Cecilia Sala: fuori subito
Scritto da Barbara Schiavulli in data Gennaio 3, 2025
BEIRUT – È qualche minuto che fisso la pagina bianca dello schermo del computer nella mia stanzetta in Libano. Dovrei scrivere un pezzo sulle donne in Siria e sulla preoccupazione che le nuove autorità islamiche possano trasformare il paese in un posto dove hanno meno diritti di quanti ne avessero prima.
Ma ieri sera un’amica di Radio Bullets ha mandato un messaggio dicendo “Ma noi della Sala non scriviamo niente?”. Non è la prima volta in questi giorni che qualcuno abbia chiesto la mia opinione e la mia risposta è stata sempre un evasivo “No comment”.
Al massimo mi sono spinta a dire che la faccenda ha ben poco a che vedere con il giornalismo in sé, è una persona che si è trovava al posto sbagliato nel momento sbagliato e il danno è fatto.
Ma poi sono una che rimugina continuamente e quando il tarlo mi entra in testa, l’unico modo per farlo uscire è scrivere.
Premetto, la mia opinione non conta nulla, se non per il fatto che faccio questo mestiere da quasi tre decenni in zone di guerra. E premetto un’altra cosa, Cecilia Sala non fa parte del giornalismo in cui credo, ma anche questo è irrilevante.
Non stiamo parlando di contenuti, ma di fatti che coinvolgono una persona in pericolo. Una famiglia preoccupata. E due paesi.
In tutta questa storia quello che uno fa e come lo fa non c’entra niente. Non sono nessuno per giudicare i colleghi.
Quindi non mi strapperò i capelli per dire che una persona deve essere salvata perché è brava, bella o giovane. O per il contrario di questo. Ma posso condividere una riflessione su quello che vedo e leggo, scorrendo i social, parlando con gli amici e ragionando su quello che dovrebbe fare la politica quando il problema è di fatto politico.
Una cittadina in pericolo
C’è una cittadina italiana che per ragioni di lavoro si trova in un posto, è stata catturata non perché ha commesso un reato, ma perché nel proprio paese è stata arrestata una persona che invece ha commesso un reato.
Che Cecilia sia una giornalista donna è la ciliegina sulla torta per gli iraniani, ma fino a prova contraria non è un crimine, almeno e per ora in Italia.
Quello che lei abbia detto o fatto in passato, penso alla frase sui marò, o sul genocidio a Gaza, o dalla famiglia dalla quale proviene non conta niente. Poteva dire che la terra era piatta e comunque non sarebbe contato niente.
E lo dico per quei mentecatti che sui social fanno migliaia di visualizzazioni attaccando una persona che non può difendersi, che è sola in una cella e che non sa cosa sta succedendo fuori. E che spero, quando tornerà, gli risponderà come meritano.
I social, tanto utili per certe cose, sono un lago di melma per tutti quelli che, comodi dal divano di casa, si permettono di giudicare qualcuno che si espone cercando di fare il proprio lavoro nel mondo in cui pensa funzioni o sia giusto fare.
Il punto è come tirarla fuori nel pieno di una politica stagnante e poco umana, non che negli anni precedenti sia stata meglio, mi viene in mente Antonio Russo, Enzo Baldoni, Andrea Rocchelli, solo per citarne alcuni, tutti colleghi letteralmente abbandonati, perché i freelance valgono un po’ meno di quelli assunti, perché non hanno giornali alle spalle, che anzi sono i primi a mollarti – e parlo per esperienza – se succede qualcosa.
Vi do una notizia, i freelance oggi sono la maggior parte dei giornalisti e sono, a mio parere, la parte migliore del giornalismo, perché se fanno questo mestiere è perché hanno qualcosa dentro che li spinge a continuare a farlo nonostante i sacrifici, le cene saltate, i giornali che non pagano i pezzi e le stupidaggini che tocca ingoiare di quelli che non escono mai da una redazione.
D’altra parte, ci sono anche un sacco di improvvisati che i giornali hanno foraggiato perché pagano poco, perché gli interessa far vedere che qualcuno è sul posto, piuttosto che della persona stessa; gente che magari non sa neanche scrivere, “ma chi se ne importa, lui è lì”.
Se fossimo un paese dove la qualità fa da filtro, ci sarebbero molti meno giornalisti e giornali, ma non è il caso, secondo me, perché negli ultimi 30 anni è stata soffocata la capacità delle persone di ragionare, di sviluppare il senso critico, ma non è di questo che stiamo parlando.
Torno a Cecilia e alla mancanza di una politica adeguata. Cosa succede quando un cittadino italiano viene arrestato per ragioni che non sono legate alla giustizia? Suppongo ci debba essere un protocollo.
Suppongono si debbano subito sollevare delle bandierine rosse di pericolo. E invece no, un silenzio assordante, non solo da quelli che fino a ieri urlavano prima gli italiani, ma anche da parte della gente.
Dove siete?
Dove sono i calciatori che si scrivono i nomi sulla maglietta? Gli striscioni che scendono dai balconi dei comuni? Le fiaccolate?
Dove è la gente, appunto? Dove sono i 400 mila follower che mettono i “mi piace”, invece di uscire di casa a difendere la loro beniamina. Vi serve l’indirizzo dell’ambasciata iraniana dove andare a manifestare? È su google map nel caso i smanettoni dei social non lo sapessero.
E noi giornalisti? È stato organizzato qualcosa? L’Ordine si è preso in carico di sentire quale sono i progressi della politica, dopo tre settimane mi sembra tutto fermo.
Che cosa andrebbe fatto?
Penso che le persone in pericolo si salvino a qualsiasi costo, che non c’è un prezzo troppo alto da pagare se si tratta di aiutare una persona. Che stia affogando in mare, che stia scappando, che sia in difficoltà. Sempre senza se e senza ma.
Chi lavora in contesti di guerra, dovrebbe avere una corsia di emergenza, che si tratti di un medico a Gaza, di un’operatrice umanitaria in Africa o di una giornalista in Iran.
Non stanno sciando fuori pista o buttandosi nella gola del vulcano per provare un po’ di adrenalina, stan lavorando. E alcune professioni sono pilastri della democrazia. Si fa per preservare e migliorare la società civile.
E nel caso di un giornalista, che ci piaccia o no, lo si aiuta perché crede che raccontare una storia sia un modo per rendere il mondo un posto migliore, o per denunciarlo, o per dare voce a chi non ce l’ha. E di questo ogni società civile sana ha bisogno.
E non credete che sia così naïve da pensare che non ci siano persone che lo fanno per un po’ di fama, o per soldi, o per andare in tv, o per imporre un’idea, ma francamente prima li aiuto e poi possiamo anche litigare su quello che si pensa davanti ad un tè caldo, vigliacco criticare quando qualcuno è in pericolo.
Perché questo fa un paese che protegge i propri cittadini.
Detto questo, che fare oltre a scendere in piazza e ricordare alla politica che è la gente che comanda, non viceversa?
Bisogna trovare una soluzione politica perché entriamo i massimi sistemi. Non basta dare agli iraniani quello che vogliono perché, altrimenti, ogni persona che prende un aereo per l’estero sarebbe a rischio.
Consegnerei il trafficante d’armi?
Dipendesse da me, sì, ma con delle conseguenze verso il paese dopo che lei è stata liberata. Sanzioni, boicottaggio, chiusura dei rapporti diplomatici e finanziari, tranne per tutto quello che riguarda l’aiuto umanitario alla diaspora dissidente.
Farei l’ira di Dio. In un momento in cui politicamente l’Iran è più fragile, lo userei, lo farei per la Sala ma anche per rispetto di tutte le persone che abbiamo accolto di quel paese bellissimo e vivono in mezzo a noi.
Altri paesi lo fanno, perché noi no? A che servono i politici, se non sanno fare politica? A che servono i diplomatici se non sanno trattare i problemi diplomatici?
Lo so che non è semplice, ma le soluzioni semplici non esistono quando qualcosa non va bene.
Mi ricordo quando decisi di tornare in Iraq dopo il sequestro della Sgrena, la Farnesina mi disse che mi avrebbero rapita, che mi avrebbero rovinato la reputazione (come se ce l’avessi avuta), che non avrebbero mai pagato un riscatto per me.
Più mi dicevano che non dovevo fare il mio lavoro, e più andavo. Più mi hanno fatto perdere collaborazioni, spaventando i direttori, più tornavo, perché noi non scriviamo per la politica, per la fama o per finire in televisione, ma per chi ci legge e per chi ci parla.
Perché non c’è niente di più forte che ci spinge ad alzare il sedere ad andare in un posto difficile e a raccontarlo. È il motivo per oggi sono Libano e ieri ero in Siria, perché penso che le persone del mio paese abbiano il diritto di essere informate.
È rischioso? A volte più di altre, ma lo si fa perché ci si crede, come il vigile del fuoco si butta in un incendio a salvare un koala in Australia. Ce ne sono tanti di koala, si potrebbe lasciar perdere.
Eppure, si fa, perché è nell’istinto umano, quello stesso istinto che per qualche ragione molti finiscono per perdere, ma che questo mestiere ci costringe a coltivare dentro come una malattia.
Lo vedo con Gaza, l’ho visto nella prigione delle torture di Sednaya in Siria di cosa è capace di diventare l’uomo, ma questo mestiere è un anticorpo per le società civili.
Per questo Cecilia dovrebbe essere una priorità politica. Per questo dovrebbe essere tirata fuori subito. E siamo già in ritardo.
Per quanto il giornalismo di Cecilia Sala sia lontano dal mio, capisco cosa la spinge e lo difendo, dagli imbecilli che hanno perso un’occasione per stare zitti, dalla politica che dovrebbe parlare e invece spera che tutto si risolva da solo, e da chi non ha il coraggio di scendere in piazza come non ha fatto in tante altre occasioni che si trattasse di un Zaki, di un Assange o anche di una persona che avesse bisogno d’aiuto.
E come diceva un caro giornalista ucciso a Gaza, Vittorio Arrigoni: restiamo umani.
La foto di copertina è stata generata con l’intelligenza artificiale
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