La crisi economica della Germania

Scritto da in data Ottobre 15, 2024

La Germania non è più la locomotiva d’Europa e si dibatte tra crisi economica e tensioni politiche.

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La crisi tedesca

Oggi ci occupiamo della crisi della Germania, partendo da alcuni dati sia di carattere economico che politico.
Nel 2023 l’economia tedesca è entrata in recessione anche se la caduta del PIL è stata modesta -0,1% su base annua.

Le ultime previsioni per il 2024 stabiliscono crescita 0% quelle più ottimiste, mentre quelle più pessimiste prevedono un calo dello 0,3%. Quindi l’economia tedesca è ferma. Ma ci sono altri dati preoccupanti.

Il numero dei fallimenti aziendali è in rapida crescita, il comparto automobilistico, architrave del settore manifatturiero tedesco, è in forte crisi.

Ad agosto 2024 le vendite di auto sono diminuite del 28% rispetto allo stesso mese del 2023 e, soprattutto, le vendite di auto elettriche sono diminuite del 40%.

La Volkswagen, il secondo gruppo automobilistico a livello mondiale, per la prima volta nella sua storia, ha annunciato che dovrà licenziare 15.000 persone.

Alla crisi economica si aggiungono le turbolenze politiche

La cosiddetta Ampelkoalition, la coalizione semaforo che governa il paese mettendo assieme Socialdemocratici, Verdi e Liberali, è uscita pesantemente sconfitta sia dalle elezioni europee di fine giugno che da quelle successive nei due Länder orientali della Turingia e della Sassonia.

Nelle recenti elezioni nel Brandeburgo la coalizione governativa ha retto meglio, ma il dato caratteristico di tutte queste tornate elettorali è il successo dei partiti di estrema destra e di estrema sinistra.

A destra l’ascesa di AFD Alternativ für Deutschland, un’organizzazione con venature e infiltrazioni neonaziste si avvicina al 30% dei consensi, a sinistra raggiunge il 12% il nuovo partito BSW Bündnis Sarah Wagenknecht.

Il risultato è ancor più clamoroso se si pensa che questo movimento è stato fondato soltanto all’inizio del 2024 da una leader carismatica, che si chiama appunto Sarah Wagenknecht, fortemente critica nei confronti della sinistra tradizionale, quella che lei chiama la “sinistra neoliberale” o “salottiera”, interessata soltanto ai diritti civili e al politicamente corretto.

Il suo obiettivo è tornare nell’alveo di quella tradizione che, dalla Rivoluzione francese sino agli anni Novanta del Novecento, aveva caratterizzato la sinistra come quella parte politica che combatteva contro le disuguaglianze, per i diritti economici e sociali, per la difesa dei molti contro i privilegi delle oligarchie economiche e finanziarie.

Le ragioni del successo tedesco

Per capire le ragioni di questa crisi dobbiamo fare un passo indietro cercando di comprendere quali erano state le ragioni del successo tedesco negli anni passati.

La Germania è, da sempre, una grande potenza esportatrice. I prodotti industriali tedeschi, dalle auto agli elettrodomestici, ai macchinari, hanno una meritatissima fama di affidabilità.

I tedeschi sono preparati, precisi, efficienti, organizzati, qualità indiscutibili che sono alla base della loro potenza industriale.

Durante l’era della cancelliera Angela Merkel, rimasta in carica dal 2005 al 2021, la Germania raggiunge l’apice della sua potenza e del suo benessere economico.

Un primo elemento di quel successo è il rapporto privilegiato con la Russia di Putin. Angela Merkel era cresciuta nella ex Germania comunista e quindi conosce bene il russo.

Vladimir Putin negli anni Ottanta, quando era un colonnello del KGB, i servizi di sicurezza sovietici, aveva lavorato diversi anni nella Germania dell’Est e conosce bene il tedesco.

I due quindi non hanno difficoltà di comunicazione, si capiscono bene ma soprattutto hanno grandi interessi in comune.
La Germania, potenza industriale, ha bisogno dei prodotti energetici, delle materie prime minerarie e delle derrate alimentari che la Russia produce a buon prezzo.

La Russia, a sua volta, ha bisogno di esportare queste commodities energetiche, minerarie e agricole per sostenere il bilancio dello Stato, avendo un sistema industriale arretrato e poco efficiente.

Putin, inoltre, con metodi spicci, rimette in sesto l’economia russa, dopo i disastri dell’epoca Eltsin e anche in Russia, con una maggiore stabilità economica, comincia a diffondersi un certo benessere e nasce una classe media che ha voglia e disponibilità per consumare i prodotti che vengono dall’Occidente: vini francesi, moda italiana e auto tedesche.

In pochi anni la Germania diventa il principale esportatore europeo verso la Federazione Russa. Ma la Germania è capace di cogliere anche altre due importanti opportunità.

La prima è la graduale espansione verso est e verso i Balcani dell’Unione Europea: Polonia, paesi baltici, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Romania, Slovenia, Croazia, paesi ex comunisti che dopo aver impiegato tutti gli anni Novanta per riconvertire le loro economie dalla rigida pianificazione centralizzata al mercato, aderiscono all’Unione Europea ed entrano a far parte della sfera economica germanica.

Le industrie tedesche delocalizzano impianti produttivi in quei paesi dove il costo del lavoro è più basso, creando opportunità d’impiego e facendo crescere il benessere che a sua volta si traduce, in parte, nell’acquisto dei prodotti industriali tedeschi.
L’Europa orientale diventa sia area di investimento che nuovo mercato d’esportazione per la manifattura tedesca.

Ma la Germania coglie anche l’occasione della crescita cinese riuscendo a diventare in pochi anni il principale partner europeo della Cina. Nel 2023 la Germania ha esportato beni verso Pechino per un valore di circa 94 miliardi di euro.

La Germania, quindi, è stato uno dei paesi che ha saputo cogliere meglio le opportunità della globalizzazione da cui ha tratto enormi vantaggi.

La moneta unica: l’Euro

Ma la Germania ha anche un altro asso nella manica che la signora Merkel si gioca con grande abilità politica: la moneta unica, l’Euro. Quando in un’analisi economica si mette in mezzo la moneta le cose si complicano parecchio e bisognerebbe entrare in disquisizioni tecniche nelle quali non ci vogliamo addentrare.

Cerchiamo quindi di spiegare le cose in maniera forse un po’ grossolana ma facilmente comprensibile per tutti.

L’Euro è una valuta che deve tenere assieme economie di paesi molto diversi, la Finlandia con il Portogallo, la Slovacchia con Cipro, l’Irlanda con la Grecia.

Inevitabilmente l’Euro sarà il frutto di un compromesso tra tutti i paesi aderenti e, in ogni compromesso, qualcuno guadagnerà di più e qualcun altro guadagnerà di meno.

Prendiamo il caso di due dei principali paesi europei, la Germania e l’Italia.

Prima dell’Euro la Germania, grande paese esportatore, aveva il Marco una delle valute più forti al mondo, mentre l’Italia, altro grande paese esportatore, aveva la Lira una valuta molto più debole.

Aderendo all’Euro la Germania ha adottato una valuta più debole rispetto al Marco ed è come se le sue esportazioni si fossero deprezzate, costavano di meno e quindi era più facile venderle all’estero, dando alla Germania un indubbio vantaggio competitivo.

Al contrario, per l’Italia, l’Euro è una valuta molto più forte della vecchia Lira e quindi è come se i prodotti italiani costassero di più, per cui diventa più difficile esportarli. Quindi con l’Euro la Germania, grande esportatore, ha ulteriormente accresciuto le sue esportazioni mentre l’Italia, altro grande esportatore, è stata penalizzata.

Quando nel 2008 scoppia la crisi finanziaria innescata dal fallimento della banca d’affari americana Lehman Brothers, l’Euro mostra i suoi limiti.

È una valuta forte e importante ma è una moneta senza uno Stato alle spalle. L’Unione Europea è un grande progetto, forse un po’ velleitario e non ha la forza e la capacità di decisione di uno Stato.

È un’unione di paesi con caratteristiche e interessi anche molto diversi che sono riusciti nell’impresa, non facile, di creare un mercato comune abbattendo dazi e altri vincoli agli scambi, con indiscutibili vantaggi per tutti ma poi si è infilata in una gabbia monetaria, l’Euro, senza dare alla Banca Centrale Europea quella forza e quei poteri che hanno tutte le altre banche centrali del pianeta.

Con l’arrivo della tempesta finanziaria i limiti dell’operatività della BCE vengono al pettine.
A quel punto la Germania, che ha l’economia più forte dell’area Euro, impone a tutti gli altri paesi le politiche di austerità.

L’arcigno ministro dell’economia tedesco Shäuble e la cancelliera Merkel vogliono a tutti i costi evitare che l’Unione Europea diventi una vera unione politica mettendo assieme non solo la moneta ma anche i debiti pubblici di tutti i paesi aderenti.

Non vogliono quindi neanche che la BCE diventi una vera banca centrale, affrontando la crisi finanziaria con l’emissione di moneta.

Le politiche di austerità

Mentre americani e cinesi affrontano la crisi mettendo mano al portafoglio e, quindi, iniettando nelle rispettive economie risorse gigantesche per far fronte al calo della domanda privata, nell’Unione Europea si va in direzione contraria.

È come se per affrontare una carestia invece di aumentare le razioni alimentari si consigliasse il digiuno. Ovviamente la ragione di questa scelta sconsiderata era politica, non economica.

In realtà all’epoca qualcuno teorizzò addirittura la cosiddetta “austerità espansiva” un ossimoro che fa la sua bella figura nell’enciclopedia delle teorie più bislacche partorite dalle fervide menti degli economisti.

Il risultato di quelle scelte furono la crisi dei debiti sovrani di Spagna, Portogallo, Grecia e Italia.
Con il caso greco si corse persino il rischio di far saltare per aria l’intera costruzione europea.

Ma i tedeschi che, come sempre nella loro storia, un po’ ci sono e un po’ ci fanno, le regole dell’austerità non le imponevano soltanto agli altri, ma con teutonica coerenza le imposero anche a sé stessi, introducendo in Costituzione la regola del pareggio di bilancio.

I risultati di quella scelta – lo ribadiamo, una scelta politica non economica – furono che per un decennio l’Unione Europea ha avuto una crescita asfittica e anche gli investimenti pubblici, che sono da sempre uno dei principali motori dello sviluppo economico a qualsiasi latitudine, furono pesantemente ridotti.

La crisi del modello tedesco

Come sempre accade nella storia, prima o poi i nodi vengono al pettine e anche il modello di sviluppo tedesco entrò in crisi.
Quel modello si basava su materie prime a basso costo provenienti dalla Russia, grandi avanzi commerciali grazie alla forza delle sue esportazioni e grazie alla fase espansiva della globalizzazione, austerità imposta con metodi anche spicci come avvenne nel caso greco, riduzione drastica degli investimenti pubblici anche nella stessa Germania.

Negli ultimi anni la globalizzazione entra in crisi. Prima con la guerra dei dazi tra Stati Uniti e Cina, primo sintomo di uno scontro geopolitico per la supremazia mondiale sempre più muscolare.

Poi, nel 2020 arriva la pandemia da Corona Virus che disarticola le catene globali del valore.
Infine, nel 2022 l’aggressione russa all’Ucraina rimette in discussione il rapporto privilegiato che la Germania aveva costruito in passato con la Federazione Russa.

A tutto ciò si aggiungono ulteriori problemi di natura interna. L’industria tedesca è energivora, è specializzata in settori dal metalmeccanico al chimico che consumano grandi quantità di energia e quindi il prezzo dei prodotti energetici è un elemento decisivo per la competitività della manifattura tedesca.

Ma con la guerra in Ucraina e le sanzioni alla Russia il prezzo del gas si è moltiplicato per n volte. Nello stesso tempo la Germania stava completando la dismissione delle sue centrali nucleari, abbandonando una fonte energetica certamente rischiosa ma che aveva il vantaggio di costare poco.

Dulcis in fundo la Commissione Europea, guidata dalla tedesca Von der Leyen, varava un grande programma di transizione energetica con l’obiettivo di abbandonare entro un decennio i motori endotermici a vantaggio di quelli elettrici.

Un piano definito da alcuni molto ambizioso, forse troppo, col rischio che da ambizioso diventi più probabilmente velleitario.
La transizione totale all’elettrico senza adeguati investimenti pubblici per costruire le infrastrutture, per esempio di distribuzione energetica e di ricarica, diventa problematica.

Le grandi case automobilistiche stanno investendo molto sull’elettrico, ma allo stato attuale questa tipologia di auto risulta ancora mediamente più costosa di quelle tradizionali e convincere i consumatori a cambiare l’auto in un periodo di inflazione elevata nel quale i redditi delle famiglie sono stati falcidiati, diventa oltremodo complicato.

Le auto elettriche, inoltre, non hanno ancora le prestazioni e l’autonomia di quelle tradizionali, per non parlare delle oggettive difficoltà di rifornimento.

Senza un grande piano di investimenti pubblici, affidandosi soltanto agli investimenti privati, l’ambizioso Green Deal della baronessa Von der Leyen si trasformerà in un Green Fail, in un clamoroso fallimento. Se a ciò aggiungiamo che gli americani e soprattutto i cinesi sulle tecnologie dell’elettrico sono avanti di anni rispetto agli europei, si capisce che il percorso è tutto in salita.

I cinesi, inoltre, sono leader mondiali nella produzione delle batterie elettriche e, quindi, il rischio è quello di legarsi alle forniture cinesi di batterie riproponendo, come si fece a suo tempo con il gas russo, una forma di dipendenza strategica da un fornitore ritenuto politicamente non affidabile.

Le difficoltà economiche, inoltre, fanno perdere consensi alla debole coalizione governativa tedesca soprattutto nei Länder orientali.

Negli anni Novanta le due Germanie furono unificate con investimenti enormi, ma le due aree del paese restano differenti per mentalità e per livello di sviluppo economico e sociale.

Nei più poveri Länder orientali, dove una percentuale elevata di popolazione vive di sussidi pubblici, cresce il malcontento che in parte si riversa contro gli immigrati, aizzato da forze ultranazionaliste e xenofobe come Alternativ für Deutschland.

Un’altra parte trova sfogo nel nuovo movimento di Sarah Wagenknecht che accusa la sinistra tradizionale di aver venduto l’anima al grande capitale e alla finanza e vuole riportare al centro dell’agenda politica il tema cruciale delle disuguaglianze.

Il futuro della Germania e dell’Unione Europea

Se e come la leadership tedesca riuscirà a venire fuori da questa crisi nessuno lo sa, ma nessuno può far finta di nulla, perché la Germania è la più grande economia europea e le sue disgrazie finiscono inevitabilmente per essere anche le nostre.

La miopia strategica della Germania di Angela Merkel risulta oggi sempre più evidente. Certamente è l’evidenza del “senno del poi”, tutti sono bravi a fare i critici a distanza di tempo, compresi i molti che per anni hanno esaltato il modello tedesco e l’acume politico della cancelliera Merkel, però per capire che le politiche di austerità e di riduzione degli investimenti pubblici fossero una fesseria non ci voleva un premio Nobel.

Mentre gli Stati Uniti e la Cina uscivano dalla crisi del 2008 alzando lo sguardo verso l’orizzonte, cercando di immaginare e costruire il futuro investendo cifre colossali nelle telecomunicazioni, nella robotica, nell’Intelligenza Artificiale, nelle tecnologie green; la Germania e tutta l’Unione Europea, si guardavano le scarpe e sprecavano tempo ed energie litigando sui dettagli contabili delle regole di Maastricht.

Mentre le tecnologie, e con esse il mondo, cambiavano, i tedeschi e gli europei si baloccavano con le regolette dello “0 virgola qualcosa” su deficit, debito e altre amenità simili.

La miopia strategica tedesca e la colpevole accondiscendenza degli altri paesi europei, troppo deboli o troppo pavidi per sfidare la potente Germania, condannavano l’Europa  ad un periodo di crescita asfittica. Ma se tu resti fermo mentre gli altri crescono, ti sei già condannato al declino.

Nel 2008 il PIL dell’Unione Europea era circa pari a quello degli Stati Uniti; quindici anni dopo, nel 2023 il PIL americano è del 40% più alto di quello dell’Unione Europea. Se il raffronto lo si fa con la Cina è ancora più impietoso.

Nell’establishment europeo c’è la consapevolezza del problema.

Mario Draghi, nel suo recente Report sul futuro dell’Unione, faceva presente che tra le prime 50 aziende tecnologiche del pianeta solo 4 sono europee. Tra le prime dieci banche del pianeta nessuna è europea.

Per colmare il gap con Stati Uniti e Cina la proposta di Draghi è un piano straordinario di investimenti per i prossimi 5 anni di circa 700-800 miliardi di Euro all’anno, altro che regolette di bilancio e austerità.

Ma la consapevolezza da sola non basta, se non c’è la volontà politica di agire finisce per essere soltanto un fantastico libro dei sogni.

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