La crisi dell’ordine globale tra economia e geopolitica
Scritto da Pasquale Angius in data Marzo 26, 2024
L’ordine globale basato sulla indiscussa supremazia americana è in crisi sia sul piano economico-finanziario che politico-militare.
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La crisi dell’ordine americano
Mi dispiace iniziare con una nota di pessimismo ma per descrivere il periodo storico che stiamo vivendo viene in soccorso una reminiscenza liceale, una citazione latina: Mala tempora currunt sed peiora parantur, corrono tempi brutti ma se ne preparano di peggiori. Siamo usciti da poco da una pandemia che ha causato ufficialmente 7 milioni di vittime a livello globale, ma secondo altre stime il numero reale sarebbe almeno 3 volte più alto, e ci siamo ritrovati ad affrontare guerre, inflazione, cambiamenti climatici, terrorismo.
In realtà stiamo vivendo un periodo di transizione dal vecchio ordine globale basato sulla indiscussa supremazia politico-militare ed economico-finanziaria degli Stati Uniti a qualcosa di nuovo, di ancora indistinto e indefinibile. Come sarà il nuovo ordine globale non lo sappiamo ma sarà, forse, un nuovo ordine nel quale il ruolo degli Stati Uniti verrà ridimensionato o almeno queste sono le intenzioni dei suoi, ormai numerosi, avversari.
Gli Stati Uniti sono stanchi, sono un paese che dà l’impressione di avere ancora la sintomatologia della grande potenza senza averne più la malattia.
Ma alla stanchezza e alla presunta o reale debolezza americana si contrappone un nuovo attivismo di coloro che l’ordine americano in realtà non lo hanno mai digerito, lo subivano perché non potevano fare altrimenti, ma ai primi cenni di cedimento cominciano a scalpitare nel tentativo di mettere in crisi quel sistema, costruito negli ultimi trent’anni, che ha sinora garantito agli Stati Uniti una supremazia senza rivali.
La competizione si svolge in ogni campo da quello economico e finanziario a quello politico, militare e tecnologico.
La Cina si appresta nei prossimi anni a diventare la prima potenza economica del pianeta superando il PIL degli Stati Uniti e allo stesso tempo sta facendo investimenti colossali in settori strategici come quello dell’auto elettrica e dell’Intelligenza Artificiale (AI) con l’obiettivo evidente di conquistare una posizione di vantaggio anche tecnologico sull’Occidente.
La Cina, inoltre, avvisa in maniera sempre più aggressiva gli Stati Uniti e i suoi alleati che prima o poi Taiwan, considerata da Pechino soltanto un’isola ribelle, tornerà alla madrepatria con le buone o con le cattive, cioè anche per via militare. Taiwan è una pedina strategica nel grande gioco delle potenze per due ragioni basilari, una economica e una geopolitica. Taiwan è il maggior produttore mondiale di microchip, componenti essenziali ormai di qualunque prodotto tecnologico, dai telefoni cellulari, alle auto, ai missili balistici. Inoltre, per la sua posizione geografica a circa 180 chilometri dalle coste cinesi, è una sorta di grande portaerei dalla quale è possibile controllare ed eventualmente colpire le rotte marittime cinesi, fondamentali per un paese che deve molto della sua potenza economica agli scambi commerciali con l’estero.
I cosiddetti BRICS, quel gruppo eterogeneo di paesi che comprende Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica ma al quale se ne sono recentemente aggiunti altri come Etiopia, Arabia Saudita, Egitto, Iran, Emirati Arabi, stanno cercando di mettere le basi di un sistema finanziario alternativo a quello americano basato sulla supremazia del dollaro.
La Russia con l’aggressione all’Ucraina ha in sostanza ribadito che non è più disposta a tollerare ulteriori espansioni della Nato a ridosso dei suoi confini e tenta, con la forza, non essendoci riuscita con la diplomazia, di ricreare una sua sfera di influenza geopolitica.
L’Iran approfittando del disimpegno strategico degli americani in Medio Oriente cerca di ridisegnare gli equilibri a suo vantaggio, mobilitando da un lato Hamas per far saltare i cosiddetti “accordi di Abramo” tra lo Stato ebraico e l’Arabia Saudita e dall’altro gli Houti che grazie alla posizione strategica sullo Stretto di Bab el Mandeb, all’ingresso del Mar Rosso, con pochi missili e qualche drone, mettono in crisi una delle rotte vitali del commercio internazionale, quella che passa per il canale di Suez.
Ma da cosa deriva la crisi americana? Le ragioni sono molte.
La globalizzazione per plasmare il nuovo ordine economico mondiale
Nel 1989 cade il Muro di Berlino e qualche anno dopo l’Unione Sovietica si dissolve, il tentativo di Michail Gorbaciov di riformare l’anchilosato sistema sovietico finisce in una sconfitta storica di quell’ideologia comunista che, per tutto il Novecento, aveva rappresentato l’unica alternativa al sistema capitalistico.
Gli Stati Uniti emergono come l’unica potenza con una proiezione planetaria. In mancanza di rivali il capitalismo americano nella sua versione neoliberista cerca, attraverso la globalizzazione, di plasmare il sistema economico mondiale in funzione degli interessi sia economici che politici degli Stati Uniti.
Le nuove tecnologie informatiche, l’invenzione di internet, le innovazioni nelle telecomunicazioni, da un lato, le liberalizzazioni economiche, la riduzione delle barriere agli scambi commerciali e ai movimenti finanziari dall’altro, danno alle multinazionali americane un’occasione storica per espandere i loro mercati, per ridurre i costi delocalizzando le fabbriche in altre aree del mondo e riorganizzando tutto il sistema produttivo lungo quelle che verranno chiamate “le catene globali del valore”, con l’obiettivo evidente di aumentare i profitti. A vigilare su questa rivoluzione economica e tecnologica ci sarà la rete delle 544 basi militari americane in 43 paesi esteri, in ogni angolo del globo. Nessuno può frenare la potenza americana, la Russia post sovietica è nel caos, la Cina è ancora troppo povera, il resto del mondo non conta nulla.
La scommessa sbagliata sulla Cina
In quegli anni gli Stati Uniti fanno una scommessa sbagliata sulla Cina pensando che favorire la crescita economica di quel paese avrebbe alla fine convinto la leadership cinese, molto pragmatica, della superiorità del sistema capitalistico e quindi avrebbe abbandonato l’ideologia comunista. Inoltre la Cina con la sua immensa popolazione poteva diventare un enorme mercato di sbocco per le merci americane.
Ma all’inizio del nuovo millennio gli scenari cambiano.
L’11 settembre del 2001 un gruppo di terroristi islamici finanziati da un miliardario saudita, Osama Bin Laden, attaccano il cuore dell’America, la città di New York e il Pentagono. Lo shock è fortissimo e gli Stati Uniti mobilitano tutta la loro forza per vendicare i loro morti e per colpire chi ha avuto l’impudenza di portare l’attacco al cuore dell’impero. Nei vent’anni successivi gli Stati Uniti conducono la cosiddetta “guerra al terrorismo” invadendo e devastando due paesi, prima l’Afghanistan e dopo l’Iraq.
Gli Stati Uniti sprecano una quantità enorme di risorse finanziarie, militari ed umane con quali risultati? A vent’anni di distanza il bilancio è nettamente in rosso.
In Iraq non c’è più il regime di Saddam Hussein ma il paese è finito in mano alla maggioranza scita alleata dell’Iran, uno dei più acerrimi nemici degli Stati Uniti.
In Afghanistan ricordiamo tutti come è andata a finire con gli occidentali che nell’agosto del 2021 scappavano precipitosamente dall’aeroporto di Kabul lasciando il paese nuovamente nelle mani dei talebani.
La Cina da partner diventa un competitor degli Stati Uniti
Mentre gli Stati Uniti perdevano tempo a inseguire gli estremisti islamici intanto la Cina che dal 2001 entra nell’Organizzazione Mondiale del Commercio e quindi può accedere senza più vincoli e barriere ai ricchi mercati dei paesi occidentali, cresce a ritmi sbalorditivi.
La Cina in realtà non ha alcuna intenzione di convertirsi al capitalismo anche se utilizza meccanismi di mercato per sviluppare la sua economia, anzi la Cina applica una vecchia metafora di Lenin il quale disse: «I capitalisti ci venderanno la corda con cui li impiccheremo». I cinesi volevano soltanto sfruttare i capitali, le tecnologie e i mercati occidentali per far crescere la loro economia e far acquisire alla Cina nuovamente quel ruolo di grande potenza anche politica e militare che aveva perso a partire dalla metà dell’Ottocento.
Il 15 settembre del 2008 il fallimento di una delle più grandi banche d’affari statunitensi, la Lehman Brothers, precipita prima gli Stati Uniti e poi l’intero sistema finanziario globale in una crisi senza precedenti. Il neoliberismo spinto applicato alla finanza non ha prodotto maggior ricchezza per tutti, secondo quella che era la narrazione prevalente nelle facoltà di economia, ma ha corso il rischio di far saltare per aria l’intero sistemo economico globale. Dovranno intervenire i governi mettendo soldi pubblici a disposizione delle banche per evitare il crac globale. La credibilità degli Stati Uniti e la convinzione della superiorità del suo sistema economico ne usciranno fortemente compromessi.
Il presidente Obama impiegherà i suoi due mandati per rimettere in sesto l’economia statunitense e per disimpegnarsi dalla dispendiosa guerra al terrorismo, prima ritirandosi dall’Iraq e cercando di trovare, senza riuscirci, una soluzione anche in Afghanistan per riorientare le attenzioni della politica estera americana verso la Cina con la nuova strategia chiamata appunto “pivot to Asia”. La Cina e il suo grande mercato interno ormai non viene vista più come una grande opportunità ma viene sempre più percepita per quello che è in realtà, un pericoloso competitor, che potrebbe minacciare la supremazia americana. Ma le cose sono rese complicate dal fatto che la globalizzazione ha creato una rete ormai inestricabile di interconnessioni tra i sistemi economici dei due paesi per cui un cosiddetto “decoupling” il disaccoppiamento, è molto difficile e molto costoso.
Dal 2017 arriva alla Casa Bianca Donald Trump che riesce ad intercettare il malcontento dell’America profonda, la classe operaia e i ceti medi penalizzati dalle delocalizzazioni produttive e spaventati dall’incertezza economica che diffidano sempre più di quell’America liberal che aveva sostenuto con entusiasmo la globalizzazione.
Trump oltre a ridurre le tasse ai più ricchi, come fa ogni presidente americano di destra che si rispetti, prende di mira la Cina accusata di politiche commerciali scorrette e reintroduce dazi doganali e altre barriere alle sue esportazioni.
La strategia sbagliata in Ucraina
Il successore Biden prosegue nella politica di contenimento della Cina, ma di fronte a due nuove pericolose crisi non riesce a trovare soluzioni efficaci. Nel febbraio 2022 la Russia invade l’Ucraina. Il presidente Biden, supportato dal premier inglese Boris Johnson e dall’Unione Europea guidata dalla baronessa Von der Leyen, smaniosa di calzare l’elmetto, decide di trasformare quello che è un conflitto regionale in un grande conflitto geopolitico globale. L’obiettivo dichiarato è la sconfitta di Mosca, facendo, come spesso accade nella storia, valutazioni piuttosto approssimative da un lato sulla reale forza e determinazione dei russi e d’altro lato sulla reale forza e determinazione dell’Occidente.
Lo scoppio di una nuova guerra in Medio Oriente evidenzia le difficoltà degli Stati Uniti che non ce la fanno a sostenere in contemporanea due teatri di guerra. In quel nuovo conflitto Biden si scontra ripetutamente con il suo alleato, il leader israeliano Netanyau che, dopo l’attacco terroristico di Hamas il 7 ottobre, se ne frega degli inviti alla moderazione e lancia una devastante campagna militare contro la Striscia di Gaza, causando decine di migliaia di vittime civili senza che nessuno abbia capito, sinora, quali siano gli obiettivi dell’azione militare e la soluzione postbellica.
Le divisioni interne dell’America
L’America non ce la fa a sostenere in contemporanea due scenari bellici, un po’ per scarsità di risorse ma anche perché il paese è profondamente diviso a livello politico con molti che sognano un nuovo isolazionismo e sono stanchi di fare i gendarmi del mondo. Il mestiere di grande potenza in fondo è un mestiere usurante.
Anche l’opinione pubblica è profondamente divisa con risultati paradossali. Da un lato ci sono coloro che sono suggestionati dagli slogan della destra che propone il ritorno a un’America da cartolina, quando la classe operaia poteva comprarsi la villetta con giardino e riusciva a mandare i figli al college, mentre oggi la working class fatica ad arrivare a fine mese e se la prende con i migranti o con i cinesi, scordandosi che chi ha distrutto la manifattura americana, delocalizzando all’estero, non sono stati né i migranti e nemmeno i cinesi, ma le grandi multinazionali americane. Dimenticano che quell’America dove c’era maggior equità e redistribuzione dei redditi fu distrutta a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso da quella destra che aveva fatto proprie le ricette neoliberiste e che ora li illude proponendogli un impossibile ritorno ad un passato che non c’è più.
La sinistra americana invece, ossessionata dalla nuova moda del politicamente corretto, insegue qualunque minoranza etnica, religiosa o sessuale, trasformando quelle che sono legittime richieste di pari dignità e di diritti che spesso sono stati negati, in una nuova ortodossia sempre più radicalizzata e ossessiva che finisce a sua volta per assumere posizioni illiberali e discriminatorie nei confronti di coloro che la pensano diversamente. Infine, ciliegina sulla torta, si cavalca la nuova mania della cancel culture e si perdono energie e giornate a demolire o imbrattare statue e monumenti di reali o presunti schiavisti e colonizzatori dei secoli passati. Il politicamente corretto e la cancel culture diventano, di fatto, delle armi di distrazione di massa. Come direbbe il saggio quando il dito indica la luna lo stolto guarda il dito!
In tutto ciò manca la questione centrale o meglio quella che potrebbe essere definita la madre di tutte le questioni, la questione sociale. Il problema imprescindibile e politicamente fondamentale è che negli ultimi decenni il 10% più ricco della popolazione americana è diventato sempre più ricco, mentre il restante 90% è diventato più povero, ha perso reddito, diritti, status sociale. La società americana è diventata una società sempre più ingiusta e sperequata ma nessuno, a livello politico, né a destra, né a sinistra, si occupa di questo tema, che in realtà è quello centrale.
La competizione elettorale per le presidenziali è tra due ottuagenari che – a voler essere buoni – potremmo definire poco lucidi, per non dire bolliti. Il 60% degli americani pensa che entrambi i candidati abbiamo seri problemi mentali e, oggettivamente, saranno in difficoltà nel momento in cui dovranno scegliere tra le mattane di Trump e i vuoti di memoria di Biden.
La voglia di riarmo dell’Unione Europea
In Europa invece cosa succede? L’Unione Europea, dopo essere riuscita con un certo successo nei decenni passati a creare un mercato comune, un’area economica integrata che ha avvantaggiato tutti i paesi membri, dopo aver creato una moneta comune che ha avvantaggiato molto alcuni paesi come la Germania e penalizzato altri come l’Italia, si trova ormai da anni di fronte alla scelta se andare avanti nel complicatissimo processo di integrazione politica oppure fermarsi.
Non c’è omogeneità d’intenti su questa questione, ma qualche leader cerca di sfruttare la crisi per dare un’accelerazione politica e qual è lo stimolo migliore per spingere i popoli a far quello che non vogliono fare? Semplice: la paura.
Il nuovo Babau è diventato Putin e la Russia revanscista che dopo aver sconfitto l’Ucraina vorrà papparsi la Moldavia, i paesi Baltici e prima o poi ce lo ritroveremo in casa, senza accorgercene, perché siamo ormai una popolazione di imbelli, debosciati, viziati, dediti esclusivamente allo Spritz e alle cose fatue, popoli di forchettoni, sempre più anziani e privi di spina dorsale che non hanno più voglia di fare guerre ma di godersi nel migliore dei modi quel tanto o poco che gli resta da vivere. Un popolo di “panciafichisti” avrebbe detto il pelatone romagnolo che per un ventennio nella prima metà del Novecento turlupinò la generazione dei nostri nonni trascinandola poi nella tragedia della seconda guerra mondiale.
Anche oggi si sentono molti, per non dire troppi, richiami alle armi: dobbiamo creare una difesa comune, dobbiamo comprare più missili, cannoni, carri armati, aumentare le spese militari, ripristinare la leva obbligatoria, magari mandare anche truppe in Ucraina. Ce lo chiese un paio d’anni fa anche colui che fu definito dalla stampa adulante, il migliore degli italiani, quel Mario Draghi che in conferenza stampa pose la fatidica domanda: «Volete la pace o i condizionatori?». Versione aggiornata della mai desueta domanda: «Volete più burro o più cannoni?».
A quasi due anni di distanza come è andata a finire? La pace non l’abbiamo avuta, anzi la guerra in Ucraina si intensifica e gli ucraini, a corto di uomini e munizioni, rischiano di perderla. Per quel che riguarda i condizionatori invece, lasciate perdere, con quello che costa l’energia non ce li possiamo più permettere.
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