La riforma del reddito di cittadinanza

Scritto da in data Maggio 15, 2023

Propaganda e giochi di prestigio sulla pelle dei bisognosi.

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I provvedimenti del Governo del primo maggio 2023

Lo scorso primo maggio il Governo Meloni ha varato diversi provvedimenti, tra cui due misure importanti: un taglio del cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti con redditi al di sotto dei 35.000 euro, e la tanto annunciata riforma del reddito di cittadinanza. Il primo provvedimento porterà per i prossimi sei mesi qualche decina di euro in più in busta paga ai redditi più bassi, il secondo porterà qualche centinaio di euro in meno in tasca a chi un reddito non ce l’ha. La singolare coincidenza spiega meglio di qualsiasi ragionamento politico qual è l’idea di redistribuzione del reddito che ha in testa la destra al governo. In pratica, si tolgono un po’ di soldi dalle tasche di chi vive di sussidi pubblici per distribuire un po’ di soldi a chi, pur lavorando, fa fatica ad arrivare a fine mese. Si toglie agli ultimi per dare ai penultimi.
Dopo una pandemia devastante, che ha provocato una caduta del PIL del 9%, centinaia di migliaia di posti di lavoro persi, un aumento in soli due anni di un milione di persone in povertà assoluta, e mentre il conflitto in Ucraina sta alimentando un’inflazione che falcidia i redditi delle famiglie, qual è la priorità per il governo?
Per la destra, tra le priorità del Paese c’era la riforma dell’unico strumento universale di contrasto alla povertà esistente in Italia, da pochissimi anni, cioè il reddito di cittadinanza.

I politici italiani e il tema della povertà

Ma lo sappiamo, la povertà non è argomento che affascina i nostri politici. Non interessa a quelli di destra, convinti in cuor loro che se uno è povero in fondo è colpa sua, probabilmente non ha voglia di lavorare, non si dà abbastanza da fare, non è sufficientemente capace. La povertà non viene vista dalla destra come una spiacevole condizione nella quale chiunque si potrebbe trovare, come la malattia, la disabilità o la guerra. La povertà viene vista quasi come una scelta individuale, se non addirittura una colpa. Se il povero disgraziato, poi, ha persino l’ardire di chiedere un sussidio pubblico, come il reddito di cittadinanza, per tirare avanti, è sicuramente un fannullone conclamato, un lazzarone congenito, un furbetto a cui piace vivere sulle spalle degli altri, secondo il vecchio detto napoletano: chiagni e fotti!
Ma la povertà non interessa nemmeno ai politici di sinistra, preoccupati di cose ritenute più importanti come abbinare bene i colori dei loro vestiti, mobilitarsi per salvare gli orsi del Trentino oppure inventarsi il nuovo linguaggio schwa più inclusivo, per combattere le discriminazioni di genere, dimenticandosi che la prima, fondamentale, linea di faglia attraverso cui passano, crescono e si rafforzano le discriminazioni, di qualunque tipo, è il reddito disponibile!
Ma quanto siano sensibili i politici italiani al tema della povertà lo aveva rappresentato alcuni anni fa in maniera esilarante il comico Antonio Albanese, inventandosi il personaggio dell’onorevole Cetto Laqualunque. Sentiamo cosa diceva in un suo celebre comizio:

«Cari, cari amici elettori e sdraiabilmente amiche elettrici di Marina di Sopra, mi è stato chiesto se vengo eletto cosa intendo fare per i poveri e i bisognosi? ‘Na beata minchia! È ora di finirla, sta cosa dei bisognosi è una mania, poi sono bisognoso anch’io di voti. Affettivamente mi servono più dell’ossigeno, qui siamo in guerra, un’elezione dopo l’altra, io non faccio prigionieri. Tu mi voti, ti trovo un lavoro e ti sistemo. Tu non mi voti, in ntu culo attia e a tutt’a famiglia! Applauso… De Santis, tu ti sei fissato che i problemi del Meridione sono il lavoro, lo sviluppo economico, la valorizzazione delle risorse naturali, ma più natura du pilu che c’è? Qui da noi non serve lavoro, è risaputo, non serve lavoro che se uno sa firmare due assegni a vuoto di fame non muore».

Una massiccia campagna di propaganda

La riforma del reddito di cittadinanza era stata preparata da una massiccia campagna di propaganda, iniziata già prima delle elezioni e portata avanti, con assoluto sprezzo del ridicolo, dalle testate giornalistiche, sempre più numerose, che fiancheggiano il Governo Meloni.
Lo schema di questa campagna era più o meno sempre lo stesso: presunte inchieste su imprenditori disperati perché non trovavano personale pur offrendo stipendi di tutto rispetto, assunzione regolare, orario sindacale, ferie pagate e ogni genere di benefit per colpa, ovviamente, del reddito di cittadinanza; poi si andava a scovare qualche farabutto che pur prendendo il sussidio lavorava in nero, quindi si intervistava qualche utile idiota che rivendicava con fierezza di essere percettore di reddito e di non avere alcuna intenzione, non dico di mettersi a lavorare ma nemmeno di mettersi alla ricerca di un lavoro. Ovviamente costui solitamente era napoletano, anche perché vellicare un po’ di pregiudizio antimeridionale torna sempre utile a certe parti politiche.
Questa campagna di propaganda trovò il suo apice un paio di mesi orsono in una vicenda al limite del grottesco. Per un paio di settimane apparve su tutti i giornali una notizia con un sapore un po’ deamicisiano. Una ragazza napoletana di ventinove anni, tale Giuseppina, bidella in una scuola di Milano, non potendosi permettere l’affitto di un appartamento − ma nemmeno di una semplice stanza − in quella che è la capitale economica del Paese ma dove i prezzi degli immobili sono ormai proibitivi, tutti i santi giorni prendeva il treno alle cinque di mattina in quel di Napoli per raggiungere la sua scuola a Milano verso le 10:30, e quindi alle 18:30 riprendeva il treno che entro le 23:00 la riportava alle pendici del Vesuvio. Paginate intere corredate da foto, interviste, commenti strappalacrime e scatenarsi di infuocati dibattiti in televisione e sui social con decine di milanesi che, improvvisamente, colti da slanci di generosità, invece di chiederti i canonici ottocento euro per un monolocale di venticinque metri quadrati in una casa di ringhiera, utenze e riscaldamento a parte, si offrivano di concedere, finalmente, un affitto calmierato. D’altra parte lo dice la tradizione: Milan col cor in man, Milano con il cuore in mano. I milanesi sono burberi, frettolosi, attenti al portafoglio − per non dire braccini corti, che suonerebbe brutto − ma di fronte alle storie lacrimevoli si commuovono e aprono subito sia il cuore che il portafoglio.
Autorevoli, si fa per dire, penne del giornalismo nostrano spremevano le loro auguste meningi per erigere a esempio imperituro quella povera ragazza che dimostrava un eroico attaccamento al lavoro. Ecco finalmente una terrona… oh scusate, mi è scappato il freno inibitorio, volevo dire «persona di origini meridionali» che invece di sollazzarsi sul divano a spese della collettività scialacquando il sussidio di Stato, sceglieva di lavorare a ottocento chilometri da casa, affrontando una vita di sacrifici e rinunce ma lo faceva a testa alta, con dignità.
Non ci fu bisogno di Sherlock Holmes per rendersi conto che quella notizia era una balla colossale, d’altronde bastava fare due conti, l’eroica lavoratrice se avesse quotidianamente fatto ottocento chilometri di treno all’andata e altrettanti al ritorno avrebbe speso molto più di quel che guadagnava e quindi più che nominarla cavaliere del lavoro honoris causa, la si sarebbe dovuta sottoporre a TSO − trattamento sanitario obbligatorio − perché, evidentemente, non aveva tutte le rotelle a posto.

La riforma del Reddito di Cittadinanza

Vediamo in sintesi in cosa consiste la tanto annunciata riforma. Innanzitutto si cambiano i nomi e le sigle. Nel Paese degli azzeccagarbugli le questioni terminologiche affascinano molto sia la sinistra che la destra. Non si chiamerà più Reddito di Cittadinanza ma Assegno di Inclusione. Si riduce poi la durata del sostegno: da diciotto mesi sempre rinnovabili si passa ai primi diciotto mesi rinnovabili soltanto per altri dodici mesi. Si riduce la quantità di risorse investite: da più di nove miliardi all’anno a circa sette, e quindi molti ne resteranno esclusi. Si rendono più restrittive le condizioni d’accesso: aumentano i controlli e aumentano le pene per chi presenta false attestazioni.
La riforma più rilevante è però il tentativo, a nostro parere un po’ maldestro come vedremo più avanti, di separare le misure di sostegno alla povertà dalle cosiddette politiche attive del lavoro, cioè tutte quelle misure che dovrebbero aiutare chi il lavoro non ce l’ha a trovarne uno. Su questo punto, oggettivamente, la vecchia legge del Reddito di Cittadinanza faceva parecchia confusione.
Per fare questa operazione nella riforma si suddividono i bisognosi in due categorie: coloro che sono in condizione di disagio ma non possono lavorare − minori, anziani, disabili − e coloro che invece potrebbero lavorare, i cosiddetti “occupabili”, praticamente tutti coloro che hanno un’età tra i 18 e i 59 anni e godono di buona salute. Questi ultimi non riceveranno più il sussidio ma potranno accedere al cosiddetto Supporto per la Formazione e il Lavoro. In pratica, in cambio di un sussidio di soli 350 euro al mese per un periodo di dodici mesi, dovranno seguire corsi di formazione e riqualificazione professionale che li dovrebbero aiutare a trovare un’occupazione. Nel frattempo, se ricevono un’offerta di lavoro sia a tempo indeterminato su tutto il territorio nazionale che a tempo determinato, purché non disti più ottanta chilometri dal domicilio, non potranno più rifiutarla pena la perdita dell’aiuto.
Infine la gestione delle pratiche non è più esclusiva dell’Inps. Oltre la domanda all’Inps, da fare online con una procedura tutt’altro che intuitiva, dovranno intervenire anche i servizi sociali dei comuni per farsi carico dei richiedenti e indirizzare i cosiddetti “occupabili” verso i centri per l’impiego.

Una riforma sbagliata nel metodo e nel merito

Si potrebbero fare diverse obiezioni a questa riforma, ma le due critiche principali sono una di metodo e un’altra di merito. Cominciamo dal metodo. Il Reddito di Cittadinanza aveva diversi limiti ma una fondamentale virtù: era una misura universale e automatica, a cui potevano accedere tutti, in presenza, ovviamente, di determinati requisiti. Rientravi nei parametri, presentavi domanda e ti veniva elargito il sussidio. Ora la misura non è più universale, perché si decide ex ante di ridurre lo stanziamento per questa misura di circa un quarto. Detto in maniera un po’ brutale, si risparmia e si fa cassa sulla pelle dei bisognosi invece di misurare le dimensioni reali del disagio sociale e poi definire gli stanziamenti in funzione delle effettive necessità.
La seconda obiezione è di merito. Si crea una nuova categoria − quella dei cosiddetti “occupabili” − che però in gran parte sono occupabili soltanto in teoria. L’occupabilità è una condizione generica legata allo stato individuale di un soggetto, in pratica sei disoccupato e in buona salute indi per cui sei, in teoria, occupabile. Altra cosa è la possibilità reale di trovare un’occupazione, quella che potremmo chiamare la spendibilità di quel soggetto nel mercato del lavoro. In un sistema economico sempre più complesso e tecnologico le aziende hanno poco bisogno di disoccupati con bassa scolarizzazione ma richiedono figure tecniche, laureati, professionalità di alto livello. Hanno poco bisogno di figure con scarse se non nessuna esperienza lavorativa.
Il problema è che gran parte dei cosiddetti occupabili sono persone con bassissima scolarizzazione e con scarse esperienze di lavoro.
C’è un ulteriore problema legato alla distribuzione sul territorio. Se uno è disoccupato a Caltanissetta e si apre una possibilità di lavoro a Milano, come farà a spostarsi a Milano se a Caltanissetta ha la casa e la famiglia mentre a Milano trovare una casa in affitto a meno di novecento, mille euro al mese è praticamente impossibile? I posti di lavoro sono disponibili nelle aree più sviluppate del Paese, che sono nel centro-nord, mentre una parte rilevante dei disoccupati è nel Meridione. La gente non vola, ed è molto complicato spostarsi in un Paese con un mercato immobiliare rigido, reso rigido anche dalla mancanza, nelle grandi aree urbane, di case popolari o di alloggi ad affitto calmierato. L’ultimo grande piano di costruzione di case popolari in Italia risale agli anni Cinquanta e fu realizzato da Amintore Fanfani, uno dei grandi leader della destra democristiana di quei tempi.

La soluzione per i poveri: si arrangino!

Di fronte alle critiche, molti esponenti della destra rispondono dicendo che fino al 2018 non esisteva in Italia nessun sussidio contro la povertà eppure non si vedeva la gente morire di fame per le strade. Questo genere di argomentazioni, oltre a essere piuttosto bizzarre, rivelano in realtà un retropensiero che si riallaccia alla campagna propagandistica di cui parlavamo all’inizio. Molti, a destra, sono convinti che chi si trova in difficoltà debba essere disponibile a lavorare in nero o a lavorare in condizioni di estremo sfruttamento, con paghe ridicole, non avendo altra scelta. Molti imprenditori − non tutti, non generalizziamo − sostengono davanti alle telecamere che sono pronti a offrire stipendi dignitosi, assunzioni regolari, orari tollerabili ma poi quando si presenta il povero disgraziato che ha bisogno di lavorare le condizioni cambiano e quel che viene offerto, in realtà, sono orari impossibili e paghe oltraggiose. D’altronde, per la destra il problema della povertà non è questione della quale si dovrebbe occupare lo Stato. In sostanza torniamo a quanto dicevamo prima: per molti, se uno è povero o ha difficoltà economiche il problema è suo e non deve riguardare la collettività o lo Stato: si arrangi… lavori in nero, si faccia sfruttare o, come diceva l’impareggiabile Cetto Laqualunque, «se sa firmare qualche assegno a vuoto di fame non muore di certo!».

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