Il mercato del lavoro in Italia tra record di occupazione e bassi salari
Scritto da Pasquale Angius in data Luglio 17, 2024
Il numero di occupati in Italia ha raggiunto un picco storico ma i salari restano al palo e, in termini reali, addirittura diminuiscono.
Ascolta il podcast
Mercato del lavoro: il record dell’occupazione
Il mercato del lavoro nel nostro paese ci presenta dati contraddittori o quantomeno anomali. Da un lato c’è un record di occupati, nell’ultimo anno sono stati creati quasi 500.000 nuovi posti di lavoro e, dall’altro, se facciamo il confronto con gli altri paesi europei i salari italiani non soltanto sono tra i più bassi, ma negli ultimi due anni sono quelli che hanno perso di più in potere d’acquisto a causa dell’inflazione.
Il Governo Meloni da mesi sfoggia i dati sull’occupazione ascrivendone il merito all’azione del governo stesso, come dicono i corifei della destra: “il vento è cambiato”.
Qualcuno, facendo proprio il vecchio motto dannunziano: “memento audere semper” (ricordati di osare sempre), arriva persino a sostenere che grazie all’abolizione del reddito di cittadinanza diverse centinaia di migliaia di italiani, che prima preferivano poltrire sui divani domestici a spese della collettività, si sono decisi a muovere le terga e a trovarsi un’occupazione.
Ora, al di là della inevitabile propaganda politica, il dato sull’occupazione è effettivamente sorprendente e indubbiamente positivo anche se il merito, ci spiace per la nostra cara leader “detta Giorgia”, non va al governo Meloni, cerchiamo di capire il perché.
Partiamo dai dati sull’occupazione, a maggio 2024, ultimo dato disponibile, rispetto ad un anno prima, maggio 2023 c’erano 462.000 occupati in più.
Il numero degli occupati arriva quindi a 23.954.000 e il tasso di occupazione, cioè la percentuale di coloro che lavorano sul totale della popolazione in età lavorativa, sfiora il 63%. Il numero degli occupati nel 2024 è superiore a quello del 2019, cioè l’ultimo anno prima della pandemia.
Nell’ultimo anno, tra l’altro, aumenta il numero dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato e quello degli autonomi, mentre si riduce il numero dei lavoratori dipendenti a tempo determinato.
Se ci limitiamo a una lettura superficiale dei dati potremmo dire che va tutto bene, chi è filogovernativo dirà che è tutto merito della nostra cara leader “detta Giorgia”, ma purtroppo non è tutto oro quel che luccica.
Un primo problema potremmo dire è di metodo. Senza addentrarci in problematiche tecniche diciamo che l’Istat, il nostro istituto di statistica, registra nella categoria occupati anche coloro che abbiano svolto almeno un’ora di lavoro nell’arco di una settimana.
In pratica, se un qualunque disoccupato una sera a settimana va a consegnare pizze a domicilio passa nella categoria degli occupati, riducendo, di conseguenza, il numero dei disoccupati.
La forte ripresa del settore turistico
Una seconda osservazione da fare è che nel periodo 2020-2021, il settore turistico nella sua accezione più ampia – che comprende quindi dagli hotel a qualunque altra forma di alloggio, ai servizi di ristorazione a quelli ricreativi, ai servizi di trasporto connessi – aveva subito un duro colpo a causa della pandemia e dei conseguenti lockdown.
A partire dalla seconda metà del 2021, c’è stata una ripresa che potremmo definire euforica dell’intero settore, ripresa che, fortunatamente, perdura tuttora, nonostante l’inflazione abbia fatto rincarare in maniera consistente tutti i prezzi.
Dopo la grande paura creata dal Covid, c’è la voglia di tornare a vivere, divertirsi, spendere, un meccanismo psicologico che sta facendo bene alla nostra economia.
Il settore turistico è, come sappiamo, un settore “labour intensive”, cioè un settore ad alta intensità di lavoro, se il settore tira ha bisogno di nuovi occupati e quindi si assume nuovo personale.
Un altro settore nel quale si è finora fatta sentire una sorta di onda lunga sull’occupazione è quello edilizio trainato fino agli inizi del 2024 dal cosiddetto Superbonus 110%, una misura d’incentivo molto controversa e discutibile, sia nel merito che, ancor più, nelle modalità di applicazione, che ha sicuramente dato una spinta all’intero settore delle costruzioni e quindi ha generato nuova occupazione.
Il Superbonus però è ormai finito o comunque è agli sgoccioli, e quindi la “bolla” immobiliare che ha generato negli anni scorsi è destinata inevitabilmente a sgonfiarsi.
Se guardiamo i dati sui nuovi occupati, vediamo che cresce negli ultimi due anni la percentuale di ultracinquantenni che lavorano e il dato può avere diverse letture.
La prima non positiva è che molte persone anche in età avanzata o magari già pensionate hanno la necessità di continuare a lavorare perché magari hanno redditi o pensioni troppo basse per riuscire a mantenersi.
Va anche tenuto conto degli effetti delle varie riforme pensionistiche fatte negli ultimi dieci anni a cominciare dalla famigerata “legge Fornero” che hanno reso più difficile il pensionamento o hanno allungato l’età pensionabile costringendo molte persone a continuare a lavorare.
A ciò si aggiunga anche il fatto che le aziende, in un momento storico nel quale faticano a trovare giovani con le qualifiche e la preparazione adeguata, magari danno incentivi per mantenere al lavoro personale in età pensionabile ma che ha qualifiche ed esperienza utili per l’azienda.
Ma il dato può anche essere letto in maniera positiva perché significa che, rispetto agli anni passati, quando superata una certa età diventava più difficile trovare occupazione, oggi il mercato del lavoro ha talmente bisogno di manodopera che fa cadere alcune discriminazioni legate all’età.
Il calo demografico
I settori manifatturieri, invece, non stanno andando molto bene, la produzione industriale è in calo da diversi mesi. Il nostro principale partner, la Germania, è in recessione.
Una parte importante della nostra manifattura è inserita nelle catene del valore della grande industria tedesca, soprattutto metalmeccanica ma non solo. Se i tedeschi vanno in recessione le nostre piccole e medie aziende, che forniscono componentistica ai tedeschi, a loro volta frenano. Q
uesta frenata solitamente causerebbe una riduzione dell’occupazione. Se calano gli ordini le aziende o ricorrono alla cassa integrazione o licenziano, o fanno tutte e due le cose. Ma ultimamente, dopo il Covid, sembra che le aziende siano più restie a ricorrere ai licenziamenti. Le ragioni sono diverse e si cumulano tra di loro. Un primo problema è di natura demografica.
Quando qualcuno in Italia si mette a parlare di demografia molta gente si ammazza di sbadigli. La demografia non è una scienza particolarmente “cool”, non è divertente, è complicata, ci sono molti dati da analizzare e da conoscere.
La demografia è certamente noiosa, ma è qualcosa da cui non possiamo prescindere e i dati demografici del nostro paese sono, se non ancora drammatici, certamente preoccupanti.
La popolazione italiana è in calo costante. Negli ultimi dieci anni la popolazione residente nel nostro paese è calata di un milione e mezzo di persone, ma se cala la popolazione vuol dire che diminuirà anche la cosiddetta “popolazione attiva” cioè quella compresa nella fascia d’età tra i 15 e i 64 anni, quella parte di popolazione ritenuta in grado di lavorare.
Anche in questo caso un semplice dato rende chiara la situazione. Nel 2008, quindi non più tardi di una quindicina di anni fa, la popolazione attiva in Italia era pari a 39.306.000 persone.
Nel 2023, per effetto del calo demografico, la popolazione attiva si era ridotta a 37.472.000. In pratica 1.834.000 lavoratori o potenziali tali, in meno!
A ciò si aggiunga che non soltanto la popolazione diminuisce ma continua ad invecchiare, quindi per dirla in termini facilmente comprensibili per tutti ci sono sempre più pensionati e sempre meno persone che lavorano e meno giovani che entrano nel mercato del lavoro.
Infatti, negli ultimi anni uno dei problemi che molte aziende italiane hanno dovuto affrontare è la difficoltà a trovare personale da assumere, in parte per mancanza di persone con le qualifiche necessarie per quel tipo di lavoro, ma anche per banali, si fa per dire, ragioni demografiche.
Le aziende percepiscono il dato della riduzione della manodopera disponibile per cause demografiche dalla maggior difficoltà a completare gli organici e quindi sono meno propense a licenziare a fronte di momentanee crisi di mercato.
Questo fenomeno che in termine tecnico si chiama “labour hoarding” che potremmo tradurre come accaparramento di manodopera e che consiste nella tendenza delle aziende a mantenere l’occupazione anche se in eccesso rispetto al fabbisogno, si è verificato anche in altri paesi europei.
Le aziende, quindi, preferiscono ricorrere ad altre misure come, per esempio, la riduzione delle ore lavorate, ma non a disfarsi di personale che in caso di bisogno avrebbero difficoltà a trovare.
L’alternativa tra capitale e lavoro
Un’altra spiegazione del fenomeno dell’aumento dell’occupazione è legata al modo in cui funziona l’economia.
Le aziende sappiamo che per produrre i loro beni o servizi impiegano sostanzialmente capitale e lavoro.
Per semplificare, il capitale è rappresentato dalle infrastrutture: fabbriche, capannoni, uffici, macchinari, computer, software e via di seguito; il lavoro è costituito dal personale a qualsiasi livello impiegato nell’azienda.
In termini generali, se aumenta il costo del lavoro si tende a impiegare più capitale se aumenta il costo del capitale si tende a impiegare più lavoro. Le aziende italiane, negli ultimi due anni, si sono trovate di fronte a una situazione particolare. I costi del capitale sono aumentati in maniera consistente.
La BCE (Banca Centrale Europea), per combattere l’inflazione, ha aumentato i tassi d’interesse ma, se aumentano i tassi d’interesse, per le aziende diventa più costoso prendere a prestito soldi per comprare tecnologia, macchinari, computer, software.
Quindi, negli ultimi due anni, il costo del capitale è cresciuto. I salari, invece, non soltanto non sono cresciuti ma, a causa dell’inflazione, in termini reali sono diminuiti. A fronte di questa riduzione significativa non ci sono state mobilitazioni sindacali per rivendicare nuovi contratti, aumenti o adeguamenti salariali.
Le proteste sono state poche e decisamente flebili, almeno in Italia, paese nel quale l’irrilevanza delle organizzazioni sindacali è ormai un dato acquisito. In altri paesi europei, in Francia e Germania, per esempio, ci sono invece state mobilitazioni, scioperi e proteste anche di massa.
Quindi, per fare un esempio semplice, un’azienda del settore edilizio di fronte alla scelta tra comprare un nuovo macchinario, che oggi costa molto di più rispetto a due anni fa, o assumere due nuovi operai con stipendi che, a causa dell’inflazione, sono più bassi rispetto a due anni fa, magari preferisce la seconda opzione.
In caso di difficoltà è comunque più semplice disfarsi di due nuovi assunti che non di un macchinario che è costato magari centinaia di migliaia o milioni di euro. Se il lavoro costa in proporzione meno del capitale, si impiegherà più lavoro e meno capitale e viceversa.
Le politiche della Pubblica Amministrazione
C’è anche un altro fattore che ha inciso sull’aumento dell’occupazione e sono le politiche della Pubblica Amministrazione.
La pandemia aveva sottolineato le carenze del nostro sistema sanitario e l’obiettivo che ci si era dati, anche con il cosiddetto PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), era quello di rafforzare il sistema sanitario assumendo nuovo personale, migliorando le tecnologie, aumentando l’efficienza.
Gran parte di quelle buone intenzioni non si sono tradotte in realtà ma, negli ultimi anni, si è aggiunto un ulteriore problema, la fuga di personale sanitario verso altri paesi dove trova condizioni di lavoro e stipendi migliori.
In Lombardia, per esempio, è più conveniente andare a fare il medico o l’infermiere in Svizzera dove gli stipendi sono due o tre volte quelli italiani.
Infine, anche sul sistema sanitario cominciano a pesare i trend demografici: la popolazione invecchia e quindi la domanda di assistenza sanitaria aumenta.
D’altro lato le politiche del numero chiuso nelle facoltà di medicina stanno causando una carenza di medici. Evidentemente la programmazione del numero chiuso è stata calcolata male.
Allo stesso tempo stanno arrivando in età pensionabile le classi d’età dei cosiddetti “boomers”, quindi c’è un numero rilevante di operatori del settore sanitario che sta andando in pensione e che, per i problemi sopra evidenziati, diventa sempre più difficile sostituire con nuovi assunti.
Ma, al di là del settore sanitario, tutta la Pubblica Amministrazione, dove l’età media del personale è piuttosto elevata, ha bisogno di rinnovarsi, di assumere giovani, di assumere figure professionali più qualificate per far fronte anche alle nuove sfide della digitalizzazione dei servizi.
A ciò si aggiunga la necessità di spendere i 200 miliardi del PNRR con la necessità di ricorrere a nuove assunzioni. Il risultato è che ultimamente anche la Pubblica Amministrazione ha ripreso ad assumere, sia per la necessità di sostituire il personale che va in pensione sia per far fronte ai nuovi impegni del PNRR e, quindi, il numero di occupati aumenta.
Occupazione ai massimi storici ma i salari restano al palo
A questo punto del ragionamento sorge però una domanda. Come mai se l’occupazione cresce i salari restano sempre al palo? Come mai, se facciamo il confronto con gli altri paesi europei, i salari italiani sono tra i più bassi e negli ultimi 30 anni non soltanto non sono cresciuti ma, in termini reali, sono addirittura diminuiti?
Se fate questa domanda ad un economista, solitamente la prima risposta che vi darà è che il problema è la produttività. I salari italiani sono più bassi perché la produttività in Italia è più bassa rispetto agli altri paesi europei.
Ma le cose stanno veramente così? È proprio vero che la produttività italiana è più bassa rispetto a quella degli altri paesi? Se sì, perché?
Anche qui la prima risposta che vi darà un economista sarà da manuale. Comincerà a spiegare la produttività con un esempio semplice di questo tipo: prendiamo due muratori che debbono scavare le fondamenta di una casa. Al primo diamo un escavatore mentre al secondo diamo soltanto una pala e un piccone.
Chi dei due sarà più produttivo? Quello con l’escavatore… elementare Watson! Il muratore dotato di pala e piccone per quanto svelto, energico e volenteroso possa essere sarà sempre più lento e quindi meno produttivo di quello dotato di escavatore.
Ecco, il problema è tutto qui, l’Italia è un paese con un tessuto produttivo costituito in gran parte da piccole e piccolissime aziende con scarse dotazioni di capitali e quindi ai muratori italiani invece di dare l’escavatore diamo piccone e pala, e per questa ragione siamo meno produttivi, guadagniamo di meno e i salari sono più bassi.
La spiegazione sembra semplice, forse troppo, anche perché le spiegazioni semplici di problemi complessi lasciano piuttosto perplessi. Per carità, un fondo di verità c’è ma questa spiegazione non è del tutto convincente. Il perché, però, lo vedremo nella prossima puntata.
Potrebbe interessarti anche:
- La crisi della globalizzazione
- Lo sviluppo della globalizzazione
- Come nasce la globalizzazione
- Il parlamento israeliano passa una risoluzione che si oppone alla soluzione due stati
- Gaza: trovato il virus della polio in campioni di liquame
- Stati Uniti: Biden rinuncia alla corsa alla Casa Bianca e sostiene Kamala Harris
- Gaza: Bombardamenti a Khan Younis nella zona sicura
- USA: Netanyahu a Washington parla al Congresso
- Venezuela: la gente del ponte
- Israele e Palestina: Kamala Harris, è ora che la guerra finisca
- La Trocha, il cammino alternativo
- La resa dei conti: Maduro vs Urrutia
- Lavoro forzato, ecco il nuovo regolamento Ue
E se credi in un giornalismo indipendente, serio e che racconta il mondo recandosi sul posto, puoi darci una mano cliccando su Sostienici