De Lys: “Dopo l’Afghanistan il mondo umanitario non sarà più lo stesso”
Scritto da Barbara Schiavulli in data Novembre 17, 2021
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La situazione in Afghanistan diventa ogni giorno più difficile. L’arrivo dell’inverno sarà il giro di boa di una situazione umanitaria che le Nazioni Unite hanno definito «la peggiore di questo momento». Herve Ludovic De Lys, 63 anni, è il direttore dell’Unicef in Afghanistan, un uomo che da più di trent’anni lavora in contesti difficili dall’Africa al Sudamerica. L’Afghanistan è il suo ultimo incarico ed è forse quello che più di ogni altro lo ha messo alla prova. Perché di fronte al fallimento di un Occidente che non ha saputo aiutare gli afghani, anzi li ha consegnati ai talebani, non è difficile sentirsi impotenti. «Vai a controllare come sta Hassina?», mi ha detto qualche settimana fa, mentre mi trovavo a Herat. Hassina, tre anni era in ospedale perché malnutrita. Quando sono andata io, due giorni dopo, era morta. Me lo ha detto il primario afghano con le lacrime agli occhi. Di Afghanistan si è parlato molto, ma forse è giunto il momento di mettere da parte i massimi sistemi e di parlare apertamente di quello che sta accadendoo in Afghanistan, dove oggi si muore anche di fame. Accadeva anche prima dei talebani, ora accade di più. Incontro De Lys pochi giorni fa a Parigi, sotto un cielo diverso da quello afghano, ma dove le sue preoccupazioni, restano le stesse. Entrambi stiamo per tornare a Kabul, ma prima rilascia a Radio Bullets un’intervista a cuore aperto, forse perché sa che non c’è più tempo.
Che cosa accadrà nelle prossime settimane in Afghanistan?
Non è chiaro. Quello che invece è certo è che l’inverno è arrivato, e l’inverno in Afghanistan rappresenta un momento dell’anno molto difficile per la gente. Questa è l’unica cosa di cui siamo certi, che questa finestra ucciderà molte più persone dell’inverno precedente, perché la capacità di affrontarlo e la resilienza delle persone si è deteriorata con la sospensione dei finanziamenti che riguardavano i settori sociali, l’istruzione, la nutrizione, perfino l’accesso all’acqua e alla sanità nonché alla protezione sociale. Significa che le persone più povere non hanno accesso o non avranno accesso ai servizi base di cui tutti hanno bisogno. Quindi mi aspetto, come ben sai, che questo sia un inverno come quello di Napoleone quando tentò di conquistare la Russia. Questo sarà l’inverno dell’Afghanistan. Il momento in cui si capirà se il paese resterà unito, se ci sarà qualche forma di stabilità o se vedremo migliaia di afghani sul cammino dell’esilio.
Con l’arrivo dei talebani, il lavoro delle Nazioni Unite è cambiato?
La natura del nostro lavoro non è cambiata, intendo dire che quando un bambino è malnutrito, dobbiamo provvedere a dargli da mangiare. No, l’essenza del lavoro non è cambiata. La natura dei bisogni non è cambiata, quello che è cambiato è l’entità con cui ci si confronta per identificare le esigenze, per pianificare gli interventi, per valutare l’impatto dell’intervento. Con le nuove autorità in realtà non sappiamo, per esempio, cosa pensino della valutazione dei bisogni, non sappiamo quale sia la loro percezione o il loro punto di vista dei bisogni delle persone. Sembra qualcosa di molto semplice: mandiamo una squadra, facciamo una valutazione dei bisogni, bene: che succede se ci viene detto di no o se serve ogni volta un mullah con noi per fare una valutazione?
Pensa che i talebani abbiano la percezione dei bisogni delle persone?
Bisogna capire che queste persone hanno combattuto per 20 anni e non sono preparate a gestire uno stato. Stanno imparando e, interagendo con loro, ho capito che qualche volta dobbiamo stimolarli a comprendere come le cose funzionino nel mondo moderno, in particolare nei contesti umanitari. Questa è una cosa. La seconda è che conoscono l’Unicef perché ci siamo relazionati con loro anche prima che prendessero il paese. Abbiamo fatto accordi con loro sull’istruzione l’anno scorso. Ci hanno visti vaccinare i bambini nei villaggi, portare l’istruzione di base e questo sicuramente ci ha aiutato. Ma questo non vale per molte ONG. Vale per quattro agenzie delle Nazioni Unite e con loro abbiamo imparato a camminare lungo una fragile linea di confine. È una nuova entità, un nuovo attore arrivato sul palco così velocemente che nessuno era veramente preparato a provare a lavorare con loro, quindi stanno imparando. Stiamo imparando.
Perché nessuno era preparato, si sapeva che sarebbero arrivati?
Tutti lo sapevano, vero, ma penso che nessuno abbia davvero valutato il livello di fragilità dello Stato dell’Afghanistan, credo che nessuno abbia capito la velocità con cui il morale della gente è precipitato, sai, un uomo o una donna con una pistola, senza morale, non è un combattente. Per essere un combattente non serve solo un arma ma il morale per farlo. E forse anche per questo tutto è collassato velocemente. In Afghanistan il quadro di sviluppo è crollato in poche settimane. Il quadro di sicurezza è crollato allo stesso modo. Il quadro politico non ha mai funzionato. Quindi ciò che ha funzionato e funziona davvero è il quadro umanitario. Ed è per questo che ora tutti gli attori internazionali stanno guardando alla comunità umanitaria per fornire supporto al popolo afghano. Il problema che vedo all’orizzonte, come membro di vecchia data della comunità umanitaria, è che l’attività umanitaria non riguarda la costruzione di uno stato. Non siamo qui per costruire un nuovo stato. Siamo qui per rispondere ai bisogni delle persone mentre altri dovrebbero lavorare con loro per costruire un sistema politico. L’ex stato è andato. Il governo e lo stato democraticamente eletti non ci son più. La costituzione precedente è andata. E dunque, chi scriverà una nuova costituzione? Chi farà prendere loro decisioni politiche che siano significative e rispettose dei diritti umani, dei diritti delle donne, dei diritti dei bambini? È responsabilità del popolo politico e della comunità internazionale. Il rischio che vedo arrivare è l’attrazione per i tanti soldi che sono in ballo. Sai, stiamo parlando di centinaia di milioni di dollari, potremmo davvero perdere le nostre anime. Vedo l’Afghanistan come un serio rischio per il ruolo dell’assistenza umanitaria. Il mondo umanitario non sarà più lo stesso dopo l’Afghanistan. Perché l’Afghanistan ha sfidato, ha scosso, ha dimostrato che il tradizionale quadro umanitario non funziona più in questo tipo di contesto.
Ritiene che le organizzazioni umanitarie che sono state costrette ad andarsene, potranno tornare?
Per me queste sono modalità operative. Potranno tornare finché il rapporto tra i talebani e la comunità umanitaria sarà transazionale. È una relazione transazionale. Non dobbiamo ingannare noi stessi. Voglio dire, hanno bisogno di noi e quindi stanno creando lo spazio per noi per operare. Prima si torna, maggiori sono le possibilità che abbiamo modo di diventare davvero rilevanti. Non per i talebani, ma per il popolo afghano ovviamente. I talebani hanno interesse che il popolo afghano resti immobile per essere stabili. Che riceva il minimo di cui ha bisogno. Quindi se non torniamo ora, e molte ong stanno tornando, si perderà qualcosa. Di solito le Nazioni Unite sono la prima ad andarsene, ma non questa volta. Questa è stata una grande lezione. È raro che nel pieno di una crisi umanitaria le organizzazioni non governative se ne vadano e le Nazioni Unite restino.
Vero, di solito l’Onu è tra i primi ad andarsene.
Di solito, sì. Ma l’Afghanistan è stato un caso molto particolare. Sono orgoglioso di essere stata una delle persone che ha detto, «no, io non me ne vado». E per questo non ce ne siamo andati, perché alcuni di noi, hanno detto no. C’è stato un meeting sulla sicurezza all’Onu e ci è stato chiesto di lasciare: noi di UNICEF siamo stati i primi a rispondere che non saremmo andati da nessuna parte. «La squadra resta qui», ho detto. E quel giorno abbiamo cambiato il corso della Storia. Perché pochi di noi internazionali, abbiamo detto «non andiamo da nessuna parte».
In quei giorni si combatteva, mi ricordo a Herat, vicino al vostro compound.
Il complesso dell’UNICEF non è mai stato colpito, il compound del WFP non è mai stato colpito, non bisogna fare confusione tra la missione politica delle Nazioni Unite e gli operatori umanitari delle Nazioni Unite: noi siamo umanitari ed è questo che abbiamo detto alla missione politica delle Nazioni Unite, quel giorno, «non andiamo da nessuna parte». Non siamo qui perché lo hanno voluto alcuni stati. Siamo qui perché tutti gli stati delle Nazioni Unite lo hanno scelto. Non ci basiamo sulle risoluzioni del Consiglio per la sicurezza, ma su quelle basate sull’Assemblea Generale, e in base a questo ho preso la mia decisione e siamo rimasti.
A questo punto, di cosa ha bisogno l’Afghanistan?
Ciò di cui l’Afghanistan ha bisogno ora è probabilmente una comprensione molto più chiara dell’agenda politica, che deve essere slegata da quella umanitaria. Gli afghani devono sopravvivere, hanno bisogno di cibo. Di acqua. Hanno bisogno di avere accesso a servizi sanitari. Abbiamo bisogno delle cose basiche per sopravvivere.
C’è una stima di quante persone moriranno se nessuno li aiuterà?
Non valutiamo quante persone potrebbero morire, valutiamo quante persone hanno bisogni per sopravvivere. Oggi più del 60% degli afghani si trova in una grave insicurezza alimentare. E quello che il mondo deve capire è che prima del 15 agosto non avevamo accesso a circa il 60% del territorio a causa dei talebani, a causa del conflitto, e non potevamo intervenire. Paradossalmente ora sì. Questo perché se ti spostavi da un’area controllata dal governo a un’area controllata dai talebani eri sospetto, ed eri sospettoso anche tu. Quindi non si riusciva e non si poteva intervenire. Ora invece i movimenti sono possibili, le persone si stanno spostando attraverso l’Afghanistan, famiglie di Herat porteranno il loro bambino a Kabul perché è malato o hanno la nonna malata. E con le persone che si spostano, stiamo assistendo a un aumento di bisogni. E se parlo solo per l’Unicef, le nostre richieste riguardavano $ 200 milioni nel 2021. Nel 2022 sarà probabilmente di $ 1,3 miliardi. Perché le esigenze sono notevolmente aumentate anche per la sospensione dei fondi internazionali. Tutto era gestito dal governo che riceveva soldi dalla comunità internazionale, che oggi non può darli ai talebani. E insieme ai bisogni, per noi è aumentata anche la responsabilità di rispondere ai bisogni delle persone. Il popolo afghano ha bisogno che si intervenga. E ripeto, l’agenda ideologica politica deve essere scollegata dall’agenda umanitaria. Il mondo deve capirlo. I bambini dell’Afghanistan non fanno alcuna differenza tra pro e anti talebani: come dico spesso, i proiettili non fanno differenze tra persone e persone, i proiettili uccidono.
Vero, ma conta anche chi lo spara il proiettile.
Giusto. È vero. Ma quello che vorrei dire è che quando c’è un disastro naturale, l’acqua non fa differenza se sei del partito al governo o di quello all’opposizione. L’acqua può uccidere. I missili uccidono. Non dicono no, non dicono non colpirò quei bambini perché sono dei talebani. Il colera uccide qualunque sia la tua ideologia, o qualsiasi cosa tu creda. È il momento in cui dobbiamo focalizzarci sul modo in cui aiutare il paese. Mentre parliamo, ora, in Afghanistan da qui alla fine dell’anno, circa 20.000 donne avranno bisogno di un taglio cesareo per partorire. Possiamo discutere sul motivo per cui sia rimasta incinta, sulla contraccezione, ma la linea di fondo è che se non otterrà il cesareo, morirà. Punto. Le ragioni andranno discusse, ma quello su cui ci dobbiamo concentrare in questo momento, per dare senso a questa assurdità, è che le persone hanno prima di tutto diritto di sopravvivere. Chi siamo noi per decidere chi muore o chi vive?
È per questo che continuiamo anche quando qualcuno ci dice che dovremmo sospendere l’assistenza umanitaria, fino a quando i talebani non accetteranno alcune condizioni. Il diritto alla vita è il più fondamentale dei diritti umani. E da qui dobbiamo partire.
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