Afghanistan, sull’orlo della catastrofe umanitaria
Scritto da Barbara Schiavulli in data Ottobre 2, 2021
Herat – Un detto afghano dice che «se a Herat tiri un calcio all’aria, prendi sempre il sedere di un poeta». In Afghanistan Herat è la città della cultura, con la sua cittadella vecchia restaurata dall’Agha Khan. La moschea Blu e i minareti giganti. È la città dove soffiano il vetro, più rustico rispetto a quello di Venezia ma che sicuramente lega in qualche modo due meraviglie nel mondo. Una città più tranquilla rispetto alla caotica confusione di Kabul, dove le strade del centro sono pulite. Era il posto dove il contingente italiano aveva il suo quartier generale, dove nel periodo più intenso ci sono stati 6.000 soldati italiani a presidiare una regione grande come il nord Italia. Un posto che in qualche modo ci lega, dove è stato versato del sangue italiano. Anni fa mi trovavo a Camp Arena, e verso l’ora di pranzo la base gestita dalla Brigata Sassari venne attaccata da un’entrata secondaria dove c’erano le lavanderie.
Prima un’esplosione, poi quattro talebani armati entrarono e presero in ostaggio una trentina di contractor stranieri. Intervennero le forze speciali italiane, la minaccia venne neutralizzata in poco tempo, le persone vennero salvate e dopo un primo shock piano piano si ripresero. Un’altra volta uno sminatore mi raccontò la sua lotta contro gli ordigni piazzati nelle strade, probabilmente i talebani li mettevano per colpire loro o le forze armate afghane, ma molto spesso uccidevano civili che passavano in macchina per caso, gente che tornava dal lavoro o andava a festeggiare un matrimonio. Ricordo i mezzi blindati accartocciati su sé stessi.
Posti di blocco
Forse per questo si ha una sensazione surreale nel vedere i talebani per le strade ai posti di blocco, vedere che fanno quello che faceva prima la polizia: danno la caccia ai criminali, siedono sulle poltrone del potere. Deve fare strano, soprattutto, alla gente che se li ritrova intorno ogni giorno, che se li vede pattugliare le vie della città dei poeti, proprio loro che pensano che la cultura non serva a niente. Che ora decidono delle loro vite, come chi va a lavorare e chi può o non può andare a scuola. Ma l’Afghanistan è un paese che per sopravvivere, dopo 40 anni di guerra, tende ad adattarsi. Sanno di essere soli. Tutti i militari stranieri se ne sono andati. In fretta e furia hanno lasciato il paese, abbandonando la base ai saccheggi e all’occupazione di quello che fino a un mese fa era il nemico. Le Nazioni Unite sono rimaste. Anche se la guerra è finita male, resta un popolo ancora sotto shock per questo cambio di regime, ma soprattutto affamato. E niente è più forte della fame. Tre anni di siccità, che ha distrutto i raccolti di decine di migliaia di persone che dalle zone più remote della provincia si sono riversate nel capoluogo che non riesce a soddisfare la domanda di lavoro nemmeno per quelli che stanno qui. I combattimenti in alcune zone, come Farah o Baghdis, hanno spinto altre migliaia di persone a lasciare indietro tutto. Le banche funzionano con il contagocce, i fondi internazionali che andavano al governo afghano costituendo la maggior parte del suo budget finanziario sono stati congelati. Gli ingredienti di un disastro. «Una catastrofe umanitaria» l’ha definita l’Onu che con il WFP e altre agenzie che continuano a lavorare. Ogni giorno vengono distribuiti pacchi di farina (50kg), 8,5 kg di lenticchie, 4 bottiglie di olio e un pacchetto di sale. Ogni giorno arrivano bambini in ospedale affetti da malnutrizione acuta perché quando un signore anziano ti racconta di avere 10 figli e di avere solo due pezzi di pane, non esagera.
La fame
Qualcuno racconta che quando la fame è troppa, succhia i sassi per farsela passare. In Afghanistan due milioni di minori soffrono di malnutrizione, il 95% delle famiglie non ha abbastanza da mangiare. Milioni di persone vivono delle razioni del WFP che ogni giorno affronta una serrata negoziazione con i talebani per poter aiutare la popolazione. «Abbiamo bisogno di 200 milioni di dollari e ne abbiamo bisogno oggi», ci dice Mary Ellen Mc Groarty, direttrice del WFP in Afghanistan in una visita congiunta con l’Unicef a Herat. «Dobbiamo far arrivare il cibo alla gente per prima che arrivi la neve». Una neve che tutti sognano perché è l’acqua che serve per i raccolti. I paesi donatori, due settimane fa, hanno promesso in un summit a Ginevra più di un miliardo di dollari, ma «servono fatti, gli afghani rischiano letteralmente di morire di fame. Non c’è più tempo».
Persone sfollate
Salma, che non avrà neanche sette anni ed è già una sfollata, corre senza scarpe in uno spiazzo dove a ogni passo la terra si solleva con degli sbuffi che sembrano nuvolette di senape; dietro a lei si stende una distesa di casupole color ocra, fatte di fango e mattoni, costruite spesso dagli sfollati stessi: sono cubi con piccole finestre, quasi dei buchi che non lasciano entrare la luce e forse neanche il freddo e il caldo. Non ci sono bagni, non c’è acqua, non c’è elettricità. Le casupole sono ben tenute e ordinate anche se non c’è nulla da ordinare: qualche materasso, qualche scatola dove riporre i vestiti, nessuna porta. Si scusano per non avere nulla da offrire, alcuni non possono permettersi neanche un tè, ma i loro modi gentili valgono più di un pasto. Per loro non c’è lavoro, magari qualcuno va a raccogliere la plastica, o lavora a giornata come operaio, ma molti sono malati o non hanno figli maschi da mandare a lavorare. Le donne non si vedono, stanno nel buio delle case, nei cortili sabbiosi, lavano i panni, cercano di passare la giornata, mentre agli uomini cercano di mettere insieme il pranzo con la cena.

Campo sfollati interni alla periferia di Herat (credits: Marco Di Lauro/ WFP)
Ci sono tre centri di distribuzione del WFP. Uno è vicino al campo di sfollati “interni”, alla periferia di Herat, in quel nulla che sembra ancora più nulla quando non c’è niente. Decine di persone, ordinatamente in fila, maschi e femmine accuratamente divisi, stanno in silenzio come se non ci fosse più niente da dire. Le storie di uno sono le storie di tutti, fatte di privazioni, di sacrifici, di tanti bambini, di tanti morti, di tanta paura e di tante preoccupazione. La gioia è negli sguardi dei bambini, forse sembra tanta perché poi i loro occhi cominceranno a vedere una vita che nessuno può sognare, neanche per un momento. Gli anziani si siedono, aspettano quel pacco che darà loro un po’ di sollievo. Gli operatori li aiutano a camminare, «kaka (zio) vieni con me che andiamo a prendere il cibo», le donne avvolte nei veli, con in braccio bambini o con i burqa calati sui volti affaticati dal caldo e dalla vita, procedono una per volta nell’hangar dove ci si registra. Un operatore ci spiega che ogni persona è stata controllata, casa per casa, devono rientrare in 12 parametri, che sono dall’essere una famiglia con 12 figli al non avere un capofamiglia che può lavorare o è disabile, o troppo anziano da poterlo fare.
Ci sono vedove, giovani, anziani, persone senza una gamba o senza entrambe e si trascinano con le braccia. Si portano dietro i bambini che non possono lasciare, mentre fuori un nugolo di portatori di carriole li aspetta per caricare il tuk tuk che li riporterà a casa, sempre che una casa ce l’abbiano.
Le storie
Bibi Sara, sotto un sole cocente, coperta dalla sua abaya nera ci rivela di avere 55 anni, ma non ne è proprio sicura. Ha avuto quattordici figli, ma sette sono morti nel corso della vita, uno era nell’esercito ed è saltato su una mina. Mentre parla tiene d’occhio la carriola perché teme che qualcuno, nella confusione, possa portagliela via. «Quello che spero per i miei figli è che siano felici, che possano avere successo, ma ora tutto quello che renderebbe felice me, sarebbe sapere che ogni giorno possiamo mangiare».

(Credits: Marco Di Lauro/ WFP)
Alla clinica mobile, non troppo lontana, una dottoressa ci confessa che la sera arriva esausta e triste. Vede talmente tanti bambini in tali condizioni che è estenuante. Ha studiato all’università di Herat, fa un lavoro che la fa sentire utile, ma quando pensa che i talebani potrebbero chiuderla in casa come hanno fatto già con molte altre categorie di donne lavoratrici, si sente tremare la ginocchia. Ha appena somministrato un vaccino per la polio a un bambino, un vaccino importante perché l’Afghanistan e il Pakistan sono gli unici due paesi al mondo dove la malattia non è ancora stata debellata. Un’altra dottoressa diagnostica una malnutrizione grave in un bambino di dieci mesi, se non lo portano all’ospedale avrà conseguenze fisiche e mentali, ma la madre non ha soldi per mangiare, figurarsi per le medicine.
29mila pacchi sono stati distribuiti nel mese da settembre e se riusciranno ad aggiungere due distretti a ottobre supereranno i 36mila. Mahghul ha 55 anni e 4 figli, solo uno maschio e ha perso il lavoro: dice che non dorme la notte perché è preoccupata per il loro futuro. Come tutti i genitori che abbiamo incontrato, che sappiano scrivere o no, vogliono che i figli e soprattutto le figlie vadano a scuola. «Non mandarle significa privarle del loro futuro, e non permettere che lavorino significa che non potranno mai migliorare, saranno solo costrette a stare a casa, poi a sposarsi e poi stare a casa». Dice che il marito non vuole mandare le figlie più grandi a scuola, ma lei vorrebbe. Ma non è lei a decidere. Al massimo potrà dare il suo parere sull’uomo che sposerà, mentre per i figli maschi il discorso è più complicato: chi sposerà un ragazzo che non ha niente da offrire?
La famiglia è il centro della vita degli afghani, è la stella polare di una società che ha tentato di aprirsi in questi 20 anni e che ora si trova a richiudersi in sé stessa sotto i dettami dei talebani.

credits: Marco Di Lauro/ WFP
Dall’altra parte della città, un’azienda che produce farina lavora a tutto regime: parte finisce nei mercati, la maggior parte viene infilata nei pesanti sacchi bianchi del WFP. Il manager è molto preoccupato perché a causa della chiusura delle banche non arrivano gli stipendi e rischia di dover fermare la produzione e mandare a casa i suoi 100 operai. Una fabbrica che dopo aver visto il medioevo dei campi, rende l’impressione di stare in futuro distopico, dove tutto viene gestito dalle macchine.
Il 12 ottobre a Roma ci sarà un incontro straordinario del G20 sull’Afghanistan. Si prenderanno delle decisioni su un paese che molti non hanno mai visto, che conoscono più per la produzione della droga, la corruzione o la vittoria schiacciante dei talebani sulle potenze internazionali. Ma l’Afghanistan è molto altro, è il sorriso di Selma che corre nella polvere. Sono le lacrime di Maryam che dice che è tutto quello che le è rimasto. Sono le rughe di Bibi Sarah che raccontano una vita che non ha mai avuto un momento di pace. Ed è anche tutte quelle persone che ti accolgono, che ti tendono la mano, che ti ospitano o ti vogliono regalare una poesia perché è la cosa più preziosa che possiedono. E questa è anche Herat con la sua gente che non ha più niente, però è ricca di forza, di dignità, dove le scarpe buone sono prestate e i veli che incorniciano le teste sono bucati. È il posto dove la ricchezza sono i figli e la povertà è quella delle menti che cercando chiuderli nelle loro case.
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