Il XXI secolo sarà il “secolo cinese”?

Scritto da in data Gennaio 11, 2021

Nella competizione a tutto campo tra Cina e Stati Uniti chi risulterà vincitore? Quale sarà la potenza egemone nel XXI secolo?

Per un’esperienza più coinvolgente, invece di leggere ascoltate il podcast 

Riprendiamo in questa puntata i nostri ragionamenti sull’economia cinese. Avevamo concluso la puntata precedente (Qui il link) con la nuova strategia del presidente Obama chiamata “pivot to Asia”, fulcro sull’Asia.

Pivot to Asia

Gli Usa si rendono conto, dopo la crisi del 2008-09, che l’area asiatico-pacifica sta diventando la nuova locomotiva economica del pianeta. L’Europa dopo la crisi è ferma, con tassi di crescita risibili grazie all’accettazione delle politiche tedesche di austerità che servono soltanto alla Germania per rafforzare la sua posizione egemonica ma danneggiano gli altri paesi, soprattutto quelli mediterranei, Italia compresa. La Cina, invece, già dalla seconda metà del 2009 grazie a iniezioni massicce di liquidità nel sistema economico e alla ripresa degli investimenti pubblici torna a crescere a ritmi impressionanti trascinando anche i paesi limitrofi.

Allo stesso tempo gli Usa vogliono tirarsi fuori dal pantano mediorientale. Le cosiddette “guerre al terrore”, con l’invasione dell’Afghanistan prima e quella dell’Iraq dopo, si sono rivelate dei fallimenti. Il Presidente Obama vuole riportare a casa le truppe e sganciarsi da quel teatro. Inoltre gli Stati Uniti, grazie a una nuova tecnologia, non sono più così dipendenti, come in passato, dalle forniture petrolifere del Medio Oriente.

Il fracking è una nuova tecnica che consente di sfruttare gli enormi giacimenti di petrolio e gas dalle rocce di scisto presenti in grande quantità nel sottosuolo nordamericano. L’industria del fracking, che già aveva mosso i primi passi all’inizio del nuovo secolo, dopo la crisi finanziaria del 2008 subisce un’accelerazione. Il sistema finanziario, alla ricerca di nuovi business, mette a disposizione i capitali per sviluppare quelle produzioni e renderle sempre più competitive. Questo nuovo settore industriale ha creato negli Stati Uniti, negli ultimi dieci anni, quasi due milioni di nuovi posti di lavoro, la produzione nazionale di petrolio americana è quasi raddoppiata e si è ridotta la dipendenza dalle forniture estere.

Il PIL cinese supera il Giappone

Nel 2010, inoltre, accade un altro evento economico che desta ulteriori preoccupazioni negli americani: il PIL cinese supera quello del Giappone, e la Cina diventa la seconda economia del pianeta dopo quella statunitense.

Come conseguenza della nuova strategia che mette maggior attenzione sulle vicende asiatiche, gli USA lanciano il cosiddetto (TPP) Trans-Pacific Partnership (Partenariato trans-pacifico), un grande accordo commerciale per la realizzazione di una zona di libero scambio nell’area asiatica e del Pacifico, dagli Stati Uniti alla Cina sino all’Australia.

La vittoria di Donald Trump

Nel 2016 viene eletto presidente degli Stati Uniti Donald Trump, un outsider della politica che vince le elezioni sull’onda di uno slogan efficace: America first, l’America al primo posto. In quello slogan semplice e immediato si condensano pulsioni e ragionamenti più articolati. Innanzitutto il disagio di una parte delle classi lavoratrici, i cosiddetti “rednecks” come anche gli operai dei settori manifatturieri che hanno subito le conseguenze più pesanti della crisi economica e delle delocalizzazioni produttive. Ma emerge anche una nuova strategia nei confronti della Cina. Nel 2016 il deficit commerciale americano, cioè la differenza in valore tra le merci esportate dagli Usa verso la Cina e quelle importate da quel paese, raggiunge la cifra di quasi 350 miliardi di dollari.

Trump in sostanza riprese la politica del suo predecessore Obama che aveva cominciato a porre l’attenzione sulla Cina e a elaborare strategie per contenere le ambizioni sia economiche che soprattutto politiche di Pechino. Le linee di fondo delle strategie di una grande potenza come gli Stati Uniti seguono cicli di lungo periodo che prescindono anche dalle volontà dei singoli presidenti, ma ogni presidente ha comunque una sua autonomia e soprattutto un suo stile comunicativo. Quello di Trump è uno stile molto diretto al limite della rozzezza e della maleducazione. Trump ritiene inaccettabile che tra i due paesi vi siano squilibri commerciali così ampi. Abbandona il TPP e ingaggia subito con i cinesi una disputa economica.

Trump accusava i cinesi di pratiche commerciali scorrette e ribadiva la necessità di riequilibrare gli scambi tra i due paesi riducendo il deficit statunitense. Gli americani introducessero dazi sulle importazioni dalla Cina, che, a sua volta, rispose con dazi sulle importazioni americane e, fino all’inizio del 2020, si è andati avanti per quasi due anni con questa guerra dei dazi. Alla fine del 2019 i due paesi avevano trovato un accordo ma poi è arrivata la pandemia e gli scenari sono nuovamente cambiati.

Uno degli obiettivi americani era quello di riportare negli Stati Uniti produzioni manifatturiere che nei decenni precedenti erano state delocalizzate in Cina, distruggendo decine di migliaia di posti di lavoro americani. Alcune delle contestazioni che venivano fatte alla Cina avevano un fondamento oggettivo. I cinesi venivano accusati di aver mantenuto artificialmente basso il cambio della loro valuta, il Renminbi, per favorire le loro esportazioni. Questa era un’accusa fondata.

Il dumping, una politica commerciale scorretta

Inoltre, i cinesi furono accusati di praticare politiche di dumping. Il dumping è considerato una politica commerciale scorretta. In cosa consiste? Spiegato in maniera semplice consiste nel vendere sottocosto determinati prodotti per conquistare quote di mercato. Le aziende cinesi − molte delle quali sono, in parte o in toto, aziende statali − hanno applicato spesso politiche di dumping per entrare e affermarsi sui mercati esteri. Anche questa era un’accusa fondata.

Inoltre i cinesi hanno sviluppato la nuova tecnologia del 5G, anzi sono gli unici, assieme agli americani, a essere in grado di sviluppare questa tecnologia che richiede investimenti colossali. Ma, dicono gli americani, attraverso queste nuove tecnologie la Cina vuole condizionare i paesi occidentali utilizzandole per finalità spionistiche. Anche questa è un’accusa non priva di fondamento, d’altronde è quello che da sempre fanno gli Stati Uniti stessi.

Il problema è che se le accuse degli Stati Uniti alla Cina possono anche essere fondate, non sono di per sé condizione sufficiente per riuscire a cambiare registro, perché l’interconnessione tra economia cinese ed economia statunitense, tra economia cinese e resto del mondo, è diventata negli ultimi trent’anni sempre più stretta.

Gli Usa sono consapevoli dei rischi di un’eccessiva interdipendenza economica con la Cina anche se alcuni ritengono che l’interdipendenza economica impedisca ai due paesi di passare a una competizione sul piano politico-militare, che sarebbe foriera di pericoli ben maggiori. Chi pensa invece che la Cina sia, in prospettiva, un pericoloso rivale degli Usa anche sul piano politico e militare ritiene che questa interdipendenza vada ridotta e che occorra agire per contenere la Cina.

L’interconnessione tra l’economia cinese e quella del resto del mondo è cresciuta a dismisura negli ultimi decenni. Oggi dipendono fortemente dalla Cina molti paesi asiatici che sono entrati nelle catene del valore cinese come fornitori o come clienti, e che sono i paesi asiatici limitrofi: Filippine, Taiwan, Corea del Sud, Malesia, Vietnam, Indonesia, Singapore, Giappone. Poi ci sono i paesi che esportano materie prime minerarie, energetiche e agricole di cui la Cina è diventato uno dei maggiori acquirenti a livello globale: Australia, Cile, Sudafrica, Arabia Saudita, Ghana, Costarica, per citare i più importanti.

Ci sono poi tutta una serie di paesi che hanno beneficiato di forti investimenti e di aiuti da parte della Cina, paesi come l’Egitto, il Pakistan, il Perù e molti paesi africani come l’Etiopia, la Nigeria, e altri nei quali la Cina ha investito e ha costruito grandi infrastrutture in cambio di concessioni minerarie.

Ma la Cina è diventata anche un importante mercato di sbocco per le merci dei paesi europei e nordamericani, con la sua immensa popolazione e con una classe media di circa 500 milioni di persone, con capacità di spesa paragonabile a quella delle classi medie dei paesi occidentali, è un immenso mercato di sbocco per i nostri prodotti di consumo: veicoli, abbigliamento, prodotti alimentari, beni di lusso, arredi, prodotti informatici, cosmetica ma anche prodotti culturali come cinema, serie televisive, turismo. Ogni anno 150 milioni di cinesi viaggiano all’estero per turismo, in prevalenza negli altri paesi asiatici vicini ma ormai anche in Europa e negli Stati Uniti il turismo cinese cresce da un anno all’altro e rappresenta una fonte importante di consumi e di reddito.

Senza considerare poi che un sesto del debito pubblico americano è in mano cinese.

La Cina da paese povero a superpotenza

Decoupling

Data questa situazione il cosiddetto “decoupling”, lo sganciamento tra le filiere produttive dei due paesi è un’operazione tutt’altro che semplice, per varie ragioni. Gli Stati Uniti sono ancora molto più forti della Cina sia a livello economico che politico, militare, tecnologico mentre la Cina ha un fondamentale punto di forza: è attualmente la “fabbrica del mondo”. Nelle catene globali della produzione manifatturiera la Cina ha una superiorità assoluta. Anche durante la pandemia da Coronavirus ci si è resi conto che tutta una serie di presidi medico-sanitari − dalle mascherine ai reagenti per effettuare i tamponi, ai respiratori per le terapie intensive − vengono prodotti in gran parte in Cina. Non gli Stati Uniti, ma l’intera economia globale dipende dalle produzioni cinesi. Cambiare questo stato di cose è molto complicato. La Cina ha capacità produttive, a livello manifatturiero e quindi nei settori industriali, molto superiori a quelle degli Stati Uniti. Una delle ragioni per cui la Cina chiuderà il 2020 con una crescita del suo PIL di poco inferiore al 2% mentre tutte le altre grandi economie del pianeta chiuderanno con una forte recessione, è dovuto anche al fatto che l’economia cinese è centrata più sulla manifattura che sui servizi come, per esempio quella americana o quelle europee. I lockdown hanno colpito più duramente i servizi che non le attività industriali.

Ma questa situazione rappresenta un grosso problema per gli Stati Uniti, che vinsero la Seconda guerra mondiale perché avevano una capacità produttiva enormemente superiore a quella del Giappone e della Germania nazista: avevano una capacità di produrre aerei, navi, cannoni e bombe che era un multiplo di quella dei suoi nemici.

Anche nel confronto con l’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda gli Stati Uniti alla fine uscirono vincitori per la superiore capacità della loro economia di soddisfare meglio i bisogni della popolazione, mentre la sclerotica e burocratizzata economia sovietica non reggeva la competizione, non riusciva ad assorbire le nuove rivoluzioni tecnologiche e quando qualcuno cercò di riformarla, come fece Gorbaciov, implose mandando a picco l’intero sistema.

XXI secolo – Il secolo cinese

Oggi gli Stati Uniti, per la prima volta da un secolo a questa parte, si trovano di fronte, con la Cina, un avversario che ha capacità di produzione enormemente superiori a quelle americane. Il dato di fatto dal quale neanche gli americani possono prescindere è che gli Usa dipendono, come gran parte del mondo, dalla capacità produttiva cinese.

Gli Usa possono insistere, come ha fatto il Presidente Trump, sul reshoring, la pratica di riportare alcune produzioni strategiche che erano state delocalizzate in Cina negli Stati Uniti o quantomeno spostarle dalla Cina in altri paesi asiatici più controllabili. Ma sarà comunque un processo lento e costoso, oltre al rischio che mentre gli Stati Uniti si sganciano da Pechino nuovi partner, per esempio gli europei, potrebbero sostituirsi nella ricerca di nuovi affari.

Già qualcuno si è spinto a definire il XXI secolo come il “secolo cinese”. Le teorie sul declino dell’Occidente, e soprattutto sul declino americano, unite ai numeri effettivamente impressionanti della crescita economica e tecnologica cinese, spingono a pensare talvolta pure gli stessi attori di questa competizione che le cose effettivamente andranno in questo modo.

Che la Cina intenda tornare all’antica grandezza dell’epoca imperiale è indubbio e anche naturale che sia così. Il problema della Cina è che il suo tentativo di espandere la sua egemonia geopolitica e strategica, contrastando il predominio americano, non può basarsi soltanto sui successi economici ma dovrebbe basarsi anche su quello che qualcuno ha chiamato il soft power, cioè sulla capacità di esercitare un’attrazione e un’egemonia culturale, ma su questo piano la Cina di strada ne deve fare ancora parecchia.

Chinese way of life

È indubbio che nei paesi occidentali, soprattutto in Europa, ci si faccia facilmente cogliere da una sorta di fascinazione per un paese che cresce a ritmi così rapidi, dove in pochi anni si riescono a costruire migliaia di chilometri di strade, ferrovie, porti, aeroporti, grattacieli, metropolitane e altro. L’efficienza cinese ci affascina, questo è vero, ma nessuno di noi − o comunque pochi − subiscono il fascino irresistibile della cultura cinese, o sono attratti dal modo di vivere cinese, dalla chinese way of life. Siamo invece tutti imbevuti di cultura americana, di miti americani, di film e serie televisive americane, di sogni e ideali americani, di prodotti americani.

La Cina si è conquistata il rispetto e la stima del resto del mondo in questi decenni per la sua straordinaria capacità di cambiamento e il suo dinamismo, ma per riuscire a diventare la potenza dominante dovrà essere capace di farsi amare o quantomeno benvolere dal resto del mondo. Nonostante gli Stati Uniti non abbiano a livello internazionale comportamenti irreprensibili, godono di una rete di alleanze che la Cina non ha e godono di una reputazione migliore di quella cinese.

Le teorie sul tramonto dell’Occidente o sul declino degli Stati Uniti sono vecchie come il cucco. Esattamente un secolo fa, anni Venti del Novecento, un brillante filosofo tedesco, Oswald Spengler, dava alle stampe un poderoso lavoro che si intitolava significativamente “Il tramonto dell’Occidente”. Da allora i volumi sul declino dell’Occidente e degli Stati Uniti si sono moltiplicati. Quelle teorie hanno certamente un fondamento di verità ma non bisogna dimenticare che il sistema americano ha dimostrato, sinora, una grande e talora inaspettata dinamicità e capacità di reazione nei momenti decisivi della sua storia.

È vero – periodicamente, come è accaduto anche lo scorso sei gennaio − che dagli Stati Uniti ci arrivano segnali di una profonda crisi politica, sociale e culturale, con ex Presidenti che non si rassegnano alla sconfitta elettorale e arrivano a sobillare una variopinta combriccola di ex sostenitori del Ku Klux Klan, frange neonaziste, suprematisti bianchi e svalvolati di complemento come il bislacco “sciamano”, presentatosi a Capitol Hill a torso nudo, con un copricapo di pelliccia e corna di bisonte. Ma la potenza mediatica, scientifica, culturale e tecnologica degli USA non è in crisi, anzi!

La Cina è destinata a diventare, nell’arco di uno o due decenni, la maggiore potenza economica del pianeta: si tratta di un processo storico che è nei numeri e difficilmente arrestabile, ma bisogna sempre ricordarsi di quello che diceva Charles Darwin nell’Ottocento. Lo scienziato inglese spiegò con grande dovizia di dati che nella storia dell’evoluzione biologica non vincono i più grandi o i più forti ma i più adatti, una regola questa che spesso vale anche per i sistemi economici e politici. Alla fine vince chi ha maggior capacità di adattarsi ai cambiamenti e quindi il confronto tra Stati Uniti e Cina per l’egemonia mondiale continuerà nei prossimi decenni ma non è per nulla scontato dire chi ne uscirà vincitore: si tratta di una partita ancora tutta da giocare.

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