Lo sviluppo della globalizzazione

Scritto da in data Luglio 11, 2023

Tra gli anni Novanta e il primo decennio del nuovo secolo la globalizzazione si sviluppa nel rapporto sempre più stretto tra Stati Uniti e Cina.

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Nella puntata precedente abbiamo visto come è nata la globalizzazione, in questa ci occuperemo del suo sviluppo, o meglio di alcuni aspetti del suo sviluppo.

La Cina entra nell’Organizzazione mondiale del commercio

Nella seconda metà del 2001 avvengono due eventi storici fondamentali. Il primo, che tutti ricordano, è l’attacco alle Torri Gemelle a New York, sicuramente il più spettacolare attentato terroristico della storia. Il secondo evento, che pochi ricordano, ma che ha avuto conseguenze sistemiche, persino maggiori di quelle dell’attentato alle Twin Towers, è l’entrata della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio. La Cina da quel momento può accedere ai mercati esteri senza vincoli, ostacoli e barriere doganali. A sua volta dovrebbe aprire il suo, potenzialmente immenso, mercato alle esportazioni degli altri paesi o almeno questo è quello che speravano gli americani, i quali pensavano di riuscire a vendere le loro merci a 1,4 miliardi di consumatori cinesi. Ma, come spesso accade nella storia, un conto sono i ragionamenti e le previsioni fatte a tavolino, altra cosa è quel che accade nella realtà. Le esportazioni degli Stati Uniti verso la Cina crebbero ma di poco perché le merci americane erano troppo care per i consumatori cinesi che avevano ancora redditi medi piuttosto bassi. Invece le multinazionali americane colsero l’occasione per delocalizzare in Cina molte produzioni manifatturiere potendo contare in quel paese su costi di produzione molto bassi, a cominciare dai salari dei lavoratori che erano un decimo di quelli americani ma potendo contare anche su normative, per esempio sulle questioni ambientali, meno restrittive di quelle vigenti nel loro paese. Ma il vantaggio competitivo della Cina, in termini di costi bassi era talmente forte che le delocalizzazioni non avvennero soltanto dagli Stati Uniti alla Cina ma anche dai paesi europei, dal Giappone, da Taiwan, dalla Corea del Sud e persino da paesi latinoamericani a medio livello di sviluppo come il Messico. In pochi anni ci fu un’impennata di investimenti in Cina, tutti volevano investire in quel paese e così aumentò esponenzialmente la produzione di ogni genere di prodotto e di conseguenza anche le esportazioni cinesi. Ogni anno l’avanzo commerciale della Cina, cioè la differenza tra esportazioni ed importazioni, faceva registrare un nuovo record. La Cina cresceva economicamente, aumentava le sue riserve di valuta ma anche le multinazionali che delocalizzavano in Cina aumentavano i loro profitti perché riuscivano a ridurre i costi di produzione.
Certamente lo straordinario successo cinese era dovuto al fondamentale vantaggio che quel paese aveva in termini di costi, soprattutto della manodopera, potendo contare su una riserva di popolazione inesauribile, disponibile a lavorare in condizioni para schiavistiche.
Ma il vantaggio competitivo della Cina si basava anche su pratiche commerciali che, a voler essere buoni, definiremo scorrette. I cinesi spesso e volentieri non rispettavano brevetti e copyright, copiavano qualunque cosa provenisse dall’estero. Molti produttori occidentali spostavano i loro stabilimenti in Cina e quindi anche tecnologie, brevetti industriali, tecniche produttive e regolarmente, dopo poco tempo, compariva un concorrente cinese che fabbricava prodotti simili a prezzi ancora più bassi. I cinesi copiavano di tutto dai capi d’abbigliamento, agli strumenti musicali, dalle automobili al design, dai prodotti agroalimentari a quelli tecnologici. Si arrivò persino a copiare i libri di Harry Potter. Il successo delle avventure del maghetto inglese era stato clamoroso anche sul mercato cinese e quindi qualche editore locale decise di far scrivere ad autori cinesi nuove avventure di Harry Potter che furono pubblicate soltanto in quel paese e che l’autrice vera di quei libri non aveva mai scritto.
Queste pratiche non soltanto non venivano perseguite dalle autorità cinesi ma il più delle volte erano tollerate se non, addirittura, in alcuni casi, persino incoraggiate.

Le autorità cinesi impediscono la rivalutazione del renminbi

Ma c’era un altro problema ancora più grave, quello del cambio valutario mantenuto artificialmente basso per scelta deliberata delle autorità monetarie cinesi. Non ci addentreremo ora in questioni tecniche che sono anche un po’ noiose e che magari affronteremo in un altro podcast. Semplifichiamo un po’ il ragionamento per renderlo comprensibile.
L’economia capitalistica ha molti difetti ma ha anche alcuni meccanismi di regolazione estremamente efficienti. Uno di questi meccanismi, in un mercato di libero scambio e di cambi variabili è appunto la variazione del cambio valutario per regolare squilibri nella bilancia dei pagamenti. Se un paese come la Cina diventa molto competitivo e aumenta in maniera esponenziale il suo export, questo fatto danneggerà altri paesi le cui esportazioni si ridurranno a vantaggio di quelle cinesi. Per evitare che questi paesi si infastidiscano e introducano dazi e altri ostacoli al commercio, interviene il meccanismo del cambio. Si tratta di un meccanismo efficiente perché automatico. Dal momento che per comprare le merci cinesi gli importatori di altri paesi dovranno scambiare la loro valuta in moneta cinese, cioè in renminbi, la domanda internazionale di valuta cinese cresce ma per la legge della domanda e dell’offerta, se la domanda di un qualsiasi prodotto aumenta e in questo caso la moneta è anche un prodotto come qualunque altro, il valore, il prezzo, di quel prodotto aumenta. Nel caso specifico se da tutto il mondo aumenta la domanda di renminbi cinesi il valore della moneta cinese dovrebbe crescere, quindi il renminbi si dovrebbe rivalutare rispetto al dollaro, all’euro, allo yen giapponese e via di seguito. Ma se il renminbi si rivaluta cosa succede alle merci cinesi? Facciamo un esempio semplicissimo. Supponiamo che per comprare 1.000 renminbi cinesi un importatore statunitense debba pagare 100 dollari. Se il renminbi si rivaluta del 10% per comprare 1.000 renminbi cinesi lo stesso importatore dovrà pagare 110 dollari. Ma a quel punto la convenienza di comprare merci cinesi si riduce e quindi si riducono gli acquisti degli importatori esteri, si riducono le esportazioni cinesi e gli avanzi della bilancia commerciale cinese. Quindi in automatico, senza intervento di nessun governo, ma lasciando che le forze del mercato agiscano liberamente, si ristabilisce una situazione più equilibrata. La Cina perderà un po’ del suo vantaggio competitivo ma gli altri paesi non cercheranno di frenare il successo cinese reintroducendo dazi doganali e altre restrizioni al libero scambio delle merci.
Ma nel caso che stiamo analizzando il problema fu che le autorità di Pechino intervennero con artifici finanziari per evitare la rivalutazione del renminbi cinese e continuare ad accumulare enormi avanzi commerciali a discapito degli altri paesi.
Ora di fronte a questa situazione la domanda che molti si pongono è: perché i cinesi si comportarono in quel modo piuttosto scorretto? La ragione è evidente, ci guadagnavano una quantità enorme di soldi, riuscivano a far crescere la loro economia a ritmi pazzeschi, 10-12% all’anno e, aumentando la loro forza economica, aumentavano anche la loro forza ed influenza politica. La domanda giusta da porsi dovrebbe essere un’altra: perché nessuno cercò di fermarli, di ostacolarli, di frenarli? Non lo fecero gli Stati Uniti ma non lo fece nemmeno l’Unione Europea che anzi aprì il proprio spazio economico all’invasione delle merci cinesi. Anche tra gli economisti pochissimi osarono avanzare critiche ma nel migliore dei casi non furono minimamente presi in considerazione, nel peggiore furono semplicemente insultati. Ma perché accadde ciò?
Ci sono ragioni di buon senso ma ci sono anche ragioni meno evidenti, legate a questioni di interesse e di piccola bottega politica e infine ci sono ragioni di carattere ideologico. Cominciamo dalle prime. Nella storia si creano momenti nei quali il sentimento prevalente nelle opinioni pubbliche e nelle classi politiche, anche se fondamentalmente sbagliato, prende il sopravvento e orienta le azioni degli individui e dei popoli verso direzioni che, con il senno del poi, si riveleranno catastrofiche. Pensiamo alla Belle Époque, l’epoca storica tra la fine dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale. Fu un periodo di grande ottimismo, alimentato da straordinarie scoperte scientifiche e da grandi innovazioni tecniche. In quel periodo nascevano e si sviluppavano l’industria automobilistica, quella aeronautica e quella cinematografica. Tutti pensavano che l’umanità avrebbe continuato a progredire senza sosta per tutto il corso del Novecento senza rendersi conto che invece stava precipitando verso la tragedia della Prima guerra mondiale. In quel periodo il mood collettivo era ottimista e fiducioso e, ad un secolo di distanza avvenne, in circostanze completamente diverse, qualcosa di analogo. La globalizzazione stava dando alla Cina, che da sola rappresentava un quinto dell’umanità, l’occasione storica di uscire dalla povertà e trasformarsi in un paese ricco e moderno. Chi avrebbe avuto il coraggio, l’intenzione, l’insensatezza, di frenare quello che sembrava un destino ineluttabile? Qualcuno osò lanciare un avvertimento sostenendo che aver accolto la Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio era come essersi seduti a un tavolo da poker con un giocatore che era notoriamente un baro, ma, come dicevamo prima, le poche voci dissonanti furono ignorate.

La Cina finanzia le guerre di Bush

Ma c’erano anche altre ragioni meno evidenti ma altrettanto robuste. La prima potremmo definirla di “bottega politica”. Il Presidente americano George Bush Junior e il suo staff avevano lanciato, dopo l’attentato dell’11 settembre 2001, la cosiddetta “guerra al terrore”, invadendo l’Afghanistan. Due anni dopo, con pretesti falsi, fu la volta dell’Iraq. Le guerre purtroppo costano e qualcuno le deve pur pagare. Bush non voleva aumentare le tasse ai suoi concittadini per finanziare quei conflitti e quindi fece quel che spesso fanno i politici a qualunque latitudine, aumentò il debito pubblico. All’epoca i cinesi, che stavano accumulando strabilianti avanzi commerciali, furono ben felici di finanziare il debito pubblico americano acquistando titoli di Stato di quel paese, anche se quel debito serviva per finanziare le nuove smanie imperialiste degli Stati Uniti. Era un modo pragmatico e interessato per ringraziare gli Stati Uniti per il sostegno dato alla Cina facendola entrare nell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Sembrava una classica situazione win-win, cioè quelle situazioni nelle quali tutti ci guadagnano qualcosa e nessuno perde nulla.

I costi delle delocalizzazioni produttive

Ma chi guadagnò molti soldi da quella situazione furono anche le grandi imprese multinazionali, sia statunitensi che di altri paesi, le quali delocalizzando in Cina le loro produzioni, abbattevano i costi di produzione e aumentavano i profitti. Ovviamente le grandi imprese che aumentano i loro guadagni hanno un modo pratico per ringraziare i politici che gli hanno consentito di accrescere i loro profitti, aumentare i finanziamenti alla politica. Ma questa volta il gioco non fu la classica situazione win-win. Le delocalizzazioni furono pagate innanzitutto dalle classi lavoratrici. Se un’azienda chiude il suo stabilimento produttivo negli Stati Uniti, operai, impiegati e dirigenti perderanno il posto di lavoro. Ma perderanno il lavoro anche quei ceti medi fatti di consulenti, professionisti e attività di servizi alle imprese, che con la scomparsa delle attività produttive vedranno sparire i loro potenziali clienti. Chi pagò le conseguenze di quell’enorme processo di delocalizzazione produttiva, che in alcune aree degli Stati Uniti ma anche dell’Europa assunse la forma di un vero e proprio processo di deindustrializzazione, furono operai e ceti medi che persero: lavoro, reddito e status sociale.
Ci fu un’altra ragione, anche questa meno evidente, ma altrettanto potente, una ragione ideologica. Con la scomparsa dell’Unione Sovietica e il tramonto dell’ideologia comunista, il capitalismo sembrava trionfare su tutto il pianeta e persino la Cina, l’ultimo paese a definirsi ancora comunista, con pochi altri, ormai aveva adottato, o quanto meno così sembrava, un sistema economico di tipo capitalistico. Come dicevamo nella puntata precedente, l’ideologia neoliberista che aveva dato slancio a questa ripresa del capitalismo a livello globale aveva pervaso le accademie, le università, i centri di ricerca economica, i mass media e le classi politiche e quindi, dal momento che tutti pensavano che le libere forze del mercato avrebbero trionfato fino all’eternità, nessuno osò sollevare dubbi. L’Unione Europea basava le sue strutture e le sue istituzioni sul Trattato di Maastricht che ha un’impostazione ideologica di fondo di stampo neoliberista e quindi pochi osarono obiettare che abbattere qualunque ostacolo alla libera circolazione delle merci cinesi avrebbe creato problemi e difficoltà ad intere filiere produttive, soprattutto in paesi come l’Italia che basava la sua manifattura su produzione di beni di consumo, dal tessile all’arredamento, agli elettrodomestici, facilmente copiabili o sostituibili da parte di produzioni cinesi.
Riprendendo la similitudine con una partita a poker mentre c’era un giocatore, la Cina, che non aveva alcuna intenzione di rispettare le regole pur di vincere la partita e perseguiva con assoluta lucidità strategica i suoi obiettivi, gli altri giocatori sembravano distratti, poco attenti e continuarono per lungo tempo a sottovalutare, un po’ per interesse, un po’ per supponenza, un po’ per semplice ignoranza, chi gli stava di fronte.
In pochi anni le merci cinesi invasero i mercati di tutto il mondo. Nel 2003 il 70% delle merci vendute da Walmart, la più grande catena di supermercati negli Stati Uniti, era di produzione cinese. Stati Uniti e Cina furono di fatto, in quegli anni, i più convinti sostenitori della globalizzazione, ma per ragioni molto diverse e su questo equivoco furono costruiti i nuovi precari equilibri mondiali.

Stati Uniti e Cina, dalla collaborazione al confronto

Da un lato gli americani pensavano che la Cina, avendo abbracciato l’economia capitalista, o quantomeno alcuni suoi aspetti, probabilmente i peggiori, avrebbe gradualmente abbandonato l’ideologia comunista e sarebbe diventata un nuovo enorme mercato per le merci americane. D’altro lato i cinesi compresero che si stava aprendo per loro un’opportunità storica che non avrebbero dovuto sprecare, un’opportunità che gli Stati Uniti non avevano dato negli anni Ottanta all’Unione Sovietica di Gorbaciov ma che non diedero nemmeno negli anni Novanta alla Russia di Eltsin. I cinesi inoltre non avevano alcuna intenzione di abbandonare le loro idee politiche, il loro era semplicemente un approccio pragmatico, bisognava far crescere l’economia cinese per dare forza e stabilità all’assetto politico del paese e per dare benzina alle ambizioni da grande potenza che la leadership cinese aveva sempre coltivato senza mai riuscire a realizzare perché dietro le spalle aveva un paese povero e quindi debole.
Ma la grande festa della globalizzazione sta per finire anche se in quegli anni sembrava dovesse durare all’infinito. Di questo argomento però parleremo nella prossima puntata.

 

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