L’America di Trump e il declino dell’impero
Scritto da Pasquale Angius in data Dicembre 2, 2024
L’impero americano sembra incamminato sulla via del declino, riuscirà Donald Trump a invertire il corso della storia?
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Il discorso di Trump
Nell’anno 399 dopo Cristo un fine intellettuale nato a Mediolanum, l’odierna Milano, di nome Flavio Manlio Teodoro, giurista, filosofo e autore di un importante trattato di metrica, diventava console dell’Impero Romano d’Occidente. Quell’incarico prestigioso ai vertici dell’amministrazione imperiale arrivava a coronamento di una lunga carriera politica iniziata nel 377 dopo Cristo con il compito di amministrare una provincia africana per poi essere chiamato a Milano alla corte dell’Imperatore Graziano dove svolse diversi incarichi.
In occasione della sua nomina a console il facondo Flavio Manlio Teodoro pronunciò un discorso celebrativo nel quale sottolineava la stabilità e lo splendore dell’impero, l’acume politico dell’imperatore, che all’epoca era Onorio, un ragazzo di 15 anni, e l’efficienza di quell’amministrazione che selezionava in base al merito i migliori a cui affidare responsabilità ed onori. I toni entusiastici e autocelebrativi di quel discorso che faceva presagire una nuova età dell’oro facevano a pugni però con la realtà dell’Impero, almeno di quello d’Occidente.
Onorio, fratello di Galla Placidia, fu uno dei più inetti imperatori romani. Durante il suo regno, nel 410, i Visigoti di Alarico saccheggiarono Roma e due anni prima nel 408, lui stesso aveva fatto uccidere il comandante dell’esercito, il generale Stilicone, di origine vandala, l’unico che avrebbe potuto salvare l’impero dal disfacimento. Qualche decennio dopo nel 476 l’Impero Romano d’Occidente cessò d’esistere e fu suddiviso tra una serie di regni barbarici.
Il discorso autocelebrativo di Donald Trump subito dopo la conferma della sua vittoria nelle elezioni presidenziali americane ricorda la pomposa orazione di quel Flavio Manlio Teodoro che presagiva grande prosperità e vita eterna a quell’impero che entro un paio di generazioni sarebbe scomparso. Lungi da noi voler fare azzardati parallelismi storici ma l’entusiasmo degli slogan trumpiani ci sembrano piuttosto stonati e altrettanto dissonanti quanto l’ottimistico entusiasmo dell’antico politico romano.
D’altronde spesso gli esseri umani hanno dei cosiddetti “bias cognitivi”, in pratica percezioni errate e deformate della realtà che si basano su pregiudizi e ideologie più che sui dati reali.
Trump ha vinto in maniera netta le elezioni presidenziali promettendo di riportare l’America ai fasti del passato, il suo slogan MAGA (Make America Great Again) era molto suggestivo e ha convinto una nazione in crisi d’identità, divisa e depressa, che fatica a fare i conti con un mondo che è cambiato. Ma non saranno gli slogan per quanto efficaci, non sarà il facile ottimismo e la propaganda spiccia che darà slancio alla nuova Presidenza.
Il programma politico di Trump ha un problema fondamentale: è vecchio, superato dai tempi e probabilmente inefficace, gli ha consentito di vincere le elezioni ma difficilmente gli consentirà di vincere le sfide epocali di fronte alle quali si trovano gli Stati Uniti d’America.
Il programma economico di Trump
Ovviamente ad oggi nessuno sa cosa farà realmente il futuro Presidente Trump, personaggio per molti aspetti fuori dagli schemi, talora imprevedibile e comunque sappiamo che in America, come in qualunque altro Paese, le promesse elettorali dei politici sono una cosa, quello che faranno realmente una volta al potere spesso è molto diverso. Quello che faremo quindi potrebbe essere definito un processo alle intenzioni ma proviamo comunque a ragionare sulle proposte ad oggi conosciute del nuovo presidente.
Trump ha promesso di abbassare le aliquote fiscali sui più ricchi, un vecchio “mantra” della destra americana e dell’ideologia neoliberista.
La logica che sta dietro a questa proposta è la convinzione, smentita dai dati e dall’evidenza empirica, che se si abbassano le tasse ai più ricchi, costoro investiranno maggiormente nell’economia e aumenteranno anche i loro consumi, innescando un processo di crescita che alla fine favorirà tutti, anche i meno abbienti.
La logica di questo ragionamento è stata spesso spiegata con l’esempio della marea. Se la marea sale, quindi se l’economia cresce, saliranno, quindi staranno meglio, sia le navi grandi, i più ricchi, ma anche le barche piccole, quindi i più poveri. Un esempio facile ed intuitivo che però dimentica che spesso l’economia è una scienza controintuitiva.
D’altronde Trump lo aveva fatto già durante la sua prima Presidenza dal 2017 al 2020. Il consistente taglio fiscale avrebbe dovuto ridare slancio all’economia americana ma la crescita aumentò di poco, qualche decimale di punto, gli investimenti delle aziende non crebbero e non ci fu alcun effetto sul mercato del lavoro con la creazione di nuovi impieghi.
Le tasse risparmiate finirono in un aumento dei profitti e quindi dei dividendi per gli azionisti, contribuendo ad arricchire ancor più quella minoranza di americani già sufficientemente ricchi, senza alcun effetto su tutti gli altri.
Riduzione del deficit commerciale e dazi doganali
Un altro punto decisivo del programma economico di Trump è il riequilibrio commerciale con i partner esteri.
L’obiettivo è quello di riportare negli Stati Uniti produzioni manifatturiere che nei decenni passati sono state delocalizzate all’estero, in Messico, in Cina o in altri Paesi asiatici.
Il primo passo per favorire il cosiddetto “reshoring” è l’introduzione di dazi doganali sui prodotti importati soprattutto da quei Paesi che, secondo l’amministrazione americana, mettono in atto pratiche commerciali scorrette, a cominciare dalla Cina, ma il provvedimento riguarderà anche stretti alleati degli Stati Uniti come il Messico e il Canada e i Paesi dell’Unione Europea.
Anche questa una strada già percorsa durante il primo mandato di Trump e già allora non aveva dato grandi risultati. Le guerre commerciali, come in genere tutte le guerre, non fanno danni soltanto ad uno dei contendenti ma solitamente innescano una serie di reazioni e controreazioni che finiscono per danneggiare, chi più e chi meno, tutti coloro che vi partecipano.
Durante la prima presidenza Trump i dazi contro le importazioni cinesi avevano spinto Pechino a introdurre a sua volta dazi sulle importazioni, per esempio, di prodotti agroalimentari statunitensi e il governo federale fu costretto a risarcire i produttori di soia americani per il calo delle esportazioni verso la Cina con una spesa di circa 20 miliardi di dollari.
I due Paesi che hanno tratto i maggiori vantaggi economici dalla globalizzazione degli ultimi decenni con l’abbattimento dei dazi e delle altre restrizioni agli scambi commerciali si chiamano Cina e Stati Uniti. Le economie di quei due Paesi sono ormai talmente integrate tra di loro che qualsiasi tentativo di cosiddetto “decoupling”, cioè di disaccoppiamento, finirebbe per creare danni ad entrambi.
La domanda da porsi è: ne vale la pena? Se pensiamo che la principale catena di supermercati statunitense, la Walmart, ha nei suoi cataloghi un 70% di merci che vengono prodotte integralmente o parzialmente in Cina, si può ben capire che un aumento indiscriminato dei dazi sulle importazioni cinesi avrebbe come effetto immediato quello di far crescere i prezzi delle importazioni e quindi avrebbe un effetto inflazionistico andando a colpire tutti i consumatori americani.
L’arma dei dazi sembra quindi un’arma pericolosa ma spuntata che, tra l’altro, nell’immediato avrebbe l’unico effetto certo di fare crescere l’inflazione e nel medio-lungo periodo avrebbe, forse, l’effetto di far crescere gli investimenti e la produzione di merci negli Stati Uniti, in sostituzione delle importazioni.
Ma, lo sottolineiamo, mentre il primo effetto è certo, il secondo è assolutamente ipotetico anche per una ragione che spesso non viene presa in considerazione. Negli ultimi due/tre anni anche gli Stati Uniti hanno subito un’inflazione piuttosto elevata che ha fatto crescere anche i salari.
La conseguenza è che produrre oggi negli Stati Uniti costa molto di più di quanto sarebbe costato sino a qualche anno fa perché tutti i costi: dagli affitti, ai materiali, dai macchinari ai trasporti fino ai salari sono aumentati. Questo significa che gli Stati Uniti negli ultimi anni sono diventati meno competitivi, come Paese, per qualunque produzione manifatturiera, rispetto a qualche anno fa. Questo è un dato strutturale non trascurabile se qualcuno pensa di attirare investimenti e nuove produzioni negli Stati Uniti.
Infine, ricordiamo alcuni dati perché Mister Trump è già stato Presidente degli Stati Uniti dall’inizio del 2018 sino alla fine del 2020 e aveva già a suo tempo promesso di ridurre il deficit commerciale americano, cioè di ridurre la differenza tra esportazioni verso il resto del mondo ed importazioni, e soprattutto bisognava ridurre il deficit nei confronti della Cina.
Se andiamo a vedere le serie storiche sulla bilancia dei pagamenti statunitense vediamo che nel 2016, l’ultimo anno prima dell’insediamento di Trump, gli Stati Uniti avevano un deficit commerciale complessivo, beni e servizi, di 503 miliardi di dollari di cui 276 verso la Cina, nel 2020, ultimo anno della prima presidenza Trump il deficit commerciale complessivo era salito a 653 miliardi di dollari di cui 316 verso la Cina.
Questi sono i dati, alla faccia dei dazi e delle guerre commerciali e sono i dati complessivi, mettendo assieme beni e servizi. Se prendiamo solo i beni, in sostanza i prodotti manifatturieri, il deficit è più alto ancora. Ogni commento è superfluo, i dati parlano da soli.
L’impressione quindi è che sia le guerre commerciali con la Cina o con chiunque altro, sia la spinta verso il “reshoring” siano minacce o desideri che difficilmente produrranno gli effetti sperati.
Nuove frontiere scientifiche e tecnologiche
L’unico punto del programma economico di Trump che sembra invece convincente è quello che riguarda il perseguimento del primato tecnologico americano sintetizzato nell’intenzione di inviare una missione umana su Marte entro i prossimi quattro anni.
A parte le tempistiche probabilmente troppo ottimistiche, l’intenzione di mobilitare enormi risorse sia pubbliche che private per consentire agli Stati Uniti di compiere un ulteriore balzo in avanti nella supremazia tecnologica è sicuramente una prospettiva interessante e positiva.
D’altronde gli Stati Uniti sono il Paese meglio attrezzato del pianeta, dal punto di vista finanziario ma anche normativo, organizzativo oltre che per mentalità per riuscire a raggiungere nuove frontiere scientifiche e tecnologiche.
Il declino degli Stati Uniti e dell’Occidente
C’è un altro dato strutturale che va considerato. Sebbene gli Stati Uniti siano ancora la prima potenza del pianeta, il peso relativo di quel Paese e dei suoi stretti alleati – quello che chiamiamo l’Occidente – è in netto declino.
Se trenta anni fa l’Occidente produceva l’80% del PIL mondiale, oggi il suo peso è sceso al 60% e alla metà di questo secolo sarà sceso al 40%. Le economie non occidentali a cominciare da Cina e India crescono a ritmi nettamente superiori rispetto a quella americana, per non parlare dell’Europa che si è autocondannata alla stagnazione reiterando le assurde politiche di austerità.
Il trionfo dell’ideologia neoliberista a partire dagli anni Ottanta ha contribuito in maniera decisiva alla desertificazione industriale di intere regioni degli Stati Uniti.
Sono state le multinazionali americane a delocalizzare in Cina e nel resto del mondo quelle produzioni manifatturiere che oggi Trump e la sua banda vorrebbero riportare in patria ma è un’operazione molto complicata che somiglia al tentativo di rimettere il dentifricio nel tubetto dopo averlo spremuto.
Quelle delocalizzazioni hanno fatto scomparire migliaia di fabbriche e milioni di posti di lavoro, e hanno distrutto la forza contrattuale della classe operaia statunitense costretta a riciclarsi in nuove occupazioni nel settore dei servizi, più precarie e malpagate, ma hanno anche gonfiato i portafogli degli azionisti di quelle multinazionali che hanno visto crescere in maniera stellare i loro profitti.
Nel discorso sullo stato dell’Unione il presidente Clinton nel 1999 disse testualmente che “le promesse del nostro futuro sono illimitate”.
Le promesse di una nuova età dell’oro si dissolsero come neve al sole con il fallimento della banca d’affari Lehman Brothers nel 2008 e dagli Stati Uniti si diramò il tutto il pianeta la più devastante crisi finanziaria ed economica dell’ultimo secolo. Mentre piccole oligarchie di super ricchi accrescevano ancor più i loro patrimoni, lavoratori e ceto medio venivano chiamati a pagare i costi della crisi. Il modello americano perdeva attrattiva e credibilità non soltanto sul piano economico ma anche su quello politico e culturale.
Nel programma del nuovo presidente Trump non si vede nulla di nuovo che possa far pensare ad un’inversione di questa linea di tendenza storica.
La soluzione al conflitto ucraino
In politica estera Trump ha annunciato che appena si insedierà alla Casa Bianca in poche settimane metterà fine sia al conflitto in Ucraina che a quello in Medio Oriente.
Il figlio, con termini più brutali, ha dichiarato che a breve gli Stati Uniti smetteranno di dare la “paghetta” a Zelenski.
Lasciando da parte la propaganda è probabile che la nuova amministrazione in politica estera farà un bagno di realismo. Spieghiamoci meglio.
Probabilmente Biden sarà ricordato in futuro come il presidente che dopo l’incomprensibile e vergognosa fuga dall’Afghanistan nell’estate del 2021, tentò di ripristinare la supremazia americana con un approccio muscolare sia nei confronti della Cina che della Russia.
Biden ha mantenuto e rafforzato le restrizioni commerciali contro la Cina, ha ribadito che Taiwan non va toccata e ha trascinato i riottosi alleati europei in una politica meno amichevole e meno accondiscendente nei confronti di Pechino il cui dinamismo economico viene ormai visto come una minaccia per tutto l’Occidente.
Per quel che riguarda la Russia, un Paese fortemente ridimensionato a rango di potenza regionale dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, si è scelto di continuare a considerarla invece una minaccia globale. Il conflitto con l’Ucraina che non inizia nel 2022 ma nel 2014 con l’annessione russa della Crimea e lo scoppio di una guerra a bassa intensità nelle regioni del Donbass tra milizie filorusse e nazionalisti ucraini era, in fin dei conti, un conflitto regionale che si sarebbe potuto risolvere per via politica e diplomatica.
Biden e il suo alleato britannico Boris Johnson decidono di trasformare la mossa sbagliata di Putin, con la sgangherata invasione dell’Ucraina nel febbraio 2022, nell’occasione storica di infliggere alla Russia una sconfitta politica e militare epocale. La formula per realizzare l’insano progetto fu un capolavoro di cinismo: gli americani ci mettono le armi, gli europei ci mettono i soldi e gli ucraini ci mettono il sangue e si andrà avanti fino a quando il regime di Putin non cadrà.
A questo capolavoro di incompetenza storica e politica non poteva mancare l’apporto della baronessa Von der Leyen, una mediocre politicante, che coglie al balzo l’occasione per ritagliarsi un ruolo politico di primo piano trascinando entusiasticamente l’Unione Europea in quest’inutile carneficina.
Come sta finendo la storia è sotto gli occhi di tutti: le pur eroiche armate ucraine non hanno marciato sulla Piazza Rossa di Mosca con gli stendardi al vento mentre Putin andava a nascondersi in qualche buca come fecero a suo tempo Saddam Hussein o Muammar Gheddafi. L’esercito russo avanza lungo tutta la linea del fronte, sia pur con perdite elevate di uomini e mezzi. Gli Stati Uniti di Trump non hanno più voglia di spendere soldi per un conflitto che non reputano strategico perché la minaccia vera per la supremazia statunitense non è la Russia ma la Cina e le ormai insufficienti risorse dell’impero americano vanno concentrate nel poligono asiatico.
Lì si giocherà la partita decisiva nei prossimi decenni per la supremazia planetaria e la scelta di Biden di dare priorità al conflitto contro la Russia non ha fatto altro che fare un regalo a Pechino. La Russia è diventata un alleato stretto della Cina, per non dire un satellite, perché dipende ormai in maniera fondamentale dagli aiuti, economici e militari di Pechino.
Trump in qualche modo troverà una via d’uscita dal pantano ucraino a danno innanzitutto degli ucraini che si ritrovano con un Paese distrutto, con circa il 20% del territorio nazionale in mani russe e tale probabilmente resterà, con centinaia di migliaia di morti, feriti ed invalidi e milioni di espatriati.
Gli altri fessi che resteranno con il cerino in mano saranno gli europei che, dopo aver mantenuto in piedi l’Ucraina con qualche aiuto militare ma soprattutto con l’assistenza economica e finanziaria, dovranno accollarsi il mantenimento e la ricostruzione di quella parte dell’Ucraina che non è occupata dai russi.
Gli Stati Uniti ci hanno rimesso qualche centinaio di miliardi di spese in armamenti ma, se andiamo a guardar bene e facciamo bene i conti, forse le cose non gli sono andate così male. Gran parte degli armamenti forniti all’Ucraina sono prodotti da aziende statunitensi e quindi quegli stanziamenti che uscivano dalla porta rientravano dalla finestra.
Inoltre la crisi con la Russia ha spinto quei gran furbacchioni degli europei a ridurre le importazioni di gas a buon prezzo dalla Russia e ad aumentare quelle, molto più care, di gas liquefatto dagli Stati Uniti.
Verrebbe da dire: “business as usual”, peccato che a questo giro noi europei stiamo dalla parte dei perdenti.
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