Recovery Fund: più rischi o più opportunità?
Scritto da Pasquale Angius in data Ottobre 26, 2020
Il Recovery Fund è stato presentato come un’occasione storica per l’Italia. Ma siamo proprio sicuri che rappresenti solo un’opportunità e non ci siano rischi?
Per un’esperienza più coinvolgente, invece di leggere ascoltate il podcast
Pecunia non olet
I soldi, sappiamo, sono importanti. Ci sono un’infinità di detti popolari che riguardano i soldi: senza soldi non si cantano messe, non si possono fare le nozze con i fichi secchi, se i soldi non fanno la felicità figuriamoci la miseria. C’è chi addirittura scomoda il latino ricordando che “pecunia non olet”, ovverosia i soldi non hanno odore, oppure “homo sine pecunia imago mortis”, l’uomo senza soldi è l’immagine della morte.
In questi ultimi mesi siamo stati bombardati da annunci che tentavano di farci credere che la pandemia da coronavirus avesse creato enormi problemi alla nostra economia ma che, finalmente, l’Europa si era svegliata e a breve sarebbero arrivate vagonate di miliardi di euro che avrebbero risolto qualunque problema.
Abbiamo visto, persino, conduttori televisivi solitamente compassati esultare, come bambini felici davanti al gelato, nel dare la notizia che l’Europa aveva messo mano al portafoglio e a breve sarebbe arrivata una pioggia di fantastiliardi come accadde qualche millennio fa, stando al racconto biblico, con la manna caduta dal cielo nel deserto del Sinai per sfamare il popolo d’Israele.
Lasciando perdere i facili entusiasmi, cerchiamo di capire meglio in questa puntata come funziona effettivamente questo nuovo programma di investimenti chiamato Recovery Fund o Next Generation EU. Per farlo partiamo da alcune notizie che sono rimbalzate sui media nelle ultime settimane.
La prima è che, come ha detto il nostro premier, professor Conte, l’Italia non chiederà il MES, almeno per ora, ma di questo argomento parleremo nella prossima puntata.
La seconda invece è che il Portogallo, probabilmente anche la Spagna e qualcuno dice persino la Francia, rinunceranno a una parte dei fondi del cosiddetto Recovery Fund, la parte dei prestiti.
La terza è che i tempi di implementazione del Recovery Fund slittano alla seconda metà del 2021: l’accordo politico raggiunto nello scorso mese di luglio è stato rimesso in discussione dal gruppo dei paesi sedicenti “frugali”, capeggiati dall’Olanda, che hanno accusato la Polonia e l’Ungheria di non rispettare i diritti umani e quindi chiedendo di escluderli dal piano di aiuti. Quei paesi a loro volta hanno minacciato di far saltare l’intero accordo che, per poter diventare operativo, deve essere approvato dai Parlamenti di tutti i 27 paesi aderenti all’Unione Europea.
Ricordiamo che la partita su Recovery Fund, MES e quant’altro è certamente di natura economica − si parla di soldi − ma è innanzitutto una partita politica. Sono ancora in corso bracci di ferro, trattative sotterranee, spostamenti di fronte e quindi, per capire fino in fondo come evolverà la situazione e cosa ci sia dietro, occorrerà attendere ancora qualche mese. A ciò si aggiunga che la seconda ondata del Coronavirus, che sta investendo tutta l’Europa costringendo diversi paesi a tornare a forme di lockdown totale o localizzato, sta peggiorando ulteriormente le prospettive economiche e rallentando anche le procedure politiche.
Cerchiamo di capire a che punto siamo, sulla base delle informazioni ad oggi disponibili.
Il punto sulla situazione
Il Recovery Fund è un fondo di 750 miliardi che sarà finanziato attraverso l’emissione di recovery bond, quindi titoli di debito, garantiti dall’Unione Europea. Questi prestiti verranno collocati sui mercati finanziari nell’arco di tre anni, a partire dal 2021 fino al 2023 e verranno poi ripartiti tra i vari paesi in base agli accordi presi.
Questo piano sarà suddiviso in due componenti:
360 miliardi di loans, cioè di prestiti;
390 miliardi di grants, cioè di sussidi a fondo perduto.
L’emissione di questi titoli sarà garantita dall’Unione Europa che però non è un’entità statale, quindi di fatto la garanzia viene prestata dai paesi aderenti all’Unione Europea pro quota, cioè in rapporto a quelle che sono le dimensioni del PIL di ogni paese.
All’Italia, che è stata riconosciuta come uno dei paesi più colpiti sia a livello sanitario che economico dalla crisi, sono stati assegnati complessivamente 209 miliardi dei quali circa 82 saranno sussidi e 127 saranno prestiti.
Recovery Fund: soldi in prestito
Questi soldi non sono comunque un regalo, i prestiti che vengono concessi in un periodo di tre anni, tra il 2021 e il 2023, andranno poi restituiti, sia pure con tempi lunghi, a partire dal 2028 e con tassi di interesse bassi: ma vanno restituiti e contribuiscono ad aumentare il debito pubblico, già molto elevato, del nostro paese.
Lo stesso succede con i grants, con i sussidi: anche quelli non sono soldi regalati. Fino al 2028 non ci sono problemi poi da quell’anno la Commissione Europea dovrà cominciare a trovare i soldi per rimborsare comunque i titoli emessi per elargire quei sussidi e potrà fare due cose: la prima è quella di attingere al bilancio annuale dell’Unione Europea. Ogni anno tutti i paesi membri versano una cifra, in proporzione al proprio PIL, che serve per finanziare i vari programmi europei a cominciare per esempio dalla PAC, la politica agricola comune, e per sostenere tutte le spese, dagli stipendi dei funzionari di Bruxelles, ai costi del Parlamento e della Commissione Europea come di qualunque altro organismo comunitario. Quindi una prima strada può essere quella di chiedere un aumento del contributo al bilancio comunitario da parte di tutti i paesi. L’altra strada è che la Commissione Europea introduca una nuova tassa che servirà per finanziare la restituzione dei prestiti contratti per elargire i sussidi. Quindi i soldi che ci daranno adesso, o meglio dal prossimo anno come grants se li verranno a riprendere in qualche modo nei prossimi anni.
Ci dispiace dovervi dare un grande dolore con questa notizia, ma purtroppo Babbo Natale non esiste e anche se esistesse passerebbe da casa vostra quando siete in vacanza!
Quindi ci stanno prendendo per il naso? In parte sì, o almeno ci stanno prendendo per il naso coloro che hanno riversato su questo piano di investimento europeo attese messianiche.
Gli aspetti positivi del Recovery Fund
Va detto comunque che ci sono degli aspetti positivi. Sui sussidi non si pagano interessi, sui prestiti gli interessi sono molto bassi, inoltre la restituzione viene spostata molto avanti nel tempo è questo è oggettivamente un vantaggio.
Un altro vantaggio per un paese come il nostro è che l’assegnazione di questi fondi è stata fatta privilegiando i paesi che sono stati ritenuti quelli più gravemente colpiti dalla pandemia, e l’Italia e la Spagna sono nella lista dei beneficiari al primo e al secondo posto. Quindi di fatto noi otteniamo qualcosa in più rispetto alle dimensioni della nostra economia. Quanto di più? Questa è una domanda tutt’altro che peregrina.
Difficile per ora fare questi conti anche perché tutta una serie di dettagli sulle modalità di implementazione di questo piano non sono stati ancora definiti così come non è definito cosa deciderà di fare la Commissione Europea per rimborsare i prestiti contratti per elargire i sussidi. C’è chi ha provato a fare dei calcoli approssimativi e il vantaggio netto per l’Italia si dovrebbe aggirare sui 20 miliardi, alcuni dicono qualcosa in più, altri dicono qualcosa in meno.
Cerchiamo di capire meglio questo passaggio. Sui prestiti non c’è niente da spiegare, funzionano come qualsiasi altro prestito, quindi da dove arriverebbero quei circa 20 miliardi di guadagno per l’Italia? Derivano dai circa 82 miliardi di sussidi che ci toccherebbero. Ricordiamo che l’Italia è un contributore netto dell’Unione Europea, cioè in pratica ogni anno versiamo all’Unione Europea più soldi di quanto l’Unione ci restituisca. Il saldo negativo per noi è di circa 5-6 miliardi di euro all’anno.
Dal momento che l’assegnazione di prestiti e sussidi è stata fatta non in proporzione alle dimensioni della nostra economia ma in proporzione al danno stimato per la nostra economia dalla crisi in corso, dovremmo ottenere qualcosa in più: poca roba, una ventina di miliardi, poco più di un punto percentuale di PIL, ma quelli effettivamente potremmo considerarli un regalo.
C’è poi tutta la questione delle modalità con le quali questi fondi potranno essere spesi. Senza entrare troppo nelle procedure tecniche altrimenti ci addormentiamo tutti diciamo che il funzionamento dovrebbe essere all’incirca questo.
La Commissione Europea definisce delle linee guida, per esempio occorre investire sulle tecnologie digitali oppure occorre investire sulla green economy, e via di seguito. I vari paesi presentano una serie di programmi di investimento con gli obiettivi che intendono raggiungere in accordo con quelle linee guida, dopodiché ci saranno meccanismi di controllo e monitoraggio che verificheranno che i soldi siano effettivamente spesi per i progetti approvati. Ci sarà la possibilità per ogni paese dell’Unione di chiedere un intervento della Commissione e un blocco delle elargizioni qualora ci sia il sospetto che un altro paese stia utilizzando quei fondi in maniera distorta. Questa clausola, politicamente molto rischiosa, è stata imposta dai paesi cosiddetti “frugali” che non si fidano dei paesi del Sud Europa, Italia in testa.
Come sempre il diavolo si annida nei dettagli perché nella fase di approvazione dei progetti, verifiche e controlli c’è la possibilità per i paesi aderenti di contestare, sollevare obiezioni e lì potrebbero nascere infinite diatribe.
Chi è interessato ai dettagli tecnici li può trovare facilmente su internet, cerchiamo di porre l’attenzione su quelli che sono i principali nodi economici e politici legati a questi strumenti.
I primi nodi sono quelli posti dalla decisione di Portogallo e Spagna di utilizzare solo la parte dei sussidi e rifiutare, almeno per ora, ma c’è comunque tempo per aderire − qualora ve ne fosse bisogno, fino al 2023 − alla parte dei prestiti. Quali sono le ragioni di questa decisione?
La BCE
Attualmente la BCE sta procedendo con il cosiddetto PEPP, Pandemic Emergency Purchase Programme che tradotto suona come Programma di acquisti per l’emergenza pandemica. Un piano di ben 1.350 miliardi di euro, che potrebbero anche aumentare se necessario, con il quale la BCE acquista titoli pubblici emessi da paesi dell’area Euro. Un piano straordinario che proseguirà almeno sino al giugno del 2021.
Per Statuto la BCE non può acquistare direttamente il debito pubblico dei paesi aderenti all’Unione − lo abbiamo già spiegato nelle puntate precedenti − ma, dal momento che tutti si rendono conto che sostenere una moneta comune senza avere una Banca Centrale nel pieno delle sue funzioni oltre a essere una cosa poco sensata finisce per essere anche estremamente pericolosa in periodi di crisi, si sono trovati degli escamotage tecnici per aggirare il problema. In realtà il primo a introdurre questi escamotage fu Mario Draghi quando lanciò il cosiddetto “quantitative easing”, cioè un programma di espansione monetaria avviato, sia pur con ritardo, per affrontare le conseguenze della crisi del 2008. Il PEPP della signora Lagarde è qualcosa che ci assomiglia molto. In pratica la BCE non acquista sul mercato primario, cioè direttamente nelle aste di emissione i titoli del debito pubblico dei singoli paesi, ma li può acquistare sul mercato secondario cioè li può comprare da operatori finanziari, per esempio banche, che li hanno sottoscritti al momento dell’emissione. La BCE li acquista attraverso il programma PEPP e li retrocede, per quel che riguarda i titoli italiani, alla Banca d’Italia. Ma questo cosa comporta? Una cosa semplice, le cedole su quei titoli, cioè gli interessi che lo Stato italiano deve pagare a chi possiede quei titoli, vanno alla Banca d’Italia che li detiene. Poi la Banca d’Italia deve pagare alcune spese alla BCE ma diciamo che gran parte di quegli interessi vengono incassati dalla Banca d’Italia che a sua volta li verserà al Tesoro. Ed ecco la magia: per gli Stati europei fin quando sarà operativo il PEPP converrà emettere bond che poi verranno acquistati dalla BCE, di fatto a interessi zero, piuttosto che andare a collocare quei titoli sul mercato. Questa è una delle ragioni per la quale Portogallo e Spagna non ritengono utile far ricorso ai prestiti del Recovery Fund.
La seconda ragione è determinata dal fatto che accedere ai prestiti del Recovery Fund significa sottostare alle linee guida della Commissione Europea, cioè il modo in cui si spenderanno quei soldi non lo decide il paese che li riceve, o meglio, lo decide il paese che li riceve ma attenendosi ai paletti, alle condizioni stabilite dalla Commissione Europea. Facciamo un esempio pratico: se la Commissione dice che quei fondi si possono utilizzare per investimenti nel digitale mentre, per esempio, un paese a rischio sismico come l’Italia avrebbe bisogno di fare investimenti per il dissesto idrogeologico, i fondi del Recovery non potranno essere utilizzati. Ma se l’Italia, o qualunque altro paese, in questo momento, emette bond che vengono acquistati dalla BCE, i soldi che ricevono in prestito potranno spenderli come meglio credono senza dover rendere conto a nessuno. Sui fondi del Recovery esistono condizionalità che invece non esistono nel PEPP della BCE.
Inoltre, sul Recovery Fund pesa un’incertezza politica determinata dal fatto che se entro la fine del 2021 saremo riusciti a superare l’emergenza Coronavirus, qualche buontempone tedesco, olandese o di qualunque altro paese potrebbe rifarsi vivo sostenendo che, superata l’emergenza, occorra tornare ai vecchi vincoli economici degli anni passati, vincoli che non sono stati eliminati, sono soltanto sospesi a causa dell’emergenza. A quel punto bisognerà mettere sotto vincolo quei paesi che nel frattempo avranno accumulato un debito pubblico troppo alto e tra questi dopo la Grecia, viene subito l’Italia e a seguire Spagna e Portogallo. In pratica qualcuno potrebbe svegliarsi una bella mattina dell’inizio del 2022 e cominciare a dire: abbiamo esagerato, siamo stati di manica troppo larga, dobbiamo far rientrare l’Italia o qualunque altro paese dal debito eccessivo, occorrono nuove misure di austerità e costringerci a una nuova stagione di sacrifici e tagli di spesa che darebbero il colpo di grazia a un’economia come quella italiana che ha subito fin troppi shock negativi negli ultimi 12 anni.
Questo è il problema evidenziato nei giorni scorsi dal quotidiano spagnolo El Pais, il quale sottolineava che i prestiti del Recovery Fund sono soggetti a una “brumosa condicionalidad”, che tradotto significa a una condizionalità fumosa, oscura, poco chiara e, dato che non tutti aderiscono al progetto europeo con acritico entusiasmo come fa buona parte della nostra classe politica e dei nostri opinionisti, c’è qualcuno che non si fida.
Ma c’è un altro nodo fondamentale sottolineato da diversi osservatori.
Italia: situazione grave ma non seria
Una visione semplicistica pensa che il problema siano i soldi − senza soldi non si può far nulla − ma per uno Stato, una pubblica amministrazione, avere a disposizione dei fondi è condizione necessaria ma non sufficiente: quei soldi poi bisogna saperli investire su progetti sensati e già qui sappiamo, per esperienza, che in Italia un fiume infinito di soldi viene sperperato in progetti senza senso o in progetti che non vengono mai terminati. Ma c’è un ulteriore problema: ammesso che si siano individuati i migliori progetti di investimento, i soldi bisogna anche essere in grado di spenderli, proprio in senso pratico, cioè devono esistere procedure e normative che consentano di tradurre in pratica le intenzioni di spesa e, inoltre, ci vuole personale competente che sia in grado di attivare quelle procedure in maniera efficiente. Anche in questo caso sappiamo che in Italia ci sono diverse carenze.
Quindi per spendere una vagonata di miliardi servono progetti, personale specializzato, procedure amministrative efficienti. L’Italia solitamente fa fatica a spendere 5-10 miliardi all’anno di fondi europei che spesso si perdono nei ritardi e nell’incompetenza delle amministrazioni pubbliche, sia statali che locali: come si potrà riuscire a spendere la bellezza di 209 miliardi? Senza una riforma della pubblica amministrazione, senza personale specializzato, senza un’organizzazione e una regia adeguati, cioè qualcuno che abbia chiaro in testa cosa fare, come farlo, con quali tempi e quali modalità, il rischio è che gran parte di quei fondi resteranno inutilizzati e quindi ci saremo indebitati ulteriormente per una cifra importante, senza riuscire poi a mettere a frutto in maniera adeguata quelle risorse. Anche un istituto di ricerca economica autorevole come Prometeia, in uno studio di alcuni mesi fa, riteneva che l’Italia sarà in grado di spendere al massimo tra il 60 o il 70% delle somme del Recovery Fund. Ma come è stato specificato dallo stesso Commissario Gentiloni, se i progetti finanziati non vengono sviluppati nei tempi previsti c’è la possibilità che l’elargizione di quei finanziamenti venga interrotta. Quindi il rischio, molto elevato in Italia, è che ci si indebiti ulteriormente per portare avanti progetti che per qualunque ragione − disguidi amministrativi, procedure contorte, errori di progettazione, conflitti di competenza tra i vari enti interessati, ricorsi alla giustizia amministrativa − finiscano per far slittare i tempi di realizzazione mettendo a rischio il finanziamento dell’opera stessa.
D’altronde lo stiamo vedendo in questi giorni con la seconda ondata della pandemia da coronavirus: nonostante da maggio a settembre ci siano stati ben 5 mesi di tregua, che si sarebbero potuti utilizzare per organizzare i tracciamenti dei malati, stiamo assistendo a spettacoli indecorosi, code disumane per poter fare un tampone, l’app Immuni che non funziona, i vaccini per l’influenza stagionale che non si capisce se ci saranno per tutti e quando arriveranno, in sostanza la solita, storica, strutturale incapacità italiana di organizzare anche le cose più semplici nonostante la buona volontà di molte brave persone, a cominciare dal personale sanitario che viene elevato, con una retorica stucchevole e persino fastidiosa, alla categoria degli eroi ma che poi viene lasciato a combattere contro il virus senza strumenti adeguati.
In Italia, come diceva Ennio Flaiano, la situazione è grave ma non è seria. Potremmo cominciare a fare a meno di molti entusiasti per partito preso e forse avremmo bisogno di qualche eroe in meno e di molti professionisti in più.
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