolo, e in particolare i diritti delle donne e delle ragazze.

I paesi occidentali se ne sono andati, non sono interessati

Ci sono ancora quaranta milioni di persone qui, e la maggior parte vuole solo vivere una vita semplice come te e me, e vogliono godersi le celebrazioni della vita, guardare la loro famiglia crescere e, sai, andare a scuola e trovare un lavoro. E la prossima generazione farà un po’ meglio della generazione precedente. Ma perché questo avvenga, hanno bisogno di sostegno e hanno bisogno che la comunità internazionale si concentri e ci sia ancora il popolo dell’Afghanistan per poter avere l’Afghanistan che vogliono dopo molti, molti decenni di violenza. È una situazione molto difficile. Voglio dire, su scala politica, non è facile. Ma non possiamo affrontare solo i bisogni umanitari, dobbiamo iniziare a costruire soluzioni per il popolo dell’Afghanistan, che abbia un’economia funzionante e autosufficienza.

Pensi che la riconciliazione dei talebani potrebbe essere un modo?

Non lo so.

Quale soluzione potrebbe esserci?

Dobbiamo trovare il modo di fornire un sostegno diversificato che vada oltre il semplice aiuto umanitario che protegge alcune delle strutture, impedisce alle persone di cadere in un paese totalmente impoverito, ma bisogna anche tracciare una via da seguire insieme. Ci deve essere qualche discussione su come creare un’economia funzionale. Autosufficienza. Forse sono naïve, ma penso che abbiamo un obbligo perché siamo parte del pianeta, di un’umanità condivisa. Le persone che vediamo ogni giorno non hanno colpe. E stanno soffrendo e sopportano un grande peso. Ci sono momenti in cui ti arrabbi ancora di più, se pensi che questa è la pace dopo cinque decenni di guerra. Se questa è pace, c’è qualcosa di ingiusto.

Una donna mi ha detto, la settimana scorsa: ho perso due cognati in un attentato, come si può chiamarla pace?

Non è pace. Sai, non è pace quando si soffre per la violenza, o si ha fame, o sei disperato. Quando ti senti escluso, quando vedi l’oscurità, no, non chiamiamola pace.
I talebani, se vogliono governare, devono cominciare a prendere decisioni responsabili e consegnare l’Afghanistan al popolo perché decida quello che vuole. Servono opportunità per tutti, indipendentemente dal sesso. Il nostro staff locale vuole andarsene.

Oggi in Afghanistan nessuno vuole restare.

Sì, perché hanno figlie a casa che urlano contro di loro perché non possono andare a scuola. Quando esci, vedi le donne traumatizzate perché non possono andare al lavoro. Se qualcuno avesse detto a te o a me, a dodici anni, che non potevamo andare a scuola, o a venticinque che improvvisamente dovevi andare a casa e smettere di lavorare, ci sarebbe venuto un colpo: per questo tutti vogliono andarsene, perché non vedono possibilità. Bisogna mettersi nelle loro scarpe. Gli ultimi venti anni sono stati di speranza e potenziale. Anche se era tutt’altro che perfetto.

Ma c’era l’idea.

Si, c’era l’idea. Ora, invece, sai che quella porta è chiusa. E quello che c’è dietro è molto difficile e triste.

Ndr: Questa storia è stata raccontata grazie al contributo dei sostenitori di Radio Bullets che hanno finanziato questo reportage in Afghanistan, a un anno dalla presa dei talebani. 

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