Di Pangani ricordo la notte

Scritto da in data Aprile 25, 2019

 

Se penso a Pangani, penso alla notte profonda: ho in mente una scena precisa, di me che tento di manovrare una bicicletta nel buio, circondata da gente in festa, la festa del sacrificio. Penso alla notte nel buio a cena, su un tavolino basso davanti a una casa, con cibo buono. Il buio dell’usuraio in giacca e camicia nere, il buio della schiavitù. Se penso a Pangani, penso anche alla terra rossa delle piantagioni di sisal, al lodge lilla, all’azzurro dell’Oceano intorno all’isola effimera, che dura il tempo della bassa marea, per poi sparire inghiottita dall’acqua. Penso al braccialetto della tribù Iraqw di Babati, che indosso ancora, ai dhow che durano 70 anni. Penso all’India dei samosa e dell’architettura, ai tedeschi, a un cinema in disuso e a chi si perde nell’Oceano.
Eleonora Viganò per Radio Bullets.
Photo credits: Eleonora Viganò

Di Pangani mi ricordo il buio. Non è la sola cosa della città e non di certo la più bella, ma se penso a Pangani – al di là di tutte le esperienze vissute in quel villaggio – mi torna in mente la notte, quindi il buio attraversato dalla mia bicicletta traballante e senza luce – alla fine Judah mi ha ceduto la sua – e nel buio c’era una folla di gente che per fortuna non stava in silenzio ma schiamazzava, parlava e rideva proprio come a una festa. Perché era una festa: quella musulmana del sacrificio grazie alla quale ho potuto gustare ottimo cibo nelle strade davanti alle case, su piccoli e bassi tavolini al buio.
La sonnolenza, le strade polverose e assolate e la pigrizia del giorno lasciavano spazio alle donne intente a vendere samosa e leccornie sul ciglio della strada, a famiglie che camminavano costeggiando il fiume Pangani – la sua acqua parte dal Kilimanjaro e va a trovare l’Oceano dopo 400 km –, a bambini che giocavano. Io stavo arrivando con Judah dall’altro lato del fiume: si prende un traghetto malmesso, che non sempre funziona e che a volte sta fermo per qualche guasto. La bici l’avevamo lasciata attaccata alla banchina sul fiume; mentre di là il giro lo avevamo fatto su una moto.

Di Pangani ricordo anche il viola. Il lodge per cinque dollari a notte aveva i muri viola ed era vicino al centro piccolo e raccolto di Pangani. L’uomo che lo gestisce è meticoloso e preciso. Sunrise Lodge è lenzuola fresche ogni giorno ed è accoglienza muta, fatta di poche parole inglesi come bicycle, swimming, beach e di miei “asante”.
Non ricordo come lo avessi trovato: forse mi aveva aiutato un autista di boda boda. Parlava l’inglese a spizzichi ma è stata la persona della quale mi sono più fidata, mentre ero lì. Mi ero recata all’ente del turismo dove purtroppo non c’era nessuno fino a che non ho conosciuto Judah e poi Ali Rasta. Judah è ancora una guida, sta facendo pratica. Mi ha raccontato tutta la sua vita fatta di affidi, andirivieni, piccola criminalità, orfanotrofi e finalmente una nicchia, una famiglia, un riscatto. Mi ha portato a vedere dove vorrebbe costruire un lodge per i turisti, come vuole dividere gli spazi: «sarà pronto a dicembre» mi dice, «devi venire». Tornando indietro, mi guarda: «prendiamo la scorciatoia». Resta in silenzio e ci pensa: «nella vita la scorciatoia non va mai bene». Ali Rasta, invece, mi ha fregato per bene chiedendomi più soldi del necessario: non è più una guida, beve troppo, non è affidabile. Ricordo invece suo cognato – se non sbaglio parentela – che mi ha accompagnato per il villaggio in una visita guidata quasi improvvisata, sul tardi verso il tramonto e di lui ricordo il suo negozio di sarto.

Di Pangani ricordo le piantagioni di sisal e la terra rossa attraversata in bicicletta: 16 km per andare a Ushongo e altrettanti per tornare. Sulla spiaggia lunga, di alghe e oceano fangoso – ma bella, bella davvero – ho respirato con il rumore delle onde, insieme a qualche famiglia in festa. Una famiglia di sudafricani, più pallidi e biondi di me, stava viaggiando dallo scorso novembre con tre bambini; mentre l’autista 23enne di una coppia olandese mi ha regalato un braccialetto della sua tribù di Babati dicendomi: ora sei anche tu della tribù Iraqw.

Ricordo l’India, di Pangani. Il giro per il villaggio mi ha permesso di osservare gli echi dell’India nelle costruzioni, il Boma tedesco, le moschee – quelle storiche e un po’ malmesse, quella attuale e rifatta – c’era un cinema una volta: ora è una struttura in disuso e abbandonata. Ricordo i racconti della schiavitù, presenti spesso nelle città o nei villaggi che danno sull’Oceano. A Pangani ricordo il rosa salmone della mia camicia comprata in urgenza, perché ero senza vestiti puliti. Ricordo le pedalate da sola, un locale che era un punto di riferimento.
Una di quelle sere siamo andati a bere qualcosa al “Seaside center”, una guesthouse-bar gestita da cristiani, sulla spiaggia. Un uomo ci ha invitato al suo tavolo.
«È ricco. Il più ricco del paese» mi dice Judah. Distolgo lo sguardo.
«Lui presta i soldi alle persone che devono poi restituirne di più in un certo tempo. Se non li hai, ti prende qualcosa: auto, casa…».
«Ma, qui, è legale?», candida io, che lo chiedo così, senza pormi problemi.
Il suo amico ha iniziato a ridere, dicendomi che lo è.
«Dice che è contento che tu sia in un posto perbene» mi riferisce Judah.
La giacca e la camicia nere mi ipnotizzano. Ho ringraziato e ce ne siamo andati, lasciando un tavolo cosparso di cadaveri di birre Kilimanjaro e Safari, non nostre.
Judah mi dice che quando sarà ricco aiuterà la gente non con i soldi ma con l’opportunità di farli. Con l’educazione. «Non come lui, vero Judah?».
«No, no. Non come lui ma come hanno fatto con me».

Di Pangani ricordo anche la lingua di sabbia effimera: l’isola di Maziwe che esiste solo con la bassa marea, raggiunta su un piccolo dhow fatto di legno di mango, con la vela sporca, ingiallita dall’uso e rattoppata, con il grasso di delfino che riempiva le fessure, e Judah e poi tutti noi che buttavamo fuori l’acqua: eravamo in troppi su quel dhow. Costa mille dollari nuova e dura 70 anni.
«Qui non abbiamo i radar» mi dice un pescatore «qui usiamo la mente e l’esperienza per orientarci. E ogni tanto qualcuno si perde per giorni nell’Oceano».

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Vi ricordiamo inoltre che potete ascoltare il nostro notiziario quotidiano, a cura di Barbara Schiavulli, Paola Mirenda e Cecilia Ferrara con i Balkan Bullets.

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