Ricchezza e povertà – Episodio 1

Scritto da in data Agosto 19, 2020

Ricchezza e povertà. Si tratta di un tema scivoloso, perché non è soltanto un argomento di carattere economico, ma ha molti risvolti di natura politica, etica, ideologica e persino religiosa. Può essere, quindi, un tema molto divisivo, dal momento che implica diversi ragionamenti su uguaglianza e diseguaglianza, su produzione e distribuzione del reddito e della ricchezza.

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Foto di copertina: Guillermo Velarde per Unsplash

Con le peggiori intenzioni

La questione è, quindi, molto articolata e la svilupperemo in alcune puntate. Cominciamo da una citazione letteraria. Alcuni anni fa, nel 2005, uscì un libro di narrativa di uno scrittore romano esordiente, Alessandro Piperno. Quel libro, che si intitolava Con le peggiori intenzioni, ebbe un discreto successo, vincendo importanti premi letterari, come il premio Campiello e il premio Viareggio, e vendette più di 200.000 copie, una cifra notevole per il, solitamente asfittico, mercato editoriale italiano. La storia è una sorta di saga familiare e racconta le vicende di una famiglia della borghesia ebraica romana, la famiglia Sonnino, nell’arco di tre generazioni. Il protagonista a un certo punto del romanzo sbotta con la seguente frase: “È meglio puzzare di merda che puzzare di povertà!”.

Una frase cruda, letterariamente efficace, ma che sintetizza un sentimento comunemente diffuso nella nostra società dove ricchezza e successo sono i paradigmi sui quali si valuta spesso il valore delle persone. Nel nostro mercato editoriale – ma il fenomeno non è soltanto italiano, potremmo dire che è ormai planetario – furoreggiano le riviste che ci raccontano la vita dorata dei vip, i ricchi e famosi, quelli che ce l’hanno fatta e vengono guardati da tutti con una certa ammirazione ma, soprattutto, con tanta malcelata invidia.

I poveri non piacciono

I poveri invece non se li fila nessuno, i poveri non piacciono, i poveri sono antiestetici. Dei poveri abbiamo paura, non ci interessa conoscere le loro vite, non ci sono rotocalchi che raccontano le vite dei poveri e, anche se ci fossero, non li comprerebbe nessuno. Non siamo interessati ai poveri perché già ognuno di noi ha nella sua vita quotidiana mille problemi da affrontare e da risolvere, figurarsi se nel suo tempo libero ha voglia di occuparsi delle disgrazie altrui. Nel tempo libero vogliamo sognare e quindi ci interessa sapere tutti i dettagli delle vacanze dell’ultima star televisiva, dell’ultima soubrette che si è fidanzata col calciatore strapagato, dell’imprenditore che ha accumulato fortune da Paperone. Ultimamente si è anche sviluppato un nuovo filone, che pare trovi grande successo, quello dei cosiddetti rich kids, i figli privilegiati e viziatissimi dei superpaperoni. Siamo incuriositi da cosa dicono e cosa pensano, da come trascorrono le loro giornate, da come dilapidano i patrimoni, più o meno faticosamente messi assieme dai loro genitori.

Ragione per cui, aveva ragione il protagonista del libro di Piperno. I poveri non interessano e non piacciono a nessuno perché sono l’immagine di quello che non funziona nella nostra società, di quello che ognuno di noi potrebbe diventare se le onde del destino ci si avventassero contro, facendoci perdere il lavoro, la casa, gli affetti, i risparmi, tutto quello che abbiamo e che ci rende, se non ricchi, quantomeno non poveri.

I poveri, però, non sono soltanto un problema sociale, umano, etico, di giustizia: sono anche un fondamentale problema economico. I poveri non guadagnano, quindi non possono spendere e dunque non riescono a contribuire allo sviluppo complessivo di un paese.

Due conti

Facciamo il conto del salumiere. Si calcola che in Italia ci siano circa 5 milioni di poveri, poco meno del 10% della popolazione italiana. Gran parte di costoro vivono di espedienti, facendo qualche lavoretto in nero oppure vivendo di carità e sussidi: una parte di costoro negli ultimi anni hanno potuto accedere al Reddito di cittadinanza. Supponiamo che appaia improvvisamente un politico intelligente e lungimirante, si tratta ovviamente di un’ipotesi fantasiosa: di politici intelligenti e lungimiranti all’orizzonte, purtroppo, non se ne vedono. Comunque, supponiamo che costui esista e che trovi una soluzione per eliminare la povertà e dare un lavoro legale e stabile a queste persone facendo in modo che quei 5 milioni di italiani raggiungano quello che è il livello medio di reddito della popolazione italiana nel suo complesso, circa 30.000 euro annui pro capite. Facendo, come dicevamo prima, il conto del salumiere 5 milioni per 30.000 fa 150 miliardi di euro! Praticamente il nostro PIL, il prodotto interno lordo dell’Italia, aumenterebbe di 150 miliardi di euro all’anno, all’incirca il 9%. Considerando che la pressione fiscale, cioè la quota del nostro reddito che finisce in tasse, è all’incirca del 42%, non ci interessa qui il dato preciso ma l’ordine di grandezza, questo significa che di quei 150 miliardi di PIL in più ogni anno ben 63 finirebbero in tasse. Anche considerando che una parte delle nostre tasse viene regolarmente sprecata da una classe politica mediamente inetta e da un’amministrazione pubblica inefficiente comunque ci sarebbero alcune decine di miliardi di euro in più, ogni anno, per la sanità, la scuola, la ricerca, le infrastrutture e via di seguito. Oppure potremmo destinare quei 63 miliardi all’anno per la riduzione dell’ormai enorme debito pubblico. La parte restante – 150 meno 63 che fa 87 – finirebbero una parte in risparmio, ma la gran parte si tradurrebbe in maggiori consumi e quindi in domanda di beni e servizi con un beneficio ulteriore per l’economia nazionale.

Per combattere la povertà bisogna aumentare la ricchezza di un paese

Quindi, senza bisogno di fare grandi e complicati ragionamenti, si può facilmente comprendere che combattere la povertà serve per accrescere la ricchezza complessiva di un paese, a vantaggio di tutti.
Ovviamente il problema sta nel cosa fare per combattere la povertà. E qui la situazione si complica perché nessuno, purtroppo, ha la ricetta magica. Per sviluppare i nostri ragionamenti partiamo da una ricerca fatta alcuni anni fa da un Professore di psicologia sociale all’Università di Berkeley in California, il professor Paul Piff.

L’esperimento del professor Piff

Tutti conosciamo il Monopoli, il gioco da tavolo inventato durante la Grande Depressione, negli Stati Uniti, quindi all’inizio degli anni Trenta, che è un gioco spietato dove tutti i partecipanti possono provare a fare i capitalisti. Tutti hanno le stesse opportunità iniziali ma, poi, entrano in gioco due elementi che diventano decisivi per vincere o per perdere: la fortuna, il gioco funziona tirando dei dadi, e in secondo luogo la capacità di visione, la strategia, la spregiudicatezza di ogni giocatore. Uno degli esperimenti fatti da questo professore consisteva nel mettere due giocatori davanti a un Monopoli, modificando però le regole. A un giocatore venivano dati grandi vantaggi iniziali ed era chiamato il giocatore ricco, il secondo invece era il giocatore povero che non aveva alcun privilegio. La scelta se essere il giocatore ricco o quello povero veniva lasciata al caso, cioè al lancio di una moneta.

Il giocatore ricco, a inizio gioco, riceveva il doppio dei soldi di quello povero, poi ogni volta che passava dal via riceveva un bonus di ulteriori 200 dollari e, inoltre, poteva tirare entrambi i dadi avendo così la possibilità di completare più velocemente il giro del tabellone. Per il giocatore povero la partita era molto più difficile: poteva tirare un solo dado, muovendosi quindi più lentamente e, inoltre, ogni volta che passava dal via riceveva soltanto 100 dollari.

Il risultato interessante di quella ricerca fu che i giocatori ricchi, pur sapendo benissimo che il gioco era truccato – le regole erano state palesemente modificate a loro favore –, dopo un po’ cominciavano a prenderci gusto e non facevano nessuno sconto agli avversari: arraffavano tutto quello che potevano sfruttando in maniera spietata i loro vantaggi, senza nessuna indulgenza verso l’avversario povero e, fatto questo ancora più sorprendente, man mano che andavano avanti nel gioco si convincevano di meritare la vittoria. In pratica il successo, anche se le regole erano palesemente truccate, gli faceva pensare che avessero vinto o che stessero vincendo perché erano i più bravi, i più svegli, i più capaci.

Questo esperimento mirava a sfatare uno dei miti del cosiddetto sogno americano: l’idea che per farcela, per vincere, per avere successo, fosse sufficiente avere voglia di giocare. L’esperimento del professor Piff dimostra  che, se le regole del gioco danno un enorme vantaggio iniziale a qualcuno, solo quel qualcuno ce la farà, soltanto lui vincerà. Quindi i punti di partenza sono importanti per capire come andrà a finire. Se le regole sono taroccate qualcuno sarà avvantaggiato e qualcun altro sarà svantaggiato.
L’altro aspetto interessante di quell’esperimento è che coloro che avevano goduto di consistenti vantaggi iniziali, andando avanti nel gioco e finendo per vincere, si convincevano che i loro successi fossero dovuti alla loro abilità, trascurando il non piccolo dettaglio di partire avvantaggiati.
Questo meccanismo psicologico è interessante perché è alla base di molte convinzioni che sono anche convinzioni politiche e religiose.

Nel mondo anglosassone, soprattutto negli Stati Uniti, esiste una robusta corrente di pensiero la quale sostanzialmente ritiene che la povertà sia principalmente conseguenza dell’attitudine personale degli individui.

Secondo costoro si è poveri perché si ha poca voglia di lavorare e di sacrificarsi, si è poveri perché non si hanno abilità e talenti particolari, si è poveri perché non si ha la capacità di affrontare con lo spirito giusto le avversità della vita. Di converso chi è ricco lo è per merito suo, per le sue capacità, per il suo talento, per la sua forza di carattere e via di seguito.

Chi è suggestionato da tesi del genere spesso aderisce anche a movimenti politici di estrema destra, spesso dichiaratamente razzisti, i quali hanno una visione della società umana di tipo selettivo. Come accade nel mondo animale, dove il più forte vince ed è giusto che sia così, anche nelle società umane il più forte deve vincere e ha pieno diritto a schiacciare chi è più debole o meno fortunato. Povertà e ricchezza, pertanto, sono sempre esistite e sempre esisteranno perché gli uomini non sono tutti uguali, ci sono i più forti e i più abili e ci sono i più deboli e i meno capaci. Per chi crede a queste teorie non bisogna far nulla per combattere la povertà ma, anzi, bisogna mobilitarsi contro coloro che pretenderebbero, attraverso il sistema fiscale, di dare aiuti ai poveri.

Al di là di queste estremizzazioni, che sono facilmente confutabili, il problema è, come ci ha dimostrato il curioso esperimento del professor Piff, che povertà e ricchezza possono dipendere spesso dal fatto che le regole sono taroccate. I giocatori giocano tutti la stessa partita ma alcuni hanno dei vantaggi rispetto agli altri. Nell’esperimento questi vantaggi erano dati da chi svolgeva la ricerca, cioè dal professore, ma nella vita reale i vantaggi sono dati dal caso e dalle regole economiche e politiche che esistono nelle nostre società.

Nell’esperimento del professor Piff il fatto di essere il giocatore ricco o il giocatore povero dipendeva dalla fortuna, il lancio dei dadi. Ma anche nella vita reale succede così: dipende da dove nasce un essere umano. Può nascere in un paese ricco o in un paese povero, in una famiglia ricca o in una famiglia povera, nessuno di noi può scegliere, dipende dal caso. E quindi, nascere ricco o nascere povero non è questione di merito o di demerito individuale, ma dipende dalla sorte, buona o cattiva, che a ognuno di noi è riservata.

Nell’esperimento del professor Piff il giocatore ricco aveva una serie di privilegi che lo avvantaggiavano, e che non erano riservati al giocatore povero, che faceva quindi più fatica. Ma anche nella vita reale succede così, dipende dalle regole con cui sono organizzati i sistemi economici e politici nei quali ogni essere umano si trova a vivere. Le regole economiche e politiche non sono leggi universali e immutabili ma convenzioni umane e quindi possono essere cambiate, anche se cambiarle, ovviamente, non è un’impresa facile, perché solitamente quelle regole sono state costruite a vantaggio di qualcuno e a svantaggio di qualcun altro.

Quindi la povertà non è un dato di natura ma una condizione che può essere determinata dal caso, come può essere determinata dal tipo di società nella quale si vive e quindi da carenze di natura strutturale: ignoranza, inefficienze, cattiva gestione del sistema economico ma anche da ragioni politiche che hanno a che fare con la distribuzione del reddito, delle ricchezze e delle opportunità. La povertà si può superare o quantomeno si può attenuare, ma occorrono politiche attive di contrasto. Ma facciamo un passo alla volta, cerchiamo prima di capire bene quali sono le cause principali della povertà e poi vediamo, nelle prossime puntate, alcuni esempi pratici di come la si possa combattere.

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