Come nasce la globalizzazione

Scritto da in data Giugno 5, 2023

Negli anni Ottanta del Novecento si verificano una serie di eventi che portano alla globalizzazione che stiamo vivendo.

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Dedichiamo alcune puntate per tornare su un tema di cui ci eravamo occupati un po’ di tempo fa: la globalizzazione. Qualcuno sostiene che la globalizzazione, come l’abbiamo vissuta negli ultimi decenni, sia in crisi o, addirittura, un processo storico definitivamente concluso. Ma le cose stanno veramente così? Oppure la globalizzazione si sta riconfigurando con modalità nuove, alla luce dei cambiamenti che sono avvenuti negli ultimi anni nell’economia internazionale e negli equilibri geopolitici?
La globalizzazione è un fenomeno complesso che si realizza perché a partire dagli anni Ottanta del Novecento si verificano una serie concomitante di eventi politici, economici, culturali e tecnologici che modificano in maniera radicale gli equilibri internazionali così come si erano configurati dopo la Seconda Guerra Mondiale.
L’argomento è vasto e dunque, nel breve spazio di un podcast, possiamo concentrarci soltanto su alcuni aspetti mentre altri li sfioreremo appena. Facciamo un piccolo passo indietro, torniamo agli anni Settanta del secolo scorso per capire come nasce quella nuova ideologia conservatrice chiamata neoliberismo che fornisce le idee, i presupposti culturali, le linee guida intellettuali e gli slogan politici che stanno a fondamento di quel processo di integrazione dei mercati e di riduzione delle distanze che chiamiamo, appunto, globalizzazione.

La destra americana sposa l’ideologia neoliberista

A partire dagli anni Settanta, negli Stati Uniti diversi magnati del Midwest − quella che viene chiamata l’America profonda − finanziano delle fondazioni con l’intenzione dichiarata di cambiare il sentiment, lo stato d’animo dell’opinione pubblica. Gran parte di quei miliardari avevano opinioni politiche ultraconservatrici, se non addirittura di estrema destra. Per fare un esempio, Harry Bradley, uno dei promotori dell’omonima fondazione, sosteneva che il movimento per i diritti civili negli Stati Uniti fosse un tentativo di creare una “repubblica negro-sovietica”, e il Generale Dwight Eisenhower, colui che comandò il famoso sbarco in Normandia durante la Seconda Guerra Mondiale e divenne negli anni Cinquanta il presidente degli Stati Uniti, altri non era, a suo dire, che «uno zelante agente del complotto comunista».
Obiettivo di quelle fondazioni − ne citiamo alcune delle più importanti come la Ohlin Foundation, la Bradley Foundation, la Scaife Family Foundation, la Adolph Coors Foundation − era sia quello di sostenere nelle campagne elettorali i candidati conservatori, ma anche finanziare università, think thank, iniziative editoriali, trasmissioni televisive, pubblicazioni di studi che avrebbero dovuto diffondere le idee della destra americana.
A livello economico, quelle fondazioni sostenevano gli studi e le analisi di quella corrente di economisti definiti neoliberisti, i quali ritenevano che l’unico parametro di riferimento per avere un’economia efficiente dovesse essere il mercato, e che bisognasse ridurre al minimo la presenza dello Stato nell’economia. Lo Stato, secondo loro, sprecava i soldi dei contribuenti e introduceva distorsioni nel sistema economico, quindi il suo raggio d’azione doveva essere ridotto al minimo, anche eliminando tutte quelle forme di welfare, dai sostegni per i poveri ai sussidi di disoccupazione, alla sanità pubblica, in pratica tutte quelle forme di assistenza pubblica che, a partire dalla fine dell’Ottocento, erano state gradualmente introdotte un po’ in tutte le economie più sviluppate. In questo filone di pensiero economico si collocavano anche economisti di grande valore, come due studiosi di origine austriaca ma emigrati negli Stati Uniti del calibro di Friedrich von Hayek e Ludwig Von Mises, come pure brillanti economisti americani quali per esempio Milton Friedman che nel 1976 ottenne il premio Nobel. La ragione per cui grandi magnati finanziavano economisti che sostenevano la necessità, come si diceva allora, di «affamare la bestia» − starve the beast in inglese − riducendo le spese dello Stato, la bestia appunto, era perché pagavano tasse molto elevate. L’aliquota marginale sui redditi più elevati negli Stati Uniti, in alcuni periodi del dopoguerra era arrivava persino al 92%, quindi quei miliardari sostenevano quella corrente di pensiero sia perché avevano idee politiche molto conservatrici ma anche per un interesse molto pratico: bisognava convincere l’opinione pubblica a ridurre le tasse sui più ricchi, quindi su di loro e, ovviamente, non si poteva dire «vogliamo pagare meno tasse perché siamo egoisti e i soldi che abbiamo ce li vogliamo tenere e non ce ne frega nulla di coloro che ricchi non sono», nessuno li avrebbe seguiti. Bisognava quindi creare un contesto culturale, ideologico e politico che sostenesse, con argomentazioni intellettualmente solide, che ridurre le tasse ai più ricchi rispondeva a presunte ragioni di maggior efficienza dell’intero sistema economico. Occorreva dunque che nei mass media, nelle università, nei centri di ricerca e nel dibattito politico le idee degli economisti neoliberisti diventassero la corrente di pensiero maggioritaria o quantomeno egemone, e per far ciò furono investiti moltissimi soldi che diedero i loro frutti. I due leader politici che attinsero a questa nuova corrente di pensiero, trasformando in programma politico le tesi neoliberiste, furono: Ronald Reagan negli Stati Uniti e Margareth Thatcher nel Regno Unito.

La “rivoluzione conservatrice”: Ronald Reagan e Margareth Thatcher

Il compito che si diedero economisti, studiosi, università, think thank, finanziati da un manipolo di miliardari, fu quindi quello di fornire un arsenale intellettuale a quei politici che intendevano realizzare una “rivoluzione conservatrice”. Ronald Reagan fu il primo presidente che riuscì a tradurre in un programma politico quell’insieme di pulsioni, tendenze, idee, malumori sintetizzandole in uno slogan efficace: «Lo Stato non è la soluzione ai nostri problemi, lo Stato è il problema!»
Le nuove politiche economiche messe in atto da Reagan e dalla Thatcher tendevano a ridurre la spesa pubblica, ridurre il potere dei sindacati, ridurre le tutele per i lavoratori, ridurre le tasse per i più ricchi, liberare le imprese da lacci e lacciuoli, quindi da diverse forme di regolamentazione pubblica, per lasciare libero sfogo alle forze di mercato. Ma per consentire al mercato di raggiungere più elevati livelli di efficienza occorreva anche deregolamentare i mercati finanziari, come anche liberalizzare gli scambi commerciali riducendo al minimo tutti i vincoli ai movimenti di capitale, di merci e di forza lavoro.

La disintegrazione dell’Unione Sovietica

Negli anni Ottanta accade un altro evento politico di fondamentale importanza. In Unione Sovietica il tentativo di Michail Gorbaciov di riformare l’anchilosato sistema sovietico fallisce, e la grande potenza comunista si disintegra. L’Urss, il paese che a partire dalla Rivoluzione d’Ottobre del 1917, aveva rappresentato una possibile concreta alternativa al sistema capitalistico, scompare e i paesi che nascono dalla dissoluzione dell’impero sovietico si convertono tutti all’economia di mercato. Il capitalismo, nella sua nuova versione dominante, quella neoliberista, di fatto ha sconfitto il comunismo. Gli Stati Uniti diventano l’unica grande potenza globale.
Negli anni Novanta avviene, però, anche una grande rivoluzione tecnologica con l’avvento di Internet e dei telefoni cellulari. Le nuove tecnologie favoriscono gli scambi di dati e informazioni, aprono nuove opportunità di business, modificano in maniera radicale intere filiere produttive. Cambia il modo di produrre, come cambia il modo di vendere i prodotti.

La nascita dell’Organizzazione Mondiale del Commercio

Il primo gennaio del 1995 nasce l’Organizzazione Mondiale del Commercio, un’organizzazione internazionale cui aderiscono immediatamente 164 paesi e che ha lo scopo di regolamentare e favorire gli scambi internazionali, innanzitutto riducendo o abolendo sia le barriere tariffarie, come i dazi doganali, sia le barriere non tariffarie come contingenti, quote, regolamentazioni varie, al commercio internazionale. L’idea economica che sta alla base di quegli accordi è che se ogni paese si specializza in quelle produzioni nelle quali è più efficiente, ci sarà un vantaggio per tutti. L’idea è tutt’altro che peregrina, la gran parte degli economisti, anche quelli non neoliberisti, hanno sempre sottolineato i vantaggi della specializzazione produttiva, degli scambi commerciali e dell’integrazione economica internazionale.
Tra i pochi paesi che non aderiscono all’Organizzazione Mondiale del Commercio c’è la Cina che, pur essendo un paese comunista, aveva avuto un percorso diverso da quello dell’Unione Sovietica. Alla fine degli anni Settanta era salito al potere un leader tenace e di grandi capacità come Deng Xiao Ping, il quale era fermamente convinto che l’unica strada per trasformare la Cina in un paese prospero e potente fosse quella di aprire agli investimenti esteri e di riformare il sistema economico, lasciando spazio alla libera iniziativa privata. La pianificazione centralizzata dell’economia sul modello sovietico funzionava male, causava enormi sprechi di risorse e inefficienze, e non era riuscita a diffondere benessere nella sterminata popolazione cinese. La Cina aveva grandi ambizioni politiche ma era all’epoca, in sostanza, ancora un paese di contadini poveri.
Gli Stati Uniti inizialmente, negli anni Ottanta, appoggiarono la leadership cinese per una ragione geopolitica: la Cina non andava d’accordo con l’Unione Sovietica, il principale avversario degli americani, e quindi rafforzare la Cina significava creare un altro problema ai sovietici.

Stati Uniti e Cina: interessi comuni e fraintendimenti

Nel 1989 a Pechino nasce un movimento di protesta, soprattutto giovanile, che rivendica maggiore democrazia, ma il regime dopo alcuni tentennamenti iniziali risponde con la repressione militare. La liberalizzazione economica va bene, ma di liberalizzazione politica non se ne parla.
Gli Stati Uniti, nonostante le condanne per la repressione di piazza Tienanmen, continuano ad avere nei confronti della Cina un atteggiamento di grande disponibilità. In realtà in quegli anni si crea tra i due paesi un rapporto basato sui reciproci interessi, ma anche su alcuni fondamentali fraintendimenti che diventeranno chiari soltanto nei decenni successivi.
L’idea che gli americani avevano era che favorendo lo sviluppo economico della Cina, favorendo l’introduzione di meccanismi tipici dell’economia di mercato in un paese comunista, questo paese si sarebbe trasformato, con il tempo, in qualcosa di simile alla Corea del Sud e al Giappone, governati certo da un regime autoritario ma che gradualmente sarebbero diventati paesi democratici e filo occidentali.
Molti americani sono convinti che si possa esportare la democrazia, o con le armi come si tentò di fare in Afghanistan o in Irak, o con lo sviluppo capitalistico come si fece dopo la Seconda Guerra Mondiale con Corea del Sud e Giappone, ma anche con l’ex Germania nazista e l’ex Italia fascista. La convinzione è che dentro ogni straniero ci sia un americano in potenza che non sa ancora di esserlo. Chiunque, in qualunque parte del pianeta vorrebbe diventare americano.
Ovviamente questa idea è piuttosto bislacca, anche se trova un fondamento oggettivo nella straordinaria forza di attrazione che gli Stati Uniti esercitano al di là della loro forza militare, finanziaria o economica. Quello che viene chiamato soft power americano si manifesta nella musica, nel cinema, nella letteratura, nei mass media, nel primato tecnologico e scientifico degli Stati Uniti e persino, strano a dirsi ma vero, nel cibo. Catene americane come Mac Donald’s, Kentucky Fried Chicken, Starbucks o Pizza Hut hanno colonizzato l’intero pianeta con filiali che si trovano anche nei luoghi più sperduti, oppure basti pensare a cosa ha rappresentato nel mondo una bevanda come la Coca Cola.
La forza di un impero − e gli Stati Uniti sono un impero − si manifesta anche nella sua capacità di attrazione, e certamente quel paese attrae per il suo benessere ma anche per quelle libertà politiche e civili che in molti altri paesi del mondo vengono conculcate. Gli americani, inoltre, vedevano nello sviluppo della Cina grandi opportunità di affari, un mercato di 1.400 milioni di potenziali consumatori di prodotti americani.
Per l’insieme di queste ragioni, gli Stati Uniti spingono affinché la Cina entri a far parte dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. La Cina avrebbe dovuto eliminare tutte le barriere agli scambi con l’estero, dai dazi alle regolamentazioni, ma allo stesso tempo avrebbe avuto accesso ai mercati degli altri paesi senza incontrare vincoli e ostacoli.
A sua volta, la leadership cinese era consapevole che l’unico modo per salvare il potere e non finire gambe all’aria come aveva fatto l’Unione Sovietica, era riuscire a sviluppare l’economia del Paese e a diffondere livelli crescenti di benessere, per cui potendo contare su una popolazione immensa potevano produrre a costi molto bassi ed esportare all’estero ogni tipo di bene. Dovevano quindi liberalizzare l’economia per attrarre capitali e tecnologie estere come avevano fatto dalla fine degli anni Settanta, ma per esportare i beni che riuscivano a produrre in grandi quantità e a prezzi estremamente competitivi dovevano riuscire a entrare nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, per accedere senza restrizioni ai mercati dei paesi aderenti a quell’organizzazione.
L’accordo tra Stati Uniti e Cina fu firmato alla fine degli anni Novanta, e nel 2001 la Cina finalmente entrò nell’Organizzazione Internazionale del Commercio.
Quello fu un momento storico, che ebbe conseguenze su tutta l’economia mondiale e sui due principali protagonisti: Cina e Stati Uniti. Ma in quella decisione storica ci sono anche i germi della futura crisi del processo di globalizzazione. Ma di questo argomento parleremo nella prossima puntata.

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