I fantasmi di Kabul
Scritto da Barbara Schiavulli in data Gennaio 26, 2022
KABUL − «Ho venduto mia figlia perché non avevo più niente. Perché ho altri figli e hanno tutti fame». Ma non hai paura che le succeda qualcosa? «Che cosa può succedere peggio di questo?», dice Fatima che non sa quanti anni ha, allungando una mano per mostrare il luogo dove vive: un ammasso di casupole con mura di fango, tetto di fango, pavimento di fango e ancora fango fresco tutto intorno, mischiato a neve in una miscela che fa sembrare ogni centimetro dei loro sentieri sabbie mobili.
Ha tre figli e Fardusi, di due, è la prescelta. Per duemila euro. che verranno elargiti a rate, è stata data a un parente alla lontana di Kandahar, roccaforte dei talebani, che la farà sposare al figlio, anche lui ancora piccolo. Quando avrà dieci anni la verranno a prendere e verrà trasferita nell’altra famiglia, ma per ora con il suo buffo giacchetto a pois rossi e gli stivali ai piedi vive nella giungla di un campo sfollati, inconsapevole del suo destino. Il campo ospita circa duemila famiglie, il che significa che ci sono almeno ottomila bambini che scorrazzano a piedi nudi tra la neve. Una mamma tiene in braccio la figlia con le gambe nude mentre lei trema vistosamente. Splende il sole di Kabul, ma la temperatura è scesa sotto -10 in quell’inferno di fango e ghiaccio che non lascia speranza a nessuno.
Gli ultimi dell’Afghanistan raccolgono la plastica, portano la carriola al mercato, se sono fortunati guadagnano qualche centesimo al giorno, se sono donne, invece, sono inchiodate in un’esistenza che, ora più che mai dopo il ritorno dei talebani, non lascia loro scampo alcuno. Senza possibilità di studiare, di lavorare, di emanciparsi, il destino delle donne, dalle più povere alle più ricche, è segnato dall’ombra dell’uomo che le possiede. Fin da bambine. Si son dovute perfino pagare quelle grotte in cui vivono senza stufe, senza bagni eppure così dignitose. Il fango è fuori, dentro i tappeti sono puliti, i panni sono stesi al vento gelido che li fa congelare.
Ma quando si arranca tra gli ultimi, anche gli uomini diventano i fantasmi delle loro stesse ombre. Muhammad Jan, dodici catapecchie più in là, dopo che si è percorso un sentiero degno del camel trophy, giace su un materassino molto sottile a terra. Sta morendo, coperto con un lenzuolo vicino alla stufa, mentre una bambina che non avrà nemmeno tre anni gli gira intorno, lo guarda e poi si butta a terra anche lei. «Gli abbiamo chiuso gli occhi due volte», racconta il vicino di grotta, «ma poi sussulta e ringraziamo che sia ancora vivo». È malato di reni, se ne sta lì sdraiato mentre la moglie è in giro per strada a mendicare. Dicono che ha cinquant’anni ma ne dimostra settanta. Non si muove, non parla, come tutti qui, aspetta. Chi aspetta una mela, chi aspetta un marito, chi aspetta un figlio, chi aspetta Allah o chi aspetta di morire.
«Ha ricevuto il pacco del wfp: farina, olio, riso, fagioli, ma li ha venduti per comprare le medicine». Un girone dell’inferno, è il campo di Bagrami nella periferia di Kabul. Dove le mamme ti offrono le loro bambine e gli uomini ti guardano come se ti attraversassero. Non c’è scuola, non c’è futuro. Non sanno neanche dirti se hanno delle speranze. La speranza è un’altra di tutte quelle cose che non possono permettersi. Anime abbandonate, che se anche ogni tanto vengono assistite, non hanno alcuna possibilità di uscire dal giro vizioso della povertà. Il loro crimine è essere in un paese martoriato dagli interessi internazionali per poi essere abbandonato, salvo veder poi tornare gli stessi, ancora dicendo di volerli aiutare. Ma davvero potranno mai uscire dal fango dove sono immersi fino al collo? Intrappolati dalle circostanze, dall’ignoranza e dalle tradizioni, stritolati da regole che li aiutano ad andare avanti, ma non oltre. Dove mangiare è più importante che pensare. Dove sposarsi è più importante che migliorarsi, dove l’ignoranza dilaga come le malattie che girano per il campo. Diarrea, gastriti, depressione, reni, disabilità fisiche e mentali, malnutrizione acuta sia delle madri che dei figli. Quei figli che sono il loro bene più prezioso e, a volte, la possibilità, con i loro corpi da marito, di sfamare il resto della famiglia.
Restiamo a est, dove ai piedi della montagna, nascosto dalla strada principale, seguendo una piccola diramazione, si arriva a un cancello immerso nella neve, qualcuno afferra una pala per spalare la neve che si è accumulata nella notte e permettere che si apra.
Dentro ci sono ancora casupole di fango, qualcuna distrutta dal peso della neve, ma il posto ospita solo cinquanta famiglie, circa trecentocinquanta persone, e appartengono tutti alla comunità Giuki. Sono considerati nomadi, ma diversamente da altri che magari si spostano per la transumanza o perché non hanno più un posto dove andare, loro non hanno mai avuto niente e non sono nessuno. Per lo Stato non esistono, non hanno documenti, non vengono registrati, stanno sempre insieme e si aiutano a vicenda, grandi e piccoli, donne e uomini.
Quando si chiudono i cancelli c’è solo il loro mondo fatto di nulla, le donne non possono lavorare, qualcuna prima dei talebani cuciva o lavava i vestiti per chi poteva pagare, ora sono tutti più poveri e disperati.
Il capo di questo girone dice che hanno bisogno di tutto e, mentre i bambini osservano da lontano per poi prendere confidenza, arriva una nota attivista afghana. Laila Hadari è stata una sposa bambina in Pakistan dove i suoi genitori erano profughi, e dopo essere riuscita a divorziare e aver perso i tre bambini che ha tenuto il marito, ancora ragazzina è tornata a Kabul, ha trovato il fratello che si drogava e viveva sotto un ponte, ha realizzato il mother camp, un centro di disintossicazione e poi un ristorante che l’aiutava a coprire le spese del campo.
Con i talebani tutto finito. Niente campo, niente ristorante, ma a lei la voglia di fare non gliela possono togliere e già sta pensando a come raggirare le regole. Piccola e agguerrita. Tosta come sanno esserlo solo le donne che hanno combattuto tutta la vita contro gli uomini, la società e anche la guerra. «Sono rimasta. E non me ne andrò anche se è pericoloso. Questo è il mio paese e ho diritto di stare qua». Scarponcini e pantaloni (che i talebani detestano), ha portato un camion di carbone, due sacchi da trenta kg per tutti. Il mondo l’aiuta a trovare i soldi e lei li usa per aiutare la gente. Ma non è mai abbastanza. «Non ho latte», ci spiega una madre che tiene in braccio, avvolto in una copertina, l’ultimo figlio di appena due mesi, le ragazzine stanno in una casupola senza porta e senza vetri con solo una tenda che le separa da tutti gli altri. Indossano vestiti senza giacca, calzini corti, scarpette estive che si tolgono all’entrata per non portare il fango dentro.
Ci sono dodici neonati nel campo. Nessuno di loro ha il latte, se la madre li può allattare bene, se no, finito il latte in polvere usano acqua e zucchero, non a caso i bambini sono molto piccoli e troppo silenziosi per essere neonati.
Ma a questo, almeno per un attimo, possiamo porre rimedio. Usciamo e ritorniamo dopo meno di un quarto d’ora con tanti pacchi di latte in polvere, abbastanza per un mese di latte costati solo venti euro, donatici, prima di partire, dalla Federazione delle donne per la Pace di Padova, e così tutti i neonati guadagneranno un po’ di tempo in attesa che gli aiuti promessi dalle grandi organizzazioni si sblocchino, per fare più di quanto non stiano facendo ora. Anche perché le sanzioni imposte dagli americani, in teoria contro i talebani, in pratica contro tutti, impediscono la circolazione dei soldi e il funzionamento delle banche. Perfino agenzie umanitarie delle Nazioni Unite sono paralizzate non potendo accedere ai fondi che sono stati elargiti: qui tutto funziona in contanti e, quando i contanti non ci sono, resta solo il fango.
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