La Cina da paese povero a superpotenza
Scritto da Pasquale Angius in data Dicembre 21, 2020
In pochi decenni la Cina, che era un paese povero, è riuscita a diventare una superpotenza. Cerchiamo di capire come ha fatto.
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Riprendiamo in questa puntata l’analisi sull’economia della Cina (qui il primo episodio), una nazione che nel giro di pochi decenni, da paese povero è diventata una superpotenza.
L’ascesa di Deng Xiaoping
Come dicevamo nella puntata precedente, nel dicembre del 1978 arriva al potere Deng Xiaoping, un leader pragmatico che avvia subito un vasto programma di riforme economiche chiamato le “4 modernizzazioni”.
Ma come ha fatto la Cina a diventare in breve tempo una superpotenza? Nell’arco di soli quattro decenni, su una popolazione totale di circa un miliardo e quattrocento milioni, quasi novecento milioni di cinesi che vivevano e lavoravano nelle campagne si sono inurbati, hanno cambiato lavoro, hanno imparato nuovi mestieri, hanno inventato nuovi business, hanno conquistato i mercati esteri con le loro merci. Sono sorte nel paese decine di metropoli, sono stati creati milioni di nuovi edifici sia per finalità residenziali, sia per finalità commerciali. Tutto il sistema delle infrastrutture è stato potenziato e ammodernato a tempo di record. Oggi lo skyline delle principali città cinesi è costituito da una selva di grattacieli e di edifici ultramoderni, sono stati costruiti migliaia di chilometri di strade, autostrade, reti metropolitane, ponti e viadotti, gallerie, ferrovie ultramoderne.
Oggi la Cina è una superpotenza economica con posizioni d’avanguardia in settori ad alta tecnologia come le telecomunicazioni, la robotica, l’auto elettrica, solo per fare alcuni esempi.
Ma torniamo un po’ indietro. All’inizio degli anni Ottanta Deng Xiaoping si rende conto che la Cina se vuole svilupparsi si deve aprire al resto del mondo. Il paese ha bisogno di capitali e tecnologie. Fu innanzitutto smantellato il vecchio sistema delle comuni agricole e fu data ampia libertà ai contadini di produrre e vendere i propri prodotti. Nel 1980 si creano le prime Zone economiche speciali, a ridosso delle province costiere del paese, soprattutto vicino a Hong Kong, Macao e all’isola di Taiwan. Hong Kong era ancora sotto controllo britannico e tornerà a far parte della Cina nel 1997, ma era già un’importante piazza finanziaria e una piccola città-Stato con un’economia molto florida ma con un fondamentale problema: la mancanza di spazi per creare nuovi insediamenti produttivi. A ridosso di Hong Kong, in territorio cinese, c’era un piccolo villaggio di pescatori che si chiamava Shenzen e che diventa la prima Zona economica speciale nella quale le imprese straniere possono investire e creare nuove fabbriche godendo di notevoli incentivi fiscali, potendo attingere a una manodopera infinita e a buon mercato proveniente un po’ da tutto il paese, potendo anche contare su regolamentazioni sia di tipo ambientale che di altro genere, molto lasche. Shenzen in brevissimo tempo diventa una megalopoli: oggi ha quasi 13 milioni di abitanti e la regione a cui appartiene, quella del Guandong, diventa uno dei motori della crescita economica cinese.
Inizialmente nelle Zone economiche speciali si insediano produzioni cosiddette “labour intensive”, cioè quelle attività che hanno bisogno di molta manodopera come, per esempio, l’industria tessile, le calzature o la produzione di componentistica elettronica. Ma i cinesi sono gente sveglia e ambiziosa e sono stati per secoli un popolo di grandi mercanti. Sono intraprendenti, non hanno paura di faticare, imparano subito e sono bravissimi a copiare. Lo Stato si occupa di definire le strategie di lungo periodo, di creare le infrastrutture necessarie per modernizzare il paese e continua a svolgere, attraverso grandi imprese pubbliche, un ruolo decisivo in settori importanti come quelli dell’industria pesante, della finanza o delle telecomunicazioni. Agli imprenditori privati vengono lasciati ampi margini di libertà, si possono arricchire ed esibire il loro successo. Gli investitori esteri vengono attirati dalle grandi possibilità di guadagno. Si crea quindi un mix vincente tra ruolo dirigistico dello Stato, intraprendenza privata e investimenti esteri che porta in pochi anni la Cina a raggiungere tassi di sviluppo da record.
La crisi dell’Unione Sovietica
Negli anni Ottanta entra in crisi l’Unione Sovietica, l’altro grande paese socialista. Nel 1985 viene eletto segretario generale del partito comunista sovietico Michail Gorbaciov, un energico cinquantenne fermamente intenzionato a riformare il suo paese. Gorbaciov lancia due nuove parole d’ordine: glasnost, che in russo significa trasparenza, e perestrojka che significa ristrutturazione. In estrema sintesi Gorbaciov pensa che l’Urss possa essere cambiata e modernizzata a condizione che il sistema burocratico e autoritario che governa il paese venga gradualmente smantellato e reso più trasparente, quindi più democratico, precondizione per riformare anche il sistema economico. Ma la scommessa di Gorbaciov che è molto ambiziosa, si rivela anche, alla prova dei fatti, molto velleitaria. Le potenze occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti, apparentemente appoggiano Gorbaciov ma in realtà hanno come unico obiettivo quello di eliminare un potente avversario. Gli apparati amministrativi dello Stato sovietico e del partito comunista, che spesso si sovrappongono, sono spaventati dai cambiamenti perché pensano di perdere potere e privilegi. A sua volta Gorbaciov è circondato da una schiera di consiglieri che devono improvvisare giorno per giorno. Non esiste un manuale di riferimento per riformare in maniera graduale e tranquilla una grande potenza nucleare come l’Unione Sovietica. Inoltre nel momento in cui in un paese enorme, multietnico, molto variegato sotto ogni punto di vista, si attenua il controllo centralizzato riemergono le antiche spinte centrifughe. Rinascono i nazionalismi, le antiche credenze religiose e anche gli odi e i conflitti interetnici e interconfessionali. Il cambio radicale nella politica estera sovietica, con il ritiro delle truppe prima dall’Afghanistan e poi dall’Europa orientale, mettono fine a quello che era stato definito l’impero sovietico, con conseguente perdita di potere e di prestigio per le strutture militari. Infine Gorbaciov trascura, o meglio sottovaluta, le questioni economiche: le sue riforme, spesso improvvisate, creano caos e finiscono per peggiorare le condizioni economiche di gran parte della popolazione sovietica.
Dopo uno sgangherato tentativo di golpe, organizzato da una minoranza conservatrice all’interno del partito e dello Stato sovietico, il 26 dicembre del 1991 l’Urss si scioglie e 74 anni dopo la Rivoluzione d’Ottobre la bandiera rossa viene ammainata dalle torri del Cremlino.
Le vicende sovietiche hanno una grande eco anche in Cina, l’altro grande paese comunista e anche all’interno del partito comunista cinese prende forza e coraggio l’ala riformista, che punta su una democratizzazione del regime e ispira i moti popolari di piazza Tienanmen nella primavera del 1989. La risposta del regime, dopo alcune settimane di incertezza, fu durissima: proclamazione della legge marziale e la piazza sgomberata con i carri armati dai reparti dell’Esercito popolare cinese. Non si sa ancora quante furono le vittime di quella repressione brutale ma si stima siano state alcune migliaia, come migliaia furono i feriti e coloro che finirono in prigione.
Le leadership cinese non aveva alcuna intenzione di fare la fine di Gorbaciov. Il partito comunista cinese aveva compreso che per modernizzare il paese occorreva liberalizzare il sistema economico e migliorare le condizioni materiali di vita della popolazione, un’impresa storica e molto complessa, ma il partito non era minimamente intenzionato a perdere il potere.
Chen Yun, uno dei più stretti collaboratori di Deng Xiaoping e, verosimilmente, il principale artefice delle prime riforme di mercato, sintetizzò la visione molto pragmatica della maggioranza dei quadri del Partito comunista cinese, tracciando un’analogia fra l’economia e un “uccello in gabbia”: l’economia della Cina era l’uccello e la gabbia, cioè il controllo esercitato dal partito, doveva essere allargata, perché l’uccello godesse di maggiore salute e fosse più dinamico, ma non poteva essere aperta o rimossa, altrimenti l’uccello sarebbe volato via.
Nel 1997 Deng Xiaoping muore ma la sua linea politica continua a essere seguita dai suoi successori anche perché è una strategia che funziona. L’economia cinese continua a crescere a ritmi del 7-8% all’anno con punte che, nel primo decennio del nuovo secolo, arriveranno al 10-12%.
Lo sviluppo cinese si è inizialmente basato su un modello cosiddetto “export oriented”, basato cioè sulla crescita continua delle esportazioni di merci sui mercati internazionali e poco sullo sviluppo della domanda interna.
La Cina entra nel WTO
Nel 2001 la Cina riesce a entrare nella WTO (World Trade Organization), l’Organizzazione mondiale del commercio, un ente sovranazionale che sovrintende alle regole degli scambi commerciali tra i vari paesi. Entrare in quell’accordo significa, di fatto, accettare una riduzione dei dazi doganali e degli altri ostacoli non tariffari al libero scambio tra i paesi. Di fatto i ricchi mercati occidentali si aprono alle merci cinesi. La Cina ormai sta diventando la “fabbrica del mondo” e i suoi prodotti, che godono di una forte competitività in termini di prezzo, mettono in crisi interi settori produttivi nei paesi occidentali. Pensiamo, per fare un esempio, all’impatto negativo che ha avuto sul settore tessile italiano l’apertura alle importazioni cinesi.
In realtà le esportazioni di quel paese, concentrate in gran parte su prodotti a basso valore aggiunto, sono importanti più per dare lavoro e reddito a grandi quantità di manodopera, spesso poco qualificata, che non per generare un apporto consistente in termini di valore. Gran parte delle produzioni orientate all’export sono lavorazione e assemblaggio di prodotti o componentistica, spesso importata da altri paesi, con margini di ricarico modesti.
Questo problema emerge in maniera evidente con la crisi del 2008-09, quando il calo del PIL nei paesi occidentali riduce anche le importazioni di merci cinesi.
La Cina si rende conto che un modello di sviluppo basato soltanto sulla crescita delle esportazioni è molto fragile e rischioso. Se sopraggiunge una crisi di qualunque natura che blocca la crescita degli scambi commerciali si blocca anche la crescita economica del paese. Occorre quindi riorientare il modello di sviluppo puntando sulla crescita della domanda interna.
Il Governo cinese già con l’approvazione del 13° Piano Quinquennale, entrato in vigore da marzo 2016, si è dato questo genere di obiettivi, volontà ribadita anche negli anni successivi.
Le autorità cinesi vogliono passare da un modello fondato prevalentemente sulle esportazioni a un modello di sviluppo più equilibrato, basato sulla crescita della domanda interna e sulle esportazioni che però debbono gradualmente spostarsi verso i settori high tech, quelli a maggior valore aggiunto, abbandonando gradualmente quelli “labour intensive” dove i margini sono bassi e il fattore di competitività principale è il basso costo della manodopera. In questo modo potranno mettere l’economia cinese al sicuro dalle fluttuazioni dei mercati internazionali e dare stabilità strutturale al processo di crescita economica.
All’interno del Partito comunista cinese, che ha più di 80 milioni di iscritti e che svolge una funzione di “stanza di compensazione” tra gli interessi dei diversi gruppi sociali, e all’interno del quale si svolgono battaglie politiche molto forti, si confrontano in questa fase storica, a grandi linee, due diverse correnti che, per usare una terminologia più adatta ai nostri sistemi politici, potremmo definire una corrente di centro-destra e una corrente di centro-sinistra. La fazione di centro destra punta maggiormente sull’efficienza economica, sulla crescita della produttività e della competitività del sistema economico e sullo sviluppo delle grandi realtà urbane. La fazione di centro-sinistra è invece più attenta alle tematiche ambientali, all’uguaglianza e all’armonia sociale, punta a ridurre le disuguaglianze regionali tra le varie aree del paese e tra città e campagne. Il prevalere di una linea piuttosto dell’altra o il raggiungimento di compromessi tra le due linee dipende dai rapporti di forza e dagli equilibri che si formano all’interno del Partito, che non sono sempre facilmente comprensibili agli osservatori esterni.
Uno sviluppo tecnologico: e-commerce e green economy
L’obiettivo dichiarato del Governo cinese è comunque attualmente quello di trasformare l’economia di quel paese in un’economia ad alto valore aggiunto, e già fenomeni di delocalizzazione di alcune produzioni verso altri paesi asiatici, più poveri, si stanno verificando. In pratica i cinesi stanno cercando di spostarsi verso le fasce alte del mercato, verso i settori tecnologicamente più avanzati. Forti incentivi pubblici vengono dati, per esempio, al settore della green economy come anche allo sviluppo delle attività basate su internet e sull’e-commerce.
Si punta anche a migliorare l’integrazione della Cina con i mercati internazionali e ad adottare politiche di sviluppo più inclusive per estendere i benefici della crescita economica a quei segmenti della società cinese che ancora ne sono rimasti esclusi.
Negli ultimi anni si è assistito a un rallentamento in alcuni comparti più tradizionali come, per esempio, quello delle costruzioni navali e altri settori dell’industria pesante, come quelli dell’acciaio o dei prodotti chimici, dove sono emersi problemi di eccesso di capacità produttiva, mentre i settori più moderni, tecnologicamente avanzati, hanno continuato a crescere a ritmi sostenuti. È indubbio che l’economia cinese sia in una fase di transizione che potrà durare anche diversi anni.
La crescita economica che ha, nell’arco di pochi decenni, aumentato notevolmente i redditi e le prospettive future per centinaia di milioni di cittadini cinesi, è riuscita sinora a mantenere la stabilità sociale e con essa anche la stabilità del potere politico.
Il contrasto aperto negli ultimi anni con l’amministrazione americana del presidente Trump, uno scontro di natura geopolitica travestito da conflitto commerciale, e la crisi causata dalla pandemia del Coronavirus hanno messo a dura prova l’economia cinese che, tuttavia, sembra esserne uscita rafforzata.
Il modello cinese verrà studiato anche in futuro dagli storici e dagli economisti come un caso indubbio di successo. La vita dei cinesi negli ultimi quarant’anni è cambiata in maniera radicale ma è, per la stragrande maggioranza, cambiata in meglio.
Ovviamente la rutilante crescita economica degli ultimi decenni ha comportato anche enormi problemi che non possono essere trascurati: aumento drammatico delle disuguaglianze sociali, aumento dell’inquinamento e delle problematiche ambientali, aumento della corruzione e della criminalità. Va ricordato anche, last but not least, che in Cina ci sono seri problemi in tema di diritti civili. Quello che potremmo chiamare l’autoritarismo illuminato della leadership cinese, che si è resa conto che soltanto migliorando le condizioni di vita della sua popolazione poteva conservare il potere, non può far dimenticare le repressioni in Tibet, nella regione dello Xinjang o, più recentemente, a Hong Kong.
La Cina è ormai diventata una superpotenza economica e tecnologica e diventerà gradualmente una superpotenza anche politica e militare, anzi c’è chi prevede che tra qualche anno sarà la prima potenza del pianeta superando persino gli Stati Uniti. Ma del complesso rapporto tra questi due paesi parleremo nella prossima puntata.
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