I rapporti Cina-Usa: dalla collaborazione alla competizione

Scritto da in data Gennaio 5, 2021

Le relazioni tra Cina e Stati Uniti si sono evolute, passando dalla collaborazione alla competizione per la supremazia sia economica che politica e tecnologica.

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Capodanni a confronto

Oggi parliamo del confronto tra la Cina e gli Stati Uniti partendo da due immagini trasmesse dalle televisioni di tutto il mondo alcuni giorni fa. Sera del 31 dicembre 2020, alcuni minuti prima della mezzanotte. A Wuhan, la città della Cina dalla quale un anno fa partì la pandemia da coronavirus, migliaia di persone in piazza a festeggiare il Capodanno, tutti con la mascherina ma comunque assembrati l’uno accanto all’altro. Nello stesso momento a Times Square, il cuore di New York, pochissime persone per strada e grandi video a trasmettere i festeggiamenti per l’arrivo del nuovo anno. Quello stesso giorno negli Stati Uniti si era raggiunto un nuovo record, quello dei morti a causa del Coronavirus: ben 3.927 in sole 24 ore.

Quelle due immagini sono emblematiche del confronto tra le due grandi superpotenze del pianeta. Da un lato la Cina e tutti i paesi asiatici nei quali la lotta al virus è stata condotta con grande energia attraverso un mix efficace di: disciplina sociale, utilizzo massiccio delle più moderne tecnologie, organizzazione capillare, tecniche di tracciamento e isolamento dei contagiati. Dall’altra gli Stati Uniti e i paesi europei, quello che chiamiamo Occidente, paesi caratterizzati da un individualismo esasperato che rasenta talora l’imbecillità, dove si sono sviluppati movimenti sui social, cavalcati anche da qualche politico in cerca di consensi, che si battevano per la libertà, contro gli obblighi di portare la mascherina o contro le norme di distanziamento sociale o addirittura contro il divieto di consumare aperitivi e fare feste, divieti scambiati per le prime avvisaglie di una dittatura mondiale che voleva conculcare le libertà individuali, confondendo difesa della libertà con prescrizioni mediche di salute pubblica. Se un medico dice a un diabetico che non deve consumare dolci non lo fa per calpestare l’inalienabile libertà di quel paziente a mangiare quello che gli pare, ma lo fa per salvargli la vita. Se si confondono i due concetti è difficile venirne fuori. Eppure abbiamo visto, non più tardi di qualche mese fa, l’ormai ex presidente Trump affacciarsi da un balcone e togliersi la mascherina con un gesto di sfida e di spavalderia degni di miglior causa.

La pandemia, e soprattutto il modo con cui questa tragedia è stata affrontata e gestita, ha allargato ancor più le differenze tra la Cina e gli Stati Uniti. Se alla fine del 2019 i maggiori centri di analisi economica prevedevano che la Cina avrebbe superato gli Stati Uniti in termini di PIL entro il 2033, a fine 2020 quelle previsioni sono state aggiornate e si pensa che il sorpasso avverrà entro il 2028.

Qual è la prima economia del pianeta?

Ma vediamo alcuni dati. Oggi la Cina è la seconda economia del mondo dopo quella statunitense, se facciamo un raffronto in termini di PIL. Ma se il raffronto lo facciamo in termini di PIL a parità di potere d’acquisto, la Cina risulta essere già la prima economia del pianeta. Spieghiamo meglio. Il PIL è un indicatore grossolano e discutibile del livello di ricchezza e di sviluppo di un paese, un indicatore che molti economisti criticano anche con valide ragioni − ne parleremo prossimamente − ma che, tuttavia, è un indicatore ampiamente utilizzato, pur presentando diversi problemi. Uno di questi è che il valore nominale del PIL di due paesi diversi, sia pure tradotto nella stessa valuta, è un indicatore che non tiene conto del fatto che il costo della vita possa essere differente. Facciamo un esempio pratico senza bisogno di andare molto lontani. Sappiamo tutti che il costo della vita a Milano è mediamente più alto rispetto, per esempio, a Catanzaro. A Milano un kg di pane costa mediamente sei euro, a Catanzaro tre euro; l’affitto di un bilocale a Milano costa 800-900 euro al mese, a Catanzaro costa la metà e via di seguito. Quindi, se io guadagno, supponiamo, 1.500 euro al mese e vivo a Milano sto peggio rispetto a chi guadagna la stessa cifra ma vive a Catanzaro. Pertanto, se paragoniamo il PIL di un cinese e quello di un americano non possiamo semplicemente fare una valutazione in termini nominali: 1.000 dollari guadagna l’americano e l’equivalente di 1.000 dollari guadagna il cinese. Innanzitutto perché c’è un problema di cambi valutari che possono distorcere i valori, ma questo è un problema di cui per ora non ci occupiamo per non complicarci la vita. È però di tutta evidenza che con la stessa cifra, supponiamo 1.000 dollari al mese, a New York farei la fame perché il costo della vita è piuttosto elevato, mentre a Pechino vivrei dignitosamente. Per ovviare a questo genere di problemi quando si fanno i confronti tra paesi diversi gli economisti hanno creato un indicatore, complicatissimo da calcolare ma che serve per fare raffronti omogenei, che si chiama PIL a PPA (parità di potere d’acquisto) o, in inglese, PPP (purchasing power parity). Quindi, se prendiamo i valori del PIL degli Stati Uniti in termini nominali nel 2019 esso era pari a 21.433 miliardi di dollari, mentre quello della Cina era pari a 14.343 miliardi di dollari. Se però consideriamo il valore del PIL a PPA sempre nel 2019, quello della Cina era pari a 25.360 miliardi di dollari e quello degli Stati Uniti era pari a 20.490 miliardi di dollari. Quindi la Cina ha già superato gli Stati Uniti. Ovviamente bisogna tener conto che la Cina ha una popolazione che è 4 volte quella degli Stati Uniti e quindi il PIL pro-capite è molto più basso.

La Cina è destinata a breve a diventare la principale potenza economica del pianeta e man mano che aumentano la ricchezza e il benessere, emergono anche le ambizioni politiche e geopolitiche che sinora erano presenti ma venivano tenute sottotraccia. D’altronde la Cina è un paese con una storia millenaria, una grande tradizione culturale, un regime certamente pragmatico ma comunque ancorato a un’ideologia forte, quella marxista-leninista. Le ambizioni politiche stanno portando la Cina a rafforzare e modernizzare anche il suo apparato militare e a manifestare maggiore aggressività nei confronti dei suoi vicini, a cominciare da Taiwan la cui indipendenza non è mai stata riconosciuta da Pechino. Ma ci sono anche contenziosi territoriali, su piccoli arcipelaghi nel Mar Cinese Meridionale e nel Mar Cinese Orientale, con paesi come il Vietnam o il Giappone. Le ambizioni cinesi preoccupano ovviamente gli Stati Uniti.

Le ambizioni cinesi

Le ambizioni cinesi debbono fare i conti con i rapporti di forza che allo stato attuale sono ancora a favore degli americani. La Cina è circondata da paesi che vengono beneficiati dalla crescita economica di quel paese, che ha fatto oggettivamente da traino per lo sviluppo di tutta l’area asiatica e pacifica, ma sono, allo stesso tempo, paesi che temono che la Cina possa trasformarsi da semplice partner commerciale in potenza con mire egemoniche. E questa cosa non è gradita a nessuno. Non piace all’India, l’unico paese asiatico che ha la stazza per competere con la Cina quantomeno in termini di popolazione, risorse e ambizioni. Il problema è che l’India, che pure sta crescendo rapidamente, ha un’economia che è un quinto di quella cinese. La Cina suscita diffidenza negli altri paesi asiatici come Indonesia, Tailandia, Singapore, Malesia, Vietnam, che sono paesi molto più piccoli nei quali, tra l’altro, vivono e prosperano minoranze più o meno consistenti di popolazione di etnia cinese. Ci sono poi paesi sviluppati come il Giappone e la Corea del Sud con i quali esistono dissidi storici e che sono alleati strettissimi degli Usa. A nord c’è poi la Russia con cui Pechino ha stabilito ottimi rapporti ma i due paesi non si sono mai piaciuti troppo e soprattutto non si sono mai amati. I russi temono che la Cina possa mirare agli immensi territori siberiani, in gran parte spopolati ma ricchissimi di risorse di ogni genere, soprattutto minerarie ed energetiche.

La Cina ha grandi ambizioni ma è una potenza continentale, con pochi alleati veri, che sta cercando di sfruttare la sua dinamica economia e le sue risorse finanziarie per diventare una grande potenza. La strategia lanciata un paio d’anni fa dalla Cina e chiamata “Belt and Road Initiative” − tradotta in italiano come Nuova Via della Seta − era un grande programma di investimenti infrastrutturali per creare nuove rotte commerciali. La prima che partiva dal Sud Est asiatico, passava per il Pakistan e il Medio Oriente e arrivava fino al Mediterraneo e in Europa; la seconda che partiva dalla regione interna dello Xinjiang cinese, passava dalle ex repubbliche asiatiche dell’Unione sovietica, la Russia, l’Europa orientale e arrivava  sino all’Europa centrale. Ovviamente le rotte commerciali sono oggi, come lo erano nei secoli passati, anche le rotte attraverso le quali far passare la propria influenza politica.

C’è quindi una oggettiva competizione tra Cina e Stati Uniti − i due paesi assieme rappresentano il 40% del PIL mondiale − e la pandemia ha accentuato le distanze tra i due paesi mentre le loro economie sono ancora fortemente interconnesse. Ma ripercorriamo sinteticamente come si sono evoluti i rapporti tra i due paesi.

La Cina da paese povero a superpotenza

Dalla collaborazione alla competizione

Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale i comunisti, guidati da Mao Zedong, vincono la guerra civile in corso in Cina. I loro avversari, i nazionalisti guidati dal generale Chiang Kai-Shek, si rifugiano nell’isola di Formosa, l’attuale Taiwan dove, con l’aiuto e la protezione americana, costituiscono una nuova entità statale che si contrappone alla Repubblica Popolare Cinese. Il mondo in quel periodo si sta dividendo in due blocchi contrapposti, quello capitalista guidato dagli Stati Uniti e quello comunista guidato dall’Unione Sovietica. La Cina si associa a quest’ultimo blocco e qualche anno dopo soldati cinesi e americani si scontreranno nella guerra di Corea, così come si scontreranno negli anni Sessanta quando la Cina manderà aiuti e anche soldati a combattere a fianco del Vietnam del Nord comunista attaccato dagli Stati Uniti.

Verso la fine degli anni Sessanta si consuma però uno scontro ideologico tra la Cina e l’Unione Sovietica. I cinesi cacciano dal paese migliaia di consiglieri sovietici, sia militari che civili, e avvengono anche scontri lungo la frontiera siberiana tra i due eserciti. La Cina, che è un grande paese ma è militarmente debole, si apre diplomaticamente agli Stati Uniti. Il presidente Nixon e il suo Segretario di Stato Henri Kissinger, seguendo la vecchia regola della politica secondo la quale il nemico del tuo nemico è tuo amico, aprirono alla Cina in funzione antisovietica. Le relazioni tra i due paesi migliorarono e, dopo la scomparsa di Mao e l’ascesa al potere di Deng Xiao Ping, i rapporti si intensificarono. Negli anni Ottanta, quando in Cina furono create le prime zone economiche speciali, gli americani furono tra i primi a investire.

Negli anni Novanta, dopo la scomparsa dei blocchi ideologici contrapposti, inizia una nuova globalizzazione guidata politicamente dagli Stati Uniti ed economicamente dalla crescita impetuosa della Cina. Il rapporto che si viene a creare tra Cina e USA è un rapporto basato sul più spregiudicato pragmatismo da entrambe le parti. La Cina di fatto adotta l’economia di mercato come meccanismo per modernizzarsi e migliorare le condizioni di vita della sua sterminata popolazione. Gli americani favorirono la crescita economica cinese per varie ragioni. Innanzitutto, erano convinti che se i cinesi si fossero arricchiti sarebbero venute meno le velleità ideologiche e aggressive. Per dirla in termini un po’ semplicistici, se i cinesi avessero avuto la pancia piena sarebbero stati meno propensi a far guerre contro gli USA o i loro alleati. Il benessere economico storicamente affievolisce gli spiriti bellici. Certamente gli americani pensavano di favorire la crescita cinese ma di riuscire a mantenere quel paese in una posizione di subordinazione e di dipendenza.

Gli Stati Uniti, inoltre, grazie al fatto di possedere il dollaro − la moneta di riserva per eccellenza a livello globale − potevano permettersi di finanziare per lungo tempo forti deficit commerciali con la Cina, un paese capace di produrre enormi quantità di beni di ogni genere a prezzi estremamente competitivi, grazie all’abbondanza di manodopera a buon mercato e a regole ambientali molto blande. La grande disponibilità di beni a basso costo prodotti in Cina si sposa meravigliosamente con la rivoluzione neoliberista che, di fatto, favorisce le minoranze più ricche della popolazione americana. I ricchi vengono beneficiati da forti sconti fiscali e di conseguenza aumentano le disuguaglianze mentre i redditi dei lavoratori e dei ceti medi restano al palo o addirittura diminuiscono. La possibilità di acquistare beni prodotti in Cina a basso costo compensa la riduzione del potere d’acquisto dei redditi dei ceti medi e dei salari dei lavoratori. Gli enormi surplus commerciali di Pechino consentono a quel paese di continuare da un lato a rafforzare il processo di crescita economica tramite grandi piani di investimenti infrastrutturali, ma anche di investire parte di quelle eccedenze finanziarie in titoli del debito pubblico americano. Tramite il debito gli Usa mantengono i consumi e la potenza americana.

Nel 2001 gli USA appoggiarono l’entrata della Cina nella WTO (World Trade Organization) − l’Organizzazione mondiale del commercio − aprendo del tutto i ricchi mercati occidentali alle esportazioni cinesi, anche perché dopo l’attacco terroristico alle torri gemelle dovevano finanziare la cosiddetta “guerra al terrore” e per finanziarla avevano due strade: aumentare le tasse agli americani oppure indebitarsi ulteriormente con il resto del mondo, principalmente la Cina. Scelsero la seconda opzione. Le guerre al terrore furono finanziate a debito.

La crisi finanziaria del 2008

L’incantesimo si rompe però con la crisi finanziaria del 2008. C’è un aneddoto, passato in secondo piano, che spiega bene il tipo di rapporto che si era creato tra Usa e Cina. Nell’autunno del 2008, dopo il fallimento della banca Lehman Brothers, sui mercati finanziari si scatena il panico. A un certo punto il governatore della FED (Federal Reserve) − la banca centrale statunitense − Ben Bernanke, avvisa l’amministrazione del Presidente Bush del pericolo e sostiene che se entro il lunedì successivo non si fosse stati in grado di immettere almeno 700 miliardi di dollari di liquidità nel sistema finanziario l’intero sistema capitalistico mondiale sarebbe collassato. Gli americani non riuscivano in tempi così stretti a trovare quella liquidità e quindi pensarono di chiedere aiuto ad altri paesi. Le due uniche entità, a livello planetario, in grado di mobilitare in breve tempo risorse così consistenti erano l’Unione Europea e la Cina. Gli americani non contattarono gli europei: sapevano che erano divisi su tutto, troppo litigiosi e soprattutto incapaci di prendere decisioni rapide ed efficaci in breve tempo. Chiamarono i cinesi spiegando il problema. Si riunirono in fretta e furia i vertici dello Stato e del partito comunista cinese e nel giro di poche ore la Cina diede il suo assenso. Il lunedì successivo la Cina mise a disposizione degli americani i 700 miliardi di dollari necessari per salvare il sistema capitalista.

I cinesi fecero quella scelta dimostrando grande capacità di leadership: la leadership implica anche assunzione di responsabilità, soprattutto nei momenti difficili. Ma i cinesi acconsentirono anche per una ragione pratica, sapevano che una parte importante delle loro riserve finanziarie erano investite in titoli del debito americano: se gli Usa fossero collassati quei loro investimenti sarebbero diventati carta straccia. Come dice un vecchio detto: se tu hai un debito con la tua banca di 100.000 euro è un tuo problema ma se tu hai un debito con la tua banca di 1 miliardo di euro il problema è della tua banca, cioè di chi ti ha prestato i soldi!

I cinesi avrebbero potuto rispondere: cari americani, il casino l’avete fatto voi ora risolvetevelo. Ma l’interdipendenza economica tra i due paesi era ormai talmente forte che i cinesi non potevano far altro che salvare gli Stati Uniti.

Da quel momento in poi i rapporti tra i due paesi cominciano a prendere strade diverse. I cinesi si rendono conto che il loro modello di crescita basato principalmente sullo sviluppo delle esportazioni è molto rischioso perché espone il paese e la sua prosperità agli andamenti della domanda mondiale di beni, domanda che, se arriva una crisi pesante come quella del 2008, si riduce rapidamente mettendo in crisi anche l’economia cinese. Il paese deve optare per un modello di sviluppo più equilibrato favorendo la crescita dei consumi interni e puntando su settori a più alto valore aggiunto. Gli Stati Uniti si rendono conto che la Cina sta diventando troppo forte economicamente e quindi comincia anche a far trasparire ambizioni politiche.

Negli ultimi dieci anni, mentre l’Europa si baloccava con le “trojke”, l’austerità espansiva e le regole di Maastricht − formule alchemiche e soluzioni esoteriche spacciate per politiche economiche − il baricentro dell’economia mondiale si spostava dall’Atlantico al Pacifico. Gli Stati Uniti se ne resero conto e infatti l’amministrazione Obama avviò una nuova strategia, quella che fu chiamata “pivot to Asia” letteralmente “fulcro sull’Asia”, che indicava la necessità di un ribilanciamento della politica estera americana.

Ma di quel che è successo nell’ultimo decennio parleremo nella prossima puntata.

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