I paradisi fiscali: cosa sono

Scritto da in data Novembre 2, 2021

Negli ultimi decenni i cosiddetti “paradisi fiscali” si sono moltiplicati. Cerchiamo di capire le origini di questo fenomeno.

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Un po’ di storia

Ultimamente il tema dei “paradisi fiscali” è tornato alla ribalta dopo la pubblicazione, nello scorso mese di ottobre, dei Pandora Papers, un’indagine giornalistica che ha svelato i nomi di centinaia di “paperoni” che hanno dirottato guadagni e ricchezze su conti off-shore in paesi con una legislazione fiscale molto favorevole. Uomini politici, attori, cantanti, sportivi, grandi imprenditori: la lista dei furbetti che spostano i loro averi nei paradisi fiscali per pagare meno tasse è lunga e in continuo aggiornamento.

In questa puntata e nella prossima cercheremo di capire meglio cosa sono e come funzionano i paradisi fiscali.

Il 13 dicembre del 1773 è ricordato nella storia americana come il Boston Tea Party. Cos’era successo? Una nave inglese carica di tè, proveniente dall’Inghilterra, appena attraccata al porto di Boston fu assalita e distrutta dai coloni americani. Il tè era rimasto l’unico prodotto sulla cui importazione gravava una pesante tassa e già da diversi anni era in corso una durissima lotta tra i coloni americani e la Corona inglese che subissava il Nuovo Mondo di tasse e balzelli ritenuti eccessivi e ingiusti, anche perché a fronte di quelle imposte non si voleva dare alle colonie americane alcuna rappresentanza politica. Il motto dei coloni americani divenne: «no taxation without representation», nessuna tassa senza rappresentanza politica. Quell’episodio rappresentò l’inizio del processo che portò, il 4 luglio del 1776, alla Dichiarazione d’Indipendenza e alla conseguente trasformazione delle tredici colonie americane appartenenti alla Corona britannica negli Stati Uniti d’America. La più grande democrazia del pianeta nasce quindi da una rivolta fiscale.

Qualche anno più tardi, in Europa, scoppierà un’altra grande rivoluzione, quella francese, anch’essa in buona sostanza causata da una grave crisi fiscale.

Il tema delle tasse è un argomento sempre molto sensibile, difficile da affrontare restando lucidi e senza farsi prendere da sbocchi d’ira. È quindi non soltanto un problema economico, ma diventa anche una fondamentale questione politica e, per alcuni, persino una questione morale. D’altronde che le tasse siano un grosso problema lo diceva anche il protagonista di uno dei film più famosi del comico Antonio Albanese, il mitico Cetto Laqualunque.

Cosa sono i paradisi fiscali

Ma cosa intendiamo con l’espressione “paradisi fiscali”? Le caratteristiche per definire un qualsiasi paese un paradiso fiscale sono sostanzialmente tre:

  • Una tassazione molto bassa sui redditi delle persone o delle società.
  • Regole contabili e amministrative molto semplificate.
  • Controlli sulla provenienza e sulla proprietà dei capitali piuttosto laschi e, in alcuni casi, l’esistenza di un vero e proprio segreto bancario che rende impossibile risalire ai titolari di quei conti e alle movimentazioni degli stessi.

Si distinguono poi in base alle diverse tipologie di paradisi. Ci sono i “paradisi bancari”, paesi nei quali è possibile costituire società finanziarie e bancarie senza dover sottostare alle rigide regolamentazioni che sono previste negli altri paesi per l’esercizio dell’attività bancaria: non sono richiesti, per esempio, particolari requisiti di tipo patrimoniale che servono altrove per garantire un minimo di affidabilità. Ci sono poi i “paradisi societari”, paesi nei quali la tassazione sulle società è molto bassa e le regole contabili e amministrative sono molto blande. Ci sono anche i “paradisi giudiziari”, paesi nei quali, per esempio, non esiste il reato di evasione fiscale e quindi se qualcuno nasconde i soldi frutto di evasione in quel paese diventa impossibile perseguirlo.

Esistono dunque diverse tipologie di paradisi fiscali, come esistono anche diverse gradazioni di questo fenomeno.

Ma a cosa servono i paradisi fiscali? Servono per nascondere i proventi di attività illegali: traffico di stupefacenti, di armi, di esseri umani, di sostanze tossiche, attività mafiose, finanziamento di gruppi terroristici, soldi provenienti da corruzione, tangenti, truffe, evasione fiscale.

Come nascono i paradisi fiscali

Il Cantone di Zugo si trova nella Svizzera centrale, tra il Cantone di Lucerna e quello di Zurigo. È uno dei più piccoli cantoni della Confederazione Elvetica e già agli inizi del Novecento emanò una legislazione di favore per agevolare la costituzione sul suo territorio di società costituite da cittadini stranieri.

Tra le due guerre mondiali la Svizzera estese a tutto il paese quella normativa, che doveva servire ad attirare capitali dall’estero. Nel 1934 il segreto bancario divenne legge in tutta la Confederazione. Le banche non potevano, per legge, fornire dati sui loro clienti e sui loro conti a nessuno, nemmeno alle autorità giudiziarie e, soprattutto, fornire quei dati a governi stranieri era un reato grave che prevedeva anche la reclusione.

Quel che si racconta, o meglio, quello che gli svizzeri raccontano, è che quel provvedimento fu preso per tutelare gli ebrei che scappavano dalle confinanti Austria e Germania per sfuggire alle persecuzioni naziste. In realtà quel provvedimento era stato preso per altre ragioni. Nel 1932 nella confinante Francia era accaduto un grande scandalo finanziario. Il governo francese era in difficoltà per le conseguenze della crisi del 1929 e puntò l’attenzione su un istituto di credito svizzero, la Banca Commerciale di Basilea. La sede parigina di quella banca fu perquisita e furono trovati gli elenchi di più 2.000 cittadini francesi, tra cui importanti uomini politici e industriali famosi come i fratelli Peugeot, che avevano nascosto rilevanti fondi al fisco francese spostandoli su conti svizzeri. Di fronte alle pressioni del governo francese sulla Svizzera per ottenere ulteriori informazioni e collaborazione, il governo elvetico introdusse la legge sul segreto bancario rendendo impossibile ogni collaborazione con le autorità di Parigi.

La Svizzera continuò ad attirare capitali da altri paesi anche dopo la Seconda Guerra Mondiale e quel modello fu imitato da altre nazioni con le stesse finalità: attirare capitali stranieri senza farsi troppe domande e troppi scrupoli sull’origine di quei capitali.

Altri paesi, come il vicino Liechtenstein, le Bahamas nei Caraibi, il Libano in Medio Oriente, Panama in Centro America, l’Uruguay in Sudamerica adottarono legislazioni che ricalcavano quella svizzera. Nacquero così i paradisi fiscali.

La Svizzera, per la vicinanza geografica con l’Italia, divenne con la crescita economica del nostro paese il posto ideale nel quale nascondere i soldi che i contribuenti italiani intendevano sottrarre al fisco.

Nei paesini vicino alla frontiera molti contrabbandieri che vivevano del traffico illegale di sigarette diventarono “spalloni”. Così furono chiamati coloro che si incaricavano di attraversare il confine, magari passando attraverso i boschi, per depositare nelle banche svizzere le mazzette di banconote che gli venivano affidate dagli evasori italiani.

Un cantautore lombardo, Davide Van de Sfroos − che canta sia in italiano che in laghèe, il dialetto che si parla nelle zone attorno al Lago di Como, a ridosso con il confine svizzero − in una sua canzone ha raccontato la storia di uno di questi contrabbandieri. Quella canzone −La Ballata del Cimino − narra le disavventure di questo “spallone” che, per sfuggire alla Guardia di Finanza, si lancia con il suo bottino nelle fredde acque del lago.

Ma dopo la Seconda Guerra Mondiale avvenne un altro fatto molto rilevante. Il Regno Unito aveva perso il suo ruolo di potenza egemone a livello economico e finanziario, e quindi anche politico. Le due nuove potenze che si spartiscono il mondo sono nel campo comunista l’Unione Sovietica e in quello capitalista gli Stati Uniti. Londra, tra l’altro, nell’arco di qualche decennio perde anche quasi tutto il suo immenso impero coloniale a causa dei processi di decolonizzazione. La sterlina britannica, che fino alla Seconda Guerra Mondiale era la valuta di riferimento dell’intero sistema monetario mondiale, viene sostituita grazie agli accordi di Bretton Woods dal dollaro statunitense.

Il ruolo del Regno Unito

Questa situazione preoccupa molto gli inglesi: a nessuno piace il ruolo di una grande potenza in declino, l’orgoglio nazionale risulta ferito. Ma ci sono anche più banali ragioni pratiche. Londra era diventata una delle più importanti piazze finanziarie internazionali e le attività bancarie e finanziarie rappresentavano una parte rilevante dell’economia del Regno Unito. Un settore che dava lavoro a centinaia di migliaia di persone e che era alla base del benessere dell’intera nazione. Quel che gli inglesi decisero di fare fu di non rinunciare alla loro potenza finanziaria, anche se per raggiungere l’obiettivo dovevano un po’ modificare le regole. Decisero quindi di adottare una legislazione che attirasse capitali esteri in quelli che erano ormai i rimasugli dell’impero, piccoli territori rimasti sotto la loro giurisdizione ma che si trovavano sparsi in giro per il mondo e che godevano di un’ampia autonomia. Nacquero quindi una serie di nuovi paradisi fiscali come le Isole del Canale, un gruppo di isolotti nel canale della Manica tra la costa francese e quella inglese come Guernsey e Jersey, piccoli arcipelaghi nell’area dei Caraibi come le Bermude, le Isole Cayman o le British Virgin Island, le Isole Vergini Britanniche, come pure Gibilterra e Hong Kong.

I paradisi fiscali si moltiplicarono e il sistema finanziario britannico riuscì in questo modo a tenere sotto il suo controllo enormi flussi di capitali, anche quelli che passavano attraverso i paradisi fiscali posizionati in territori sotto giurisdizione inglese.

A partire dagli anni Settanta, con la crescita dei paesi produttori di petrolio, i flussi finanziari internazionali crebbero, sia quelli legali che quelli illegali. A partire dagli anni Novanta, poi, la nuova fase di globalizzazione, l’eliminazione della gran parte dei vincoli ai movimenti di capitali, le nuove tecnologie informatiche che facilitavano gli spostamenti di grandi masse di danaro, saranno tutti processi che porteranno alla moltiplicazione dei paradisi fiscali.

Il disinvolto atteggiamento molto accondiscendente dei britannici nei confronti dei paradisi fiscali fu adottato anche dagli Stati Uniti, in parte per ragioni simili ma anche per ragioni di carattere geopolitico. La necessità di tenere in qualche modo, in maniera indiretta, sotto controllo tutta una serie di movimenti finanziari, ma anche la necessità di far passare attraverso i paradisi fiscali movimenti finanziari di agenzie governative come la CIA per sostenere governi o movimenti politici impresentabili ma utili alla causa americana. E così all’interno degli Stati Uniti c’è lo Stato del Delaware che è un vero e proprio paradiso fiscale. Ma ci sono poi territori esterni, ma molto dipendenti dagli Stati Uniti, come Portorico o ancor meglio Panama. Quest’ultimo è un paese fondamentale per gli americani, perché sul suo territorio si trova l’omonimo canale, uno snodo strategico per l’economia statunitense. E infatti negli anni Ottanta, quando il Generale Noriega divenne Presidente di Panama e manifestò velleità di maggiore indipendenza da Washington, i marines americani invasero Panama e ripristinarono l’ordine in poche settimane.

Se guardiamo un po’ di dati scopriamo che oggigiorno il 30% circa delle attività finanziarie dei cosiddetti paradisi fiscali è riconducibile a paradisi che si trovano sotto giurisdizione britannica. Se a questo aggiungiamo le attività che passano per una serie di paesi che sono ormai indipendenti, ma si tratta comunque di ex colonie britanniche, come per esempio Bahamas, Malta, Cipro, Hong Kong, Singapore, Dubai, Bahrein che per varie ragioni sono anch’essi paradisi fiscali, quel 30% di cui parlavamo prima sale al 50%. Se ci aggiungiamo le attività che passano per paradisi fiscali controllati direttamente o indirettamente dagli Stati Uniti, si arriva al 70%. Quindi i due terzi delle attività finanziarie dei paradisi fiscali sono sotto il controllo diretto o indiretto di Regno Unito e Stati Uniti.

Ci sono poi paradisi fiscali all’interno della stessa Unione Europea. Il più conosciuto è il Lussemburgo, un piccolo Granducato che pur non producendo nulla ha, non casualmente, un reddito pro capite che è più di tre volte quello italiano! Ci sono inoltre piccoli paesi come il Principato di Monaco o Andorra, ma anche paesi come l’Irlanda e l’Olanda che offrono condizioni di grande favore alle società che si stabiliscono là. Pure alcuni paesi dell’Europa Orientale, dall’Estonia all’Ungheria, offrono condizioni molte vantaggiose.

Insomma, esiste una forte competizione persino tra paesi facenti parte dell’Unione Europea e dell’area Euro per attirare capitali. Qualcuno dice che si tratta di una forma di concorrenza sleale, altri sostengono che la questione va ribaltata: il problema non sarebbero i paesi con una tassazione agevolata ma quelli con una tassazione troppo onerosa.

Al di là di come la si possa pensare è indubbio che fare politiche economiche comuni su queste basi risulta oggettivamente complicato.

Evasione fiscale ed elusione fiscale

Negli anni si è sviluppato tutto un settore di consulenti aziendali che si occupano, come si dice con un bell’eufemismo inglese, di “tax planning”, cioè di “pianificazione fiscale”. Questi consulenti si occupano di aiutare le aziende a utilizzare a proprio vantaggio le differenze di tassazione che esistono tra i vari paesi.

A questo punto dobbiamo fare un ulteriore passo in avanti distinguendo tra due concetti diversi: l’evasione fiscale e l’elusione fiscale.

Cosa sia l’evasione fiscale lo sappiamo tutti. Se io guadagno 1.000 euro e non li dichiaro al fisco sto facendo evasione fiscale che, in tutti gli ordinamenti, è un reato punito in maniera più o meno dura a seconda del paese. Ma se un’azienda decide di spostare la sua residenza fiscale da un paese come l’Italia, caratterizzato da una tassazione piuttosto elevata, a un paese, per esempio, come l’Olanda che ha aliquote notevolmente più basse e concede diverse agevolazioni, quell’azienda non sta commettendo alcun reato: sta facendo elusione, sta semplicemente “ottimizzando” la sua organizzazione amministrativa sfruttando le differenze nel livello di tassazione che esistono tra paesi dell’Unione Europea. Dal momento che non esistono restrizioni ai movimenti di capitale, quell’azienda sta agendo in maniera razionale e assolutamente legittima. Un’operazione del genere l’ha fatta alcuni anni fa l’ex Fiat, che ora si chiama FCA, trasferendo la sua sede legale dall’Italia all’Olanda. Ma come lei, lo hanno fatto centinaia di altre aziende.

I governi si sono trovati negli ultimi decenni di fronte a un dilemma di difficile soluzione. Da un lato la totale liberalizzazione del mercato dei capitali spinge le aziende a cercare le soluzioni legali e, in alcuni casi anche illegali, per pagare meno tasse e questa necessità per le aziende ha portato alla proliferazione dei paradisi fiscali, in tutte le loro gradazioni.

D’altro lato gli stati, soprattutto dopo la crisi del 2008–2009, alla ricerca di sempre nuove fonti di entrata hanno cominciato a introdurre limiti e restrizioni nei confronti dei paradisi fiscali.

In Europa, per esempio, si è stretto il cerchio attorno alla Svizzera quando Germania, Francia e Italia hanno cominciato a fare pressioni sempre più energiche su quel paese inducendolo a eliminare molti dei vantaggi che offriva a chi portava i suoi soldi nelle banche svizzere. La stessa cosa è accaduta per la Repubblica di San Marino, piccolissimo paese che per decenni aveva prosperato grazie ai capitali nascosti nei forzieri delle sue banche dagli italiani, costretto a eliminare la legislazione di vantaggio che attirava quei flussi finanziari.

Nella prossima puntata vedremo meglio come funzionano i paradisi fiscali e cosa si è fatto e si sta facendo per contrastare il fenomeno.

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