L’economia cinese dopo il coronavirus
Scritto da Pasquale Angius in data Dicembre 7, 2020
Oggi parliamo dell’economia cinese partendo da due notizie che sono rimbalzate sui media nel mese di novembre ma che, tra seconda ondata di coronavirus, lockdown e conseguenti problemi economici, sono finite in secondo piano.
Per un’esperienza più coinvolgente, invece di leggere ascoltate il podcast
La Cina ha eliminato la povertà
La prima è la seguente: nello scorso mese di novembre il presidente cinese Xi Jinping ha pubblicamente affermato che la Cina ha eliminato la povertà. Dichiarazioni così impegnative le avevamo sentite fare anche da politici italiani. Nell’autunno del 2018 il leader del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio, dopo essere riuscito a far approvare il provvedimento che introduceva il reddito di cittadinanza, disse: «Abbiamo eliminato la povertà». Noi italiani siamo un popolo tendenzialmente cinico e alle dichiarazioni dei politici diamo solitamente scarso peso. Inoltre Di Maio, essendo di Pomigliano d’Arco, proviene da una regione, la Campania, che l’ironia ce l’ha nel DNA, per cui quell’affermazione fu presa per una battuta di spirito. Ma quando a dichiarare l’abolizione della povertà non sono un gruppo di giovani virgulti che si fanno prendere da un eccesso di entusiasmo, ma attempati tecnocrati della leadership cinese c’è da fare molta più attenzione.
Spieghiamo l’arcano. Il governo cinese aveva lanciato negli scorsi anni un grande piano per eliminare la povertà assoluta stabilita, per gli standard cinesi, in un reddito pro capite di 4.000 yuan annui, pari a circa 520 euro. Ora, un reddito di 520 euro annui significa vivere con meno di 2 euro al giorno, ma va tenuto ovviamente presente che il livello dei prezzi in Cina è molto più basso rispetto al nostro, quindi quei valori non vanno valutati in termini nominali ma in proporzione a ciò che con quel reddito si può acquistare in quel paese. Secondo i calcoli fatti dalle autorità cinesi quel livello di reddito è il minimo vitale per soddisfare le esigenze primarie.
Secondo i dati ufficiali cinesi nel 2012 c’erano in quel paese circa 100 milioni di poveri, cioè persone che vivevano al di sotto di quella soglia di reddito. Già nel 2018 si erano ridotte a circa 17 milioni.
All’inizio del 2020 ancora ben 832 contee, situate in varie regioni − Guizhou, Yunnan, Gansu, Xinjang, Ninxia e Guangxi − si trovavano al di sotto di quella soglia ma, grazie agli interventi statali di contrasto alla povertà, a novembre 2020 l’hanno superata portando quelle aree fuori dalla povertà assoluta.
Campagna un-due-tre
La questione della povertà era diventata uno degli obiettivi della leadership cinese dal 2013. All’epoca il Presidente Xi Jinping aveva lanciato la cosiddetta “campagna un-due-tre” che consisteva in: “un reddito”, “due preoccupazioni in meno: cibo e vestiti” e “tre garanzie”, cioè un’abitazione sicura, l’accesso all’educazione e alle cure mediche.
Nel 2018 aveva suscitato una grande onda, sia di commozione che di solidarietà, la pubblicazione sui media cinesi della foto di un bambino che abitava in una di queste aree povere che arrivava a scuola con i capelli completamente ghiacciati dopo una lunga camminata nel gelo. Erano arrivate donazioni da tutto il paese e il partito comunista aveva lanciato una grande mobilitazione delle amministrazioni locali per intraprendere azioni e politiche volte a combattere la povertà.
Soltanto nell’ultimo anno la Cina ha investito l’equivalente di quasi 20 miliardi di euro per politiche di contrasto alla povertà.
Quindi l’entusiasmo di Di Maio per il reddito di cittadinanza era forse eccessivo anche se, va detto, quel provvedimento è stata la più grande riforma sociale fatta in Italia negli ultimi 30 anni ed è stata una misura concreta per contrastare la povertà, al netto di tutte le critiche che si possono muovere a quel provvedimento, sebbene in gran parte strumentali e alcune persino grottesche. Ma del reddito di cittadinanza parleremo prossimamente.
La Cina, invece, stando alle dichiarazioni ufficiali, avrebbe eliminato quantomeno le forme più estreme di povertà anche se ci sono ancora diverse centinaia di milioni di cinesi che vivono in condizioni abbastanza misere soprattutto nelle aree rurali e nelle regioni più periferiche.
La firma del RCEP
La seconda notizia riguarda la firma di un grande trattato di libero scambio tra paesi asiatici. Lo scorso mese di novembre è stato infatti firmato il RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership, che possiamo tradurre come: partenariato economico regionale onnicomprensivo), uno dei più grandi accordi commerciali della storia, sottoscritto da 15 paesi a cominciare dalla Cina ma poi ci sono: Australia, Corea del Sud, Giappone, Nuova Zelanda, Indonesia, Singapore, Thailandia, Vietnam, Filippine, Myanmar, Malesia, Laos, Cambogia e Brunei. Questi paesi nel loro complesso producono circa un terzo del PIL mondiale, e coinvolgono una popolazione di oltre 2,5 miliardi di persone: stiamo parlando di qualcosa di molto rilevante, non di bruscolini.
L’India, l’altra grande potenza economica in ascesa in Asia, non ha aderito a questo accordo per varie ragioni tra cui: le recenti tensioni, con anche qualche scontro militare, ai confini settentrionali con la Cina e la paura di dover sottostare a regole dettate da Pechino mentre l’India, per dimensioni e per ambizioni, è un competitore diretto della Cina.
Quest’accordo dovrebbe portare alla riduzione dei dazi e delle altre barriere doganali tra i paesi aderenti, favorendo quindi lo sviluppo degli scambi commerciali e degli investimenti, e dovrebbe essere prodromico alla creazione di una vera e propria area di libero scambio. L’obiettivo finale è quello di creare una macroregione economicamente integrata sul modello dell’Unione Europea o dell’accordo esistente tra i paesi del Nord America: Stati Uniti, Canada e Messico.
Si uniformeranno anche standard di produzione, procedure commerciali, regole sul copyright quindi sulla proprietà intellettuale, oltre allo snellimento delle procedure doganali con conseguente riduzione dei prezzi di transazione commerciale.
Entro il 2030 questo accordo produrrà un aumento annuale degli scambi commerciali tra quei paesi di circa 200 miliardi di dollari determinando una crescita annua del PIL dei paesi partecipanti dello 0,2%.
Il primo ministro cinese Li Keqiang ha dichiarato che si tratta di «una vittoria per il multilateralismo e il libero scambio». Facile vedere in quella dichiarazione una frecciata polemica contro l’amministrazione americana del Presidente Trump che, negli ultimi tempi, aveva virato verso soluzioni unilaterali e verso politiche protezionistiche.
Mentre noi europei ci illudiamo di essere ancora l’ombelico del mondo e perdiamo tempo in sterili dibattiti tra formiche e cicale, tra sedicenti frugali e cosiddetti spendaccioni, gli equilibri economici e geopolitici del pianeta si stanno gradualmente spostando dall’area atlantica ed europea a quella asiatico-pacifica.
Un trattato rivoluzionario
Questo accordo è importante per diverse ragioni. Innanzitutto economiche, le abbiamo succintamente esplicitate, ma anche per ragioni di natura politica, diplomatica e geopolitica.
All’accordo hanno aderito paesi che, storicamente, sono se non apertamente nemici certamente avversari dal punto di vista politico e in forte competizione dal punto di vista economico, come la Cina con il Giappone o la Corea del Sud. Si tratta dei tre maggiori paesi manifatturieri dell’Asia, con alle spalle una storia di conflitti militari e in forte competizione tra di loro, che per la prima volta decidono di cooperare sul piano economico.
Pechino ha l’obiettivo di accrescere la propria leadership regionale sia sul piano commerciale che su quello politico e spera di poter agganciare questo accordo alle sue strategie sulla Nuova Via della Seta. Il Giappone e la Corea del Sud sperano di abbattere le elevate tariffe doganali che esistono sul mercato cinese per poter accrescere le esportazioni dei loro beni industriali.
L’accordo è importante poi dal punto di vista diplomatico anche perché presenta l’approccio cinese alle questioni internazionali, sia economiche che politiche, che è alternativo a quello americano, almeno quello incarnato negli ultimi anni dall’amministrazione Trump. La Cina sceglie un approccio multilaterale e coinvolge in un accordo commerciale cosiddetto win-win, cioè qualcosa che avvantaggia tutti i partecipanti senza scontentare nessuno, anche diversi alleati storici degli Stati Uniti come la Corea del Sud e il Giappone ma anche l’Australia, la Nuova Zelanda o le Filippine.
Che si tratti di un grande successo oltre che economico anche di immagine, e quindi di propaganda politica per la Cina, lo dimostra anche il fatto che la diffidenza e la cattiva immagine che quel paese si era fatto nei mesi passati per essere stata la nazione da cui era originato quello che il presidente Trump, per mesi, polemicamente, aveva chiamato il “virus cinese”, si sono praticamente dissolte. La Cina ha superato il problema del coronavirus e ha avviato una grande campagna propagandistica, fatta anche di gesti concreti di solidarietà, per far dimenticare come si è sviluppato questo virus che ci sta rendendo la vita difficile.
Il coronavirus in Cina
La Cina, come ormai sappiamo, è il paese nel quale è spuntato il coronavirus, probabilmente nell’autunno del 2019, in quelli che vengono chiamati wet market, cioè i mercati all’aperto dove, per tradizione, si vendono animali vivi di ogni specie. I cinesi, sappiamo, non sono particolarmente schizzinosi e si mangiano qualunque cosa si muova. D’altronde per nutrire una popolazione molto numerosa non si può sempre fare i difficili e se gli insetti o i serpenti sono fonte di proteine ben vengano. Noi europei siamo, almeno da qualche decennio a questa parte, molto viziati e all’idea di un bell’arrosticino di serpente, di un succulento piatto di cavallette fritte in pastella o di una zuppa di bachi da seta veniamo colti dal raccapriccio. In realtà anche i gusti gastronomici sono frutto di condizionamenti culturali. Noi facciamo tanto gli schizzinosi con i piatti degli altri ma ci dimentichiamo che, per esempio, in Italia si mangiano le lumache, che in fin dei conti sono dei grossi vermoni viscidi, si mangiano le anguille che in fondo sono dei serpenti acquatici, che nella Pianura Padana, soprattutto nelle zone di risaie come il Vercellese o la Lomellina, si mangiano le rane, in molte zone si mangiano i ghiri che una volta spellati sembrano dei grandi topastri e in Sardegna si mangia il famoso casu marzu, il formaggio con i vermi.
Il problema non è quello che si mangia, ma il fatto che nelle grandi città cinesi si tengono questi wet market dove si portano animali vivi di ogni specie − il fatto che siano vivi è per gli acquirenti dimostrazione di freschezza del prodotto − che entrano in contatto con migliaia di persone e possono trasmettere infezioni e malattie. Il problema non è quindi gastronomico ma igienico-sanitario. Le stesse autorità cinesi, consapevoli di questo fatto, hanno ultimamente imposto restrizioni piuttosto severe su questo tipo di mercati ma è comunque complicato cambiare tradizioni millenarie di un popolo così vasto.
Coronavirus sconfitto
Comunque, la Cina è stato il primo paese a dover affrontare il coronavirus ed è stato affrontato con la fermezza che soltanto un regime non democratico può avere. Furono messe in atto misure severissime di lockdown con prelievi forzati di coloro che disobbedivano alle restrizioni e una grande disciplina collettiva. Al confronto, le lamentazioni italiane sull’inalienabile diritto allo spritz e all’apericena rasentano il grottesco!
In pochi mesi la Cina è riuscita a contenere e a ridurre al minimo il numero di contagi. Ora, è probabilmente vero che i numeri reali, sia sui contagiati che sulle vittime, siano stati fortemente ridimensionati dalle autorità di quel paese, però è indubbio che il virus è stato sconfitto, le restrizioni sono state eliminate e si sta tornando velocemente a condizioni di vita normale. Il livello di allerta è sempre elevato, ma la Cina ha ripreso a correre anche a livello economico. Quel paese sarà uno dei pochi che chiuderà il 2020 con il segno più davanti al suo PIL. L’economia cinese dovrebbe crescere secondo le stime del FMI, del +2% nel 2020 e tornare già dal 2021 a tassi di crescita pre-crisi, attorno al 6-7% l’anno. Tassi che a noi italiani sembrano strabilianti ma negli anni passati la Cina aveva toccato anche il 10-12% annuo di crescita.
Il miracolo economico cinese
Cerchiamo quindi di capire come è stato possibile questo miracolo economico cinese e quali sono le prospettive di quel paese per i prossimi anni. Dobbiamo quindi fare qualche piccolo passo indietro per capire il contesto storico.
La Cina è, dal punto di vista politico, una repubblica socialista che si ispira all’ideologia marxista-leninista e nella quale il Partito Comunista, che conta più di 80 milioni di iscritti, esercita il potere politico e amministrativo. In realtà, a partire dalla fine degli anni Settanta, il regime cinese si è ispirato a principi di massimo pragmatismo che hanno portato il paese a un rapido e impetuoso sviluppo economico. Nel dicembre del 1978 arriva al potere Deng Xiaoping, uno dei più intelligenti collaboratori di Mao Zedong, che era stato allontanato dal potere e perseguitato durante gli anni della Rivoluzione Culturale. Deng è un uomo molto lucido, molto preparato e soprattutto molto pragmatico.
Deng è un marxista convinto ma si rende conto che non è possibile “mettere le braghe al mondo” come cercavano spesso di fare molti marxisti: non si può pensare di rinchiudere la realtà dentro schemi ideologici precostituiti. I principi del marxismo-leninismo sono un’ispirazione e una guida fondamentale, ma poi quei principi debbono essere tradotti in pratica in base a quelle che sono le condizioni storiche dei singoli paesi e quindi il socialismo in Cina dovrà avere caratteristiche cinesi e non seguire modelli astratti.
Deng lancia subito le cosiddette “4 grandi modernizzazioni”, un programma radicale di riforme che dovevano investire l’agricoltura, l’industria, la scienza e la tecnologia. La Cina è un paese immenso con una popolazione infinita, è un paese che ha alle spalle una storia e una cultura millenaria, ha grandi ambizioni ma è, alla fine degli anni Settanta, ancora un paese di contadini poveri.
Deng ha le idee chiare, la Cina deve aprirsi all’economia di mercato. I vecchi sistemi di gestione economica di ispirazione sovietica basati sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione e sulla pianificazione centralizzata avevano un fondamentale difetto: non funzionavano, o comunque non erano adeguati alle esigenze del suo paese in quel momento storico. Se si voleva sviluppare l’economia quello che contava non era il metodo ma i risultati. Deng si ispira in parte alla cosiddetta NEP, la “Nuova Politica Economica” varata in Unione Sovietica da Lenin e da Bucharin all’inizio degli anni Venti, per favorire la ripresa dell’economia dopo il periodo della rivoluzione e della guerra civile. Quella fu un’epoca di liberalizzazione economica che consentì, in pochi anni, di riportare sia la produzione agricola che quella industriale ai livelli precedenti alla Prima Guerra Mondiale. Tra l’altro, a metà degli anni Venti un giovanissimo Deng Xiaoping aveva vissuto e studiato a Mosca. Ma Deng fu molto colpito anche, dopo un viaggio a Singapore, dalla strabiliante crescita economica di quella piccola città Stato. Le nuove parole d’ordine che Deng diede ai contadini furono: “Arricchitevi!” e “Diventare ricchi è glorioso!”. L’altra frase, citatissima, di Deng è quella secondo cui: “L’importante non è che i gatti siano bianchi o neri, l’importante è che acchiappino i topi!”. Un approccio, quindi, quello di Deng, non ideologico ma pragmatico alle questioni economiche.
Ma delle riforme di Deng e di quel che è accaduto in Cina negli ultimi decenni parleremo nella prossima puntata.
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