L’Afghanistan sprofonda nel baratro
Scritto da Barbara Schiavulli in data Novembre 9, 2021
Spazzate via. Tolte di mezzo. Non serve uccidere per cancellare un genere: basta ordinarlo, basta spaventare, basta decidere scientificamente che deve scomparire. E i talebani lo hanno fatto. Sono arrivati come un uragano previsto, ma al quale nessuno è stato in grado di prepararsi. Una catastrofe umanitaria, un virus sociale per il quale non c’erano vaccini. Si guardava l’inesorabile senza volerlo vedere, si sentiva il pericolo che arrivava senza volerlo accettare. E dopo vent’anni… si torna indietro di vent’anni, o forse di secoli: quando il buio era quello delle anime, quando le donne erano streghe, quando la musica era il male e quando pensare era ribellione.
L’Afghanistan oggi è questo: il paese degli ultimi due decenni e il dopo, con quel maledetto 15 agosto che più di un ferragosto è stato un’epifania. La fine simbolica dell’egemonia occidentale sul resto del mondo. La fine dell’emancipazione delle donne afghane, la fine del giornalismo, dei diritti umani, della scuola, dell’arte e della Storia. La fine di una società civile appena nata che ancora si nutriva di lotta, speranze, sogni. Che cosa significa uccidere la speranza se non privare un popolo della sua umanità?
I talebani hanno vinto
Un generale italiano una volta ci disse che le guerre non si vincono più, che si punta alla stabilità di un paese, non all’affondare una bandiera nel campo di battaglia. Ma si sbagliava. I talebani hanno vinto. L’estremismo ha vinto. La manipolazione e gli interessi, che hanno stritolato gli americani e la sua coalizione, hanno consegnato un paese che mai, per un solo attimo, hanno pensato di stabilizzare. Centinaia di migliaia di civili sono morti, sono stati feriti, sono stati traumatizzati. Migliaia di soldati hanno intriso del loro sangue la terra montuosa del “paese degli aquiloni”. Senza contare le organizzazioni umanitarie, i giornalisti stranieri, quelli che hanno tentato e poi sono dovuti scappare.
Le donne invisibili
Ora l’Afghanistan è come un leone ferito, tradito, depresso. Le donne sono invisibili, nascoste nella prigione dei loro burqa rispolverati e tra le mura domestiche che le stritolano. Possono essere solo mogli e madri, nel futuro immediato non ci sono poliziotte, avvocate, giornaliste, imprenditrici. Non ci sono più donne al volante come Hassina, o la capa di un ufficio governativo come Maryam. Non ci sono più registe come Saahra e non ci sono più ristoratrici come Zahra. Non ci sono più donne che fanno sport, come la pugilessa che è andata alle olimpiadi di Londra, non si sono più le cicliste, le attiviste, le politiche, le femministe. Ci sono dei corpi che i talebani cercano di controllare e di cui il mondo fatica a sentire le urla. Ma le donne, ogni giorno, gridano il loro dolore anche se ci vuole molta attenzione per sentirle, sovrastate dalle voci dei negoziati, da quelli che i talebani vogliono vederli parlare, nonostante loro non abbiano nessuna intenzione di farlo se non per ottenere quello che vogliono: riconoscimento internazionale e soldi.
Sono cambiati?
Perché i talebani rispetto agli anni Novanta non sono cambiati, si sono fatti più furbi. Nelle prigioni americane hanno imparato l’inglese e a conoscere il nemico, più di quanto gli americani abbiano mai fatto con loro; tra i corridoi dei servizi segreti pakistani hanno capito come si usa internet e come si organizza un regime. La Repubblica Islamica dell’Afghanistan ora è un Emirato, una dittatura macchiata dagli errori dei paladini della libertà che sono entrati quando volevano e nello stesso modo se ne sono usciti, sulla testa di gente che continua a subire le decisioni altrui che non piacciono a nessuno.
Chi resta
«Ci stanno cercando, ci uccideranno, noi siamo la stampa e per ognuno di noi non c’è speranza», ci dice Abdullah Azim Ahmedai, direttore di Khaama news, una delle principali agenzie afghane. 15 giornalisti sono stati uccisi nell’ultimo anno in Afghanistan, 3 da quando i talebani sono al potere. Molti sono stati picchiati e minacciati. Le donne che lavoravano sono tornate a casa, hanno smesso di raccontare e alcune fingono di non saper scrivere. «Non esco da casa da un mese, solo una volta per andare a fare la spesa», mormora Zahohidi, 21 anni: ha smesso di studiare, tanto a che serve se ora non può più lavorare al giornale? Ora tutti fingono, gli attori si travestono da zelanti musulmani, i musicisti nascondono gli strumenti, gli artisti impacchettano i loro quadri. Perfino i centri antiviolenza sono stati chiusi e le donne che avevano subito violenza dai mariti sono state rispedite tra le loro mani strette a pugni. «Non me ne vado perché ho nutrito le donne nel mio centro con le bugie occidentali per 20 anni, dicevo loro che le loro vite erano preziose e che dovevano lottare, ora quale donna andrà dalla polizia se al posto loro ci sono i talebani?», si domanda Mahboba Seraj, direttrice di un centro antiviolenza e definita dal Time una delle 100 persone più influenti al mondo, almeno fino al 15 agosto scorso. Ora la donna che ha dedicato la vita ad aiutare altre donne vulnerabili, lotta per sopravvivere al terrore talebano.
La cultura
«Forse i reperti storici non sono importanti come una vita umana, ma rappresentano l’eredità di un popolo, per questo sono rimasto per difendere il Museo Nazionale di Kabul», dichiara Mohammad Fahim Rahimi, il direttore, un archeologo di fama internazionale, che sa che sarà rimosso dal suo incarico, ma farà di tutto per non lasciare l’edificio, disposto a diventare anche un semplice impiegato pur di salvare il suo tesoro, il passato che resta degli afghani. Perché l’Afghanistan, crocevia dell’Asia centrale, è stato attraversato da tutti e conquistato da nessuno: quel che resta sono le macerie degli imperi come il nostro, di chi si credeva potente, ma di fatto non era vero, perché senza umanità non si costruisce: si perde e basta.
«Quante storie fate… L’arte, la musica, la scuola, guardate dove siamo arrivati noi e non siamo neanche andati all’università», ci rivela Abdullah Wasiq, vicecapo della commissione cultura del governo talebano. Il suo curriculum “culturale” parla di un inglese imparato nella prigione americana di Bagram e di poesie patriottiche contro gli americani scritte durante la prigionia, e un paio di occhiali che forse lo rendono più intellettuale degli altri, molti dei quali non hanno mai frequentato una scuola tradizionale che non fosse una madrasa, una scuola coranica, dove gli è stato inculcato un Islam rigido e intransigente che non appartiene alla maggioranza dei musulmani. Ma le menti si controllano solo quando sono manipolate e con loro è stato fatto questo. E loro questo faranno, riportando gli afghani indietro nel tempo, a quando nessuno sapeva leggere e scrivere. «Non siamo più gli afghani di vent’anni fa», assicura la gente, che si tratti di un intellettuale o di un povero analfabeta: tutti dicono a gran voce che i ragazzini e le ragazzine devono studiare, ma loro non sanno ancora che se le idee smettono di circolare, muoiono.
Impotenza
Ora i talebani hanno deciso che le donne non studiano dai 12 anni in su, e che non possono lavorare se non nella sanità e nelle scuole primarie. Khadija Hussaini faceva la poliziotta e ora ha paura di morire perché è stata addestrata dalla Guardia di Finanza italiana. Non è riuscita a salire su uno degli aerei della speranza che nelle due ultime settimane di agosto hanno portato fuori 150.000 afghani dal paese perché in qualche modo legati agli occidentali o in estremo pericolo di vita. Ma per tanti usciti, 100 volte tanti sono rimasti e tutti avrebbero diritto a una seconda possibilità come il Charlie Chaplin di Kabul: hanno tentato di ucciderlo già due volte perché è un giovane attore famoso. Non dorme più di due volte nello stesso posto. Oppure Obaid Zazai, il primo modello afghano che dalle sfilate è passato a nascondersi nel magazzino di un amico pieno di roba vecchia. Ci chiede aiuto, come fanno tutti. E l’impotenza di non poter più salvare nessuno pesa come un macigno. Perché la politica si è svegliata un momento nel torrido cielo di agosto e poi si è spenta, si è spenta sulla vita della gente, tra le beghe di casa che sovrastano, forse per convenienza, il dolore degli altri.
Non hanno più lacrime gli afghani che hanno perso tutto. Chi ha lasciato una vita e la famiglia, chi ha lasciato un lavoro che amava, chi ha sepolto i sogni nel cortile di una casa che non vedrà mai più. Non che il governo di prima fosse perfetto, era tutto tranne che questo: corruzione, droga, mala gestione. Ma c’era quel barlume di speranza che permetteva alla gente di andare avanti. Un barlume che quando è stato spento, è sembrato enorme come un incendio.
Il collasso economico
Sarebbe già abbastanza. Ma è ancora peggio. Molto peggio. L’Afghanistan è al collasso economico. Cammina sul ciglio del baratro sprofondando nelle sabbie mobili. Secondo le Nazioni Unite, nel 2022 il 97% della popolazione sarà al di sotto della soglia della povertà, e un milione di bambini rischia di morire di fame. 14 milioni di persone già vivono delle razioni delle Nazioni Unite (50 kg di farina, 4 litri di olio e 1 di sale. Durano due mesi) che, avverte il World Food Programme, smetterà di ricevere se i paesi donatori non forniranno la cifra promessa di un miliardo di dollari per sfamare la gente. Ci sono 550.000 sfollati interni e la gente si sta vendendo tutto, dai tappeti alle culle − si parla perfino di figli e figlie − per poter fare la spesa o tentare di pagare i trafficanti per uscire dal paese. I confini sono pressoché chiusi, nessuno di quelli che lavoravano per il governo o l’esercito riceve lo stipendio da mesi, l’elettricità che proviene da Tagikistan, Uzbekistan e Iran non è stata pagata. Si rischia il blackout perché non c’è denaro.
I talebani che vivono di quello che ricevono da Pakistan e probabilmente Qatar, non hanno abbastanza per gestire un intero paese. Per questo si affannano a parlare con tutti e sperano di essere riconosciuti dal resto del mondo. Di fatto Cina, Russia, Iran che poco si interessano di diritti umani, sono molto socievoli con loro: nello stesso modo in cui Stati Uniti ed Europa hanno fatto i loro comodi, ora è il loro turno.
E altri due fattori sono fondamentali: l’arrivo dell’inverno, che rischia di fare una strage delle persone che non hanno i mezzi per sopravvivere, e l’impatto psicologico di un paese che non riesce a reagire. Gli afghani non si ribellano ai talebani perché 46 anni di guerra, di mine e di bombe, creano un popolo capace di adattarsi e sopravvivere, non di combattere. Altro fattore è la sicurezza. I talebani non sono un movimento compatto, ma fatto di fazioni. Alcune particolarmente intransigenti e potenti come quella di Haqqani, molto vicina ai pakistani ma anche all’ISIS-K e ad al-Qaida che non sempre è d’accordo con il resto della leadership. E poi c’è l’ISIS del Khorasan appunto, ancora più radicale dei talebani, che sta dando filo da torcere sia al gruppo che alla comunità sciita degli hazara spesso vittima dei loro spietati attentati.
A poche settimane dalla presa del potere dei talebani la situazione in Afghanistan è al di là dell’immaginazione: la legge islamica inchioda nella paura la gente e Faiz Zakhi, che ha nascosto i suoi strumenti a casa dopo che il figlio è stato accoltellato dai talebani mentre cercava di portarli fuori dalla scuola di musica dove insegnava, ci chiama e ci dice: «Se non puoi salvare me, salva il mio strumento, salva la musica dell’Afghanistan». Ha le lacrime agli occhi e ci cede la cosa più cara che possiede dopo la sua famiglia: il suo prezioso rubab, una sorta di liuto tradizionale. «Lo riavrai Faiz, te lo promettiamo: non appena la musica tornerà in Afghanistan te lo riporteremo. O forse riuscirai a uscire e verrai a riprendere tra le mani le corde della tua vita».
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