Le catene globali del valore e il futuro della globalizzazione

Scritto da in data Giugno 29, 2021

Come funzionano le catene globali del valore e quale sarà il futuro della globalizzazione?

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Le catene globali del valore

Nel podcast precedente abbiamo visto come la nuova fase della globalizzazione, iniziata negli anni Novanta, abbia portato anche a una nuova modalità di organizzazione della produzione industriale lungo quelle che sono state chiamate “catene globali del valore”.

In pratica le aziende, soprattutto quelle medie e grandi, non hanno più come riferimento il mercato nazionale ma quello globale. Questa situazione nuova ha delle conseguenze di grande importanza nell’organizzazione aziendale. A livello commerciale significa che le aziende andranno a cercarsi clienti non più soltanto sul mercato nazionale ma a livello globale: dovranno quindi internazionalizzarsi, imparare a esportare, a conoscere nuovi mercati e a muoversi su quei mercati, ad adattare i loro prodotti alle esigenze dei consumatori di quei mercati. Ma ci saranno anche conseguenze a livello produttivo. Le aziende non hanno più la necessità di concentrare la produzione in grandi stabilimenti con migliaia di lavoratori, controllando direttamente ogni fase di lavorazione. Quel che accadrà sarà una sorta di destrutturazione delle catene produttive che verranno spezzettate e in buona parte esternalizzate, cioè portate fuori dall’azienda e dai suoi stabilimenti e sparse in un territorio più ampio che è ormai il mondo intero.

Le aziende, quindi, potranno ottimizzare ogni singola fase di produzione andando alla ricerca del fornitore più efficiente e meno costoso su base planetaria.

Questo tipo di processi non avviene però soltanto per i prodotti tecnologicamente avanzati e complessi ma avviene, ormai, anche nell’agroalimentare o nel settore dei servizi. Pensiamo, per fare un esempio, a un cioccolato prodotto in Italia che utilizza cacao proveniente dal Sudamerica, olio di palma proveniente dall’Indonesia, nocciole provenienti dalla Turchia, latte proveniente dalla Germania.

Pensiamo, nel settore dei servizi, a un operatore telefonico che vende telefonini prodotti in Cina o negli Stati Uniti, utilizza software prodotti da aziende italiane e delocalizza i call center per l’assistenza ai clienti in Albania o in Romania.

Quindi si tratta di un fenomeno che investe tutti i settori produttivi, anche se con intensità diverse.

Le implicazioni delle catene globali del lavoro

Ma quali sono le implicazioni di questo nuovo modo di organizzare la produzione? Una prima implicazione l’abbiamo potuta constatare durante la pandemia da coronavirus.

Nel 2020, di fronte all’emergenza sanitaria, ci rendemmo tutti conto che prodotti essenziali − dalle mascherine ai reagenti per fare i tamponi, ai macchinari per le terapie intensive − non si riuscivano a trovare perché ormai, da anni non venivano più prodotti nel nostro paese o negli altri paesi europei ma ci venivano fornite in prevalenza da paesi asiatici, in primo luogo la Cina.

Quindi una prima conseguenza è che i singoli paesi non sono più in grado di essere autosufficienti nel rifornimento di gran parte dei prodotti industriali, e non solo industriali. Siamo tutti interdipendenti, siamo legati gli uni agli altri da una rete fittissima di scambi commerciali.

Ma l’altra conseguenza è che queste catene globali del valore sono molto fragili. Di fronte a una crisi, per esempio una pandemia, quelle catene si possono spezzare con conseguenze che si ripercuotono su tutto il mondo. Facciamo un esempio pratico. All’inizio del 2020, quando scoppiò l’epidemia in Cina e l’intera regione di Wuhan fu sottoposta a una quarantena rigidissima, ci furono conseguenze pesanti per un’azienda come la Apple che in quella regione della Cina ha suoi stabilimenti produttivi e diversi fornitori. La produzione fu bloccata per alcuni mesi e si dovette rimandare l’uscita di nuovi prodotti.

Ma anche l’industria automobilistica ha avuto contraccolpi pesanti. Il 40% della produzione della Volkswagen, per esempio, avviene in Cina. Quindi se gli stabilimenti che producono componentistica per il settore automobilistico restano chiusi in Cina a causa di un’epidemia, si ferma la produzione anche in Europa e nel resto del mondo.

Ma c’è una seconda implicazione di carattere sociale. La destrutturazione della produzione implica inevitabilmente una destrutturazione anche del sistema delle relazioni industriali.

Se le aziende hanno la possibilità, senza vincoli di alcun genere, di delocalizzare le loro produzioni o fasi importanti di esse, in qualunque altro paese, questa diventa un’arma potentissima che può essere usata per ragioni economiche. Come abbiamo già detto, costa di meno produrre in Cina o da qualunque altra parte e quindi per aumentare la produttività e i profitti delocalizzo. Si tratta di un’arma che può essere utilizzata anche per ragioni diverse, come indebolire le organizzazioni sindacali dei lavoratori: chiedete aumenti di salari e più diritti, per l’azienda quelli sono maggiori costi e quindi preferisco delocalizzare tanto nessuno me lo può impedire; o ancora, per ricattare i politici eletti e i legittimi governi di un paese: se non mi concedete incentivi, sgravi fiscali, riduzione dei costi energetici, esenzioni varie, sapete che faccio? Vi chiudo uno stabilimento che dà lavoro a migliaia di persone e delocalizzo, e voi perdete consensi e voti e correte il rischio di non essere rieletti alle prossime elezioni. La globalizzazione ha quindi amplificato la possibilità per il capitale di muoversi liberamente, ma questa mobilità geografica ha dato al capitale la possibilità di superare quei vincoli normativi e istituzionali che, almeno nei paesi occidentali, avevano regolato l’attività economica e avevano creato nel corso dei decenni, un sistema di tutele e di diritti per i lavoratori.

Regolare il conflitto di classe a favore del capitale

La globalizzazione e l’organizzazione produttiva lungo le catene globali del valore sono servite, se vogliamo usare una terminologia marxista, per regolare il conflitto di classe a favore del capitale. Se non vi piace la terminologia marxista usate termini che meglio si adattano alla vostra visione del mondo, ma la sostanza della questione non cambia. L’operazione ideologico-culturale che è stata fatta negli ultimi decenni è stata quella di presentare le regole del mercato come regole sistemiche, immodificabili, che rispondono a logiche astratte e superiori: i mercati, l’efficienza, la produttività e la politica non ha più alcuna possibilità di influenzare quelle regole. Ai lavoratori e alle loro organizzazioni come alle piccole realtà economiche, le piccole imprese, gli artigiani, le piccole attività commerciali, non resta altra possibilità che adeguarsi a quelle logiche senza discutere. Da un lato si tengono buoni i lavoratori esercitando uno straordinario potere di ricatto: se non vi sta bene quello che vi diamo delocalizziamo e voi perdete il lavoro e quindi il reddito. Non c’è discussione, non c’è dialettica, c’è la logica del “prendere o lasciare” e i sindacati possono soltanto contrattare le condizioni della resa. Dall’altro lato l’accentuarsi dei processi di concentrazione del capitale, a seguito dell’aumento della competizione capitalistica e dell’alternarsi in tempi sempre più ravvicinati di fasi di crisi che mettono fuori mercato le piccole attività e che devastano i ceti medi, accentuano la polarizzazione sociale, la differenza tra una piccola oligarchia di ricchi e il resto della popolazione che fa sempre più fatica a condurre una vita dignitosa. In realtà dietro quelle grandi aziende, dietro astratte e articolate entità giuridiche ci sono persone fisiche con interessi concreti e quando in un qualsiasi gioco, anche quello economico, c’è chi ci guadagna e chi ci perde, chi si arricchisce e chi si impoverisce, chi diventa più potente e chi diventa sempre più impotente, di oggettivo e di neutrale, in quel meccanismo, non c’è proprio nulla. Il problema non è più soltanto economico ma diventa un problema politico.

Di situazioni simili ne abbiamo viste a decine negli ultimi anni in Italia come anche in altri paesi.

Torniamo un attimo alle catene globali del valore per comprendere meglio alcune altre implicazioni.

La situazione italiana

L’Italia ha un grado elevato di coinvolgimento delle sue imprese nelle catene globali del valore, come accade anche agli altri paesi economicamente più avanzati. Ma se facciamo un raffronto, per esempio con la Germania, si nota una differenza non secondaria. Entrambi i paesi hanno all’incirca i due terzi delle loro aziende coinvolte nelle catene globali del valore ma con rapporti diversi. Le imprese italiane per il 65% sono imprese fornitrici e soltanto per il 35% imprese finali, cioè aziende che vendono prodotti finiti. Per la Germania il rapporto è ribaltato, i due terzi sono aziende finali che vendono i loro prodotti sul mercato finale e soltanto un terzo sono aziende fornitrici.

Qual è la differenza? Innanzitutto le aziende fornitrici sono − generalmente, non sempre − meno produttive di quelle finali e inoltre, in caso di crisi, le aziende fornitrici sono più fragili, anche perché solitamente la loro produzione è concentrata su un unico prodotto o su una gamma molto limitata di prodotti o perché hanno come cliente un’unica azienda leader o poche aziende. Per quel tipo di imprese si verifica, in caso di crisi, il cosiddetto “effetto frusta” cioè variazioni nella domanda finale di un prodotto causano variazioni ancora più ampie nella domanda di beni intermedi che servono alla produzione di quei beni finali.

Dopo la crisi del 2008 l’Italia subì effetti più devastanti rispetto alla Germania, sia a causa di politiche economiche sbagliate, la famigerata austerità, ma anche perché le imprese italiane, in buona parte imprese fornitrici nelle catene globali del valore, impiegarono più tempo per riprendersi rispetto a quelle tedesche.

Un altro fatto importante che la ricerca economica ha dimostrato ormai ampiamente è che la partecipazione alle catene globali del valore ha un effetto positivo per le aziende e per i paesi coinvolti. Diversi studi hanno riconosciuto che i paesi che partecipano alle catene globali del valore hanno una crescita del loro reddito superiore rispetto a quelli che non vi partecipano. Quindi essere inseriti nelle catene globali del valore è importante per i paesi emergenti che avranno migliori opportunità di crescita economica. Ma è importante anche a livello aziendale, quindi a livello microeconomico, perché le imprese avranno un aumento di efficienza, una crescita della loro produttività, perché riescono a sfruttare economie di scala, a specializzarsi e a minimizzare la gestione delle scorte.

Inoltre, effetto anche questo importante, le catene globali del valore diventano un canale di apprendimento di competenze tecniche, organizzative, manageriali. Le aziende leader spesso stimolano i fornitori richiedendo standard di qualità più elevati e condividendo conoscenze e tecnologie che favoriscono una maggiore efficienza. Quindi le aziende fornitrici possono anche risalire lungo le catene del valore ed essere gradualmente coinvolte nelle fasi strategiche della produzione.

Una terza implicazione, anche questa importante, è che ci sono in sostanza due tipologie di catene del valore. Ci sono le catene guidate dal produttore nelle quali l’impresa principale, l’impresa leader, mantiene una sia pur minima capacità produttiva e ci sono poi le catene guidate dal compratore nelle quali l’impresa leader può essere addirittura un’azienda senza fabbrica. Le prime, le catene guidate dal produttore, emergono soprattutto nei settori ad alta intensità di capitale, per esempio quello automobilistico, elettronico o metalmeccanico.

Le catene guidate dal compratore sono invece tipiche di settori a maggior intensità di lavoro come abbigliamento, calzature, giocattoli. Spesso le aziende leader non sono imprese manifatturiere ma cosiddetti retailers (rivenditori), per esempio catene della (GDO) grande distribuzione organizzata, supermercati e ipermercati, oppure sono catene di negozi di abbigliamento di marca che vendono direttamente ai clienti finali. In questi casi l’azienda leader persegue un esteso se non totale decentramento produttivo.

Gli effetti del rallentamento della globalizzazione

Ora, cosa succederà nei prossimi anni con il rallentamento dei processi di globalizzazione che si sono verificati ultimamente, e dopo l’epidemia da coronavirus che ha messo in evidenza i rischi rappresentati da un sistema globale di produzione che non tiene conto del fatto che, la produzione sarà anche globalizzata, ma i sistemi politici sono ancora basati sugli stati nazionali e in caso di crisi emergono conflitti e divergenze di interessi che sono difficili da gestire e regolare?

Per conoscere il futuro occorrerebbe la sfera di cristallo e chi si occupa di economia dovrebbe astenersi dal fare previsioni che verrebbero facilmente smentite.

Qualche linea di tendenza però si può intravedere. Per esempio, per ragioni di sicurezza nazionale, sanitaria, militare, è probabile che in alcuni settori le catene globali del valore si accorceranno o si regionalizzeranno. Per esempio, dipendere dalla Cina per alcune produzioni di componentistica nei settori tecnologici potrebbe essere molto rischioso nel momento in cui si delinea, in maniera sempre più netta ed evidente, una competizione geopolitica tra quel paese e gli Stati Uniti per la supremazia mondiale.

Nel settore farmaceutico, per esempio, l’Unione Europea potrebbe decidere di dotarsi, per ragioni di sicurezza sanitaria, di una propria autonoma capacità di produzione di vaccini qualora la pandemia da Coronavirus dovesse proseguire ancora per anni con la comparsa di sempre nuove varianti, oppure in previsione di una nuova imprevedibile crisi sanitaria.

Ma nei prossimi anni ci sarà un’altra variabile che influenzerà anche le catene globali del valore e il loro sviluppo, quella tecnologica. L’alternativa alla delocalizzazione produttiva fatta sia per ragioni economiche − riduzione dei costi e aumento della produttività − che per ragioni sociali e politiche − riduzione del potere contrattuale dei lavoratori e aggiramento delle norme a tutela del lavoro, dell’ambiente o di altro − si chiama automazione. Si possono produrre molti beni automatizzando e robotizzando quasi tutte le fasi di produzione. Questa soluzione è possibile ormai in molti settori e per diverse tipologie di beni.

Certo questa soluzione richiede forti investimenti di capitali e quindi entra in gioco un’altra variabile, il costo dei capitali e quindi i tassi d’interesse sui capitali che si prendono a prestito.

Ma c’è da tenere presente un altro dato. Su molti beni la percentuale di costi di produzione sul totale del prezzo di quel bene è piuttosto limitata. Facciamo un esempio concreto per spiegarci meglio. Prendiamo il caso di un paio di scarpe sportive, di un qualsiasi noto marchio. Supponiamo che queste scarpe costino in negozio, quindi al consumatore, cento euro al paio. Se andiamo a vedere come sono composti quei cento euro, come si arriva a quel prezzo, scopriamo che dodici euro vengono spesi per la produzione, quindi per materie prime, salari, profitti di chi produce, trentatré euro vanno al brand, quindi al marchio, e comprendono costi di ideazione e di design, costi di marketing e profitti dell’azienda titolare del marchio. Infine, la parte più rilevante, cinquantacinque euro, saranno i costi di distribuzione, dai trasporti al margine di guadagno del dettagliante. Spesso poi, come sappiamo, in questi casi l’azienda proprietaria del brand è solitamente anche l’azienda che gestisce direttamente, o con meccanismi come il franchising, anche la distribuzione commerciale. Quindi per sintetizzare su cento euro che il consumatore paga soltanto dodici andranno a chi quella scarpa l’ha effettivamente prodotta, i restanti ottantotto euro verranno incassati da chi quelle scarpe le ha ideate e le commercializza.

Questo tipo di struttura, dove i costi di produzione rappresentano un frammento che oscilla tra il 10 e il 15% del costo finale di un prodotto, ci dice però che andare a fare ulteriori ottimizzazioni nella produzione, rimodulando le catene globali del valore, non ha molto senso, perché quei costi rappresentano una percentuale piuttosto bassa dei costi complessivi. È quindi probabile che l’attuale organizzazione delle catene globali del valore continuerà ancora nei prossimi anni a risultare il sistema più efficiente di produzione per gran parte dei prodotti.

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